La città di Pietro

23/04/2011

24 febbraio 2022: ” a date which will live in infamy”.

Ucraina, Termopili d’Europa.

………….
E un onore più grande gli è dovuto
se prevedono ( e molti lo prevedono)
che spunterà da ultimo un Efialte
e che i Medi finiranno per passare.

(Konstantinos Kavafis, Termopili, traduzione di Nelo Risi)

Mostra i tuoi colori, città di Pietro
E sii incrollabile, come la Russia..

Alexander Puskin
(Citato da I novecento giorni, di Harrison E. Salisbury)

Prologo.

Agli inizi del Settecento, Pietro il Grande, zar di tutte le Russie,  fondò  San  Pietroburgo sulle rive della Neva( in russo Nivà), in una zona, in origine,  inospitale  e paludosa. Mai capitale costò più  cara. Per edificarla, infatti,  furono necessarie  ricchezze  enormi e l’impiego di  più di centomila operai. Ma Pietro era fatto così: quando  voleva una cosa ,  non badava a spese per  ottenerla . Qualche anno dopo, ad esempio,  per avere ragione del re di Svezia  Carlo XII,   non esitò a sacrificare in battaglia , a Poltava,   la vita di dieci dei suoi per quella di un solo svedese. Guadagnandoci nel cambio,  si vantò .
Quella di San  Pietroburgo era terra  di confine da tempi immemorabili e, da tempi immemorabili, su quella terra era corso molto sangue. Fin da quando, secoli prima, il principe di Nòvgorod,  Alexander Jaroslàvic  aveva sconfitto duramente a poca distanza dalla Neva  gli  invasori svedesi, gettando le basi della futura Russia e guadagnandosi, in eterno,  l’appellativo di Alexander Nevskij.
Molto tempo dopo, da quelle parti,  su quel sangue e pagata con altro sangue,   era sorta  San  Pietroburgo. Nelle intenzioni di Pietro il Grande, suo fondatore,  essa avrebbe dovuto essere   un bastione rivolto verso l’Europa, la dimostrazione tangibile della potenza russa,  una sfida e, nello stesso tempo,  un ammonimento.
Caterina II-  la Grande Caterina –  la ampliò e la riempì di colori,  facendo di quella città  il centro della vita culturale  della Russia.  Nella città di Pietro fiorivano le arti e le scienze,  si parlava francese, circolavano  le idee. Si tentavano persino  cambiamenti politici e sociali. Ci provarono, nella prima metà dell’Ottocento,  alcuni  giovani e brillanti ufficiali-  i cosiddetti decabristi–   ma invano; ci riuscì, quasi un secolo dopo e a prezzo di altro sangue,  Vladìmir Uliànovic Lenin. Con lui  San  Pietroburgo e l’intera Russia divennero sovietiche.

Diciassette  anni dopo la Rivoluzione, il primo dicembre del 1934, a Leningrado,  Leonid Nikolaiev uccideva con un colpo di pistola il brillante segretario del partito, Sergeij Kirov. Kirov era, a suo modo,  un tipo scomodo. Correva voce che godesse, nel Paese e ai vertici dell’apparato,  di maggior seguito di Stalin. Il suo assassinio- mai chiarito, per altro-  fu il pretesto per una gigantesca caccia all’uomo. Il partito di Leningrado fu smantellato, i suoi vertici deportati o fucilati; in tutta l’Unione Sovietica cominciò il periodo delle “purghe”. L’Armata Rossa pagò un prezzo terribile : tre marescialli su cinque  scomparvero nel nulla; tutti o quasi i comandanti d’armata furono destituiti o fucilati; numerosi ufficiali subalterni furono privati del grado, deportati  o giustiziati. Il futuro eroe dell’Unione Sovietica, il  maresciallo Konstantin Rokossovskij, trascorse un lungo periodo in un campo di “ rieducazione”, prima di essere riconosciuto innocente.
Pietro il Grande era tornato.


Qualcosa si muove.

Andrej Zdanov, il potente segretario del Partito Comunista di Leningrado e, stando ai si dice, successore designato di Stalin,   non si stancava di ripetere il solito ritornello: “ La Germania non può affrontare la guerra su due fronti”. E, allora- ribatteva qualcuno-  perché tutti quei movimenti di truppe tedesche  a ovest dell’Unione Sovietica ? Perché quei voli  continui sulle posizioni russe del Baltico? “ Guerra psicologica o questioni di sicurezza, nient’altro”,  era  l’immancabile  risposta. I militari  del Distretto di Leningrado pensavano: se un esponente così in vista del Partito qual è Zdanov non è preoccupato, dovremmo esserlo noi? Ma faticavano a farsene una ragione. Forse la Germania non avrebbe combattuto su due fronti, ma, di sicuro, teneva d’occhio l’Unione Sovietica.
Anche troppo.
Era primavera inoltrata , pioveva spesso, faceva ancora freddo.  Ma presto, molto presto sarebbe arrivata l’estate con le sue notti bianche e allora gli abitanti di “Piter”, come ancora era chiamata confidenzialmente Leningrado, avrebbero tirato tardi, godendosi il fresco lungo la Neva o nei giardini della città . Presto, molto presto, gli innamorati, nel caldo sole di giugno,  avrebbero passeggiato  mano nella mano facendo progetti sul proprio futuro. Ma quale futuro?
Per ora il futuro non preoccupava lo scrittore Alexander Luknitzkij ,  a passeggio per la vie di Leningrado   accompagnato dal suo cane Mishka. Tutto era tranquillo, era una bella giornata. Il cagnolino  scorrazzava in lungo e in largo come suo solito . Era felice e si fidava del padrone. E il padrone salutava questa o quella signora, questo o quel conoscente, sempre tenendo  d’occhio il suo amico a quattro zampe, badando che non  si allontanasse troppo.
Era sabato, sabato 21 giugno. Un sabato qualunque , a  Leningrado.
Un sabato qualunque?
Non per l’ammiraglio Arsenij  Golovko, capo dei servizi di  terra della Marina. Nei giorni precedenti aveva segnalato  a Mosca numerosi voli  di ricognizione  da parte di aerei tedeschi. Mosca  aveva risposto tenendosi sul vago, come sempre. E ammonendo, come sempre,  di non cadere in provocazioni di sorta.  Quel sabato , nel cielo sopra Leningrado non era comparso  un solo aeroplano . I  tedeschi si erano  stancati o  stavano  preparando qualcosa? Golovko era preoccupato.  Ad ogni modo, pensò,  inutile farsi il sangue cattivo: meglio andare  a teatro e godersi lo spettacolo. E così  fece.
Anche il vice- ammiraglio Vladìmir  Tributz, comandante della flotta del Baltico  alla fonda nel porto di Tallin, in Estonia, era inquieto. Troppi voli tedeschi, troppi movimenti  di truppe: qualcosa era nell’aria. Ma che cosa? Meglio stare sul sicuro: mise la flotta in allarme 2 e chiese a  Mosca l’autorizzazione a posare mine a scopo precauzionale. L’ammiraglio N. G. Kutnètzov, Commissario alla Marina,  gli rispose  di stare sul chi vive, ma  di evitare qualsiasi provocazione. Per quanto riguardava la posa delle  mine, niente da fare.
Ma neppure lui  era tranquillo: forse sarebbe stato  più prudente   impartire alla flotta del Baltico, a quella del Mar Nero, a tutte le navi sovietiche lo stato di massima allerta. Già, ma come riuscirci senza fare imbufalire Stalin, convinto che  tutti quei movimenti, tutte quelle voci  di guerra fossero soltanto propaganda o un’astuta manovra anglo-americana per mettere i tedeschi e i russi gli uni contro gli altri?
L’ammiraglio  ci pensò un po’ su , poi trovò la scappatoia: impartì alle flotte l’ordine di entrare in allarme 1  spacciandolo per  un’esercitazione. Anticipò di poco i tempi: qualche ora dopo, infatti,   l’ordine ufficiale  di massima allerta arrivò  direttamente dal Cremlino. Recava la firma  del nuovo capo di stato maggiore, il generale  Georgij Zukov.
L’ordine di Zukov  non deve trarre in inganno : pochi, in Unione Sovietica,   credevano ancora  veramente  o volevano credere  alla guerra. Qualche giorno prima,  il 13 giugno,  la Tass , l’agenzia di stampa sovietica, aveva ribadito l’infondatezza di tutte le voci relative a un attacco tedesco.  E  i soldati, i cittadini  dovevano forse dubitare degli organismi ufficiali?  Non ci sarebbe stata guerra:  se lo diceva Mosca, se lo scriveva la Tass era vero.
Non era vero.


Barbarossa.

I tedeschi lanciarono la loro offensiva, l’operazione Barbarossa,  all’alba del 22 giugno, domenica,  lungo tre direttrici:   Leningrado, Mosca ,  Kiev. I sovietici  furono colti completamente di sorpresa.
Eppure erano stati avvisati per tempo, conoscevano  persino la data  e l’ora dell’attacco.  E, allora,  se sapevano, perché  non cercarono subito di correre ai ripari? La risposta è semplice: perché Stalin non credeva a un’aggressione tedesca  o non voleva crederci. Secondo lui, tutte quelle voci di guerra  erano  una provocazione, nient’altro. In fin dei conti, i due Paesi erano ancora  uniti  da un patto di amicizia e di non aggressione( il cosiddetto “Patto Ribbentrop- Molotov”), sempre rispettato dai sovietici.  E  tanto  bastava.
All’ultimo minuto, tuttavia, Stalin fu assalito da scrupoli e tormentato da dubbi. Allora si mosse, cercando di  vedere le carte in mano a Hitler , ma il suo tentativo   fu goffo e, soprattutto, inutile. Von Ribbentrop, ministro degli Esteri del  Reich  non si fece vedere né trovare per  l’ intera giornata di sabato 21 giugno, mentre l’ambasciatore sovietico a Berlino, Dekanozov, lo cercava per mare e per terra. Von Weizaecker,  primo segretario del Ministero, contattato verso sera,   non fu affabile   e disponibile come suo solito. “  I nostri aerei vi attaccano? A me risulta il contrario” disse gelido  a un sempre più  disorientato Dekanozov. Né era andata  meglio a Molotov: aveva convocato  al Cremlino l’ambasciatore  tedesco von Schulenburg, ma non era riuscito  a cavare un ragno dal buco.
Perché tutto quel movimento diplomatico? Stalin era pronto ,  pur di evitare la guerra, a fare concessioni politiche e territoriali anche consistenti? Forse sì, forse no. Ad ogni modo era tardi per qualsiasi cosa.  A sera inoltrata, von Ribbentrop comparve : era teso, eccitato e  forse ubriaco. Fece convocare Dekanozov  e gli consegnò la dichiarazione di guerra. Poi, con le lacrime agli occhi, rimarcò davanti all’ambasciatore sovietico  la propria estraneità a quella decisione.
Era la guerra, dunque. Ma, nonostante l’evidenza, si faticava a  crederci. Quando aerei nazisti attaccarono Sebastòpoli, in Crimea,  un ufficiale   sovietico della contraerea  fu diffidato dall’aprire il fuoco: ignorò l’ordine, rischiando  la fucilazione. Altrove, a Libau , sul Baltico,  l’autorizzazione fu concessa   solo quando gli aerei nemici ebbero sganciato le loro bombe.
Il generale d’armata D.G. Pàvlov, comandante del Distretto Speciale d’Occidente, era a teatro a Minsk quando gli venne comunicata la notizia dell’attacco tedesco. “ Non può essere”, commentò” E’ una sciocchezza”. Il Commissario alla Difesa Semjon  Timoschenko,  chiamò da Mosca e ammonì: “ Vietato aprire il fuoco senza autorizzazione contro gli aerei tedeschi ”.  Forse si credeva, forse   si sperava, in una specie di bluff e non si voleva commettere un passo falso , fornendo a Hitler un pretesto per affondare il colpo.
Ma Hitler non bluffava: faceva sul serio. I suoi  andavano di gran carriera , circondavano le divisioni sovietiche , distruggevano  al suolo  gli aerei , prendevano una città dopo l’altra.   Von Leeb avanzava  verso Leningrado da due direzioni- con la XVIII Armata   verso Pskov- Ostrov e , con la XVI Armata, verso Kaunas e la Dvina-  in perfetto orario, sfasciando le difese terrestri  sovietiche, usando come maglio   il formidabile  4° corpo corazzato del generale Hoeppner.
Hitler era stato chiaro: prima Leningrado, poi Mosca. E la manovra di  von Leeb era stata disegnata in funzione di quell’ordine e del tempo stabilito  per avere ragione dell’antica  città di Pietro:  un mese. E bisognava rispettarli, i tempi. Perché secondo i piani ,  una volta presa  Leningrado, le divisioni del Gruppo Nord avrebbero dovuto operare  una conversione verso Mosca per chiudere la tenaglia insieme al Gruppo di  Armate Centro.  Per von Leeb tempo contato e  vietato sbagliare, dunque.


Verso Leningrado.   

A ovest e a sud-est,  Leningrado era sguarnita o quasi. Per i sovietici,  il confine   pericoloso era, da sempre,  quello con la Finlandia, vale a dire quello settentrionale. Lì erano state erette fortificazioni, lì erano state ammassate truppe. In Estonia, in Lituania, in Lettonia, si era fatto poco. In primo luogo perché quegli stati erano entrati a far parte dell’Unione Sovietica da appena un anno; in secondo luogo, perché la maggior parte della popolazione baltica  non  aveva  digerito quell’annessione e non ne faceva mistero e, in terzo luogo, perché erano attivi gruppi armati di  nazionalisti ostili all’URSS. Negli stati baltici,  insomma, la polizia lavorava a pieno ritmo, l’Armata Rossa un po’ meno.
A Tallin era alla fonda la potente  flotta  sovietica del Baltico, ossessione di Hitler; nel retroterra erano state erette  qua e là linee difensive  ancora approssimative e  disseminate truppe. C’erano sempre seicento chilometri o giù di lì, fra la frontiera con la Germania  e Leningrado, una bella distanza senza dubbio, ma un piano generale di difesa mancava.
Stando così le cose, i sovietici, di fronte allo strapotere nazista,  non  potevano fare miracoli. Kaunas fu presa in men che non si dica , nonostante la resistenza accanita delle guardie  di frontiera; numerose  divisioni  prive di ordini o con ordini  senza capo né coda (  tipo: contrattaccare e  riprendere Kaunas), furono sorprese in movimento e spazzate via. Altre si diressero alla cieca verso posizioni troppo distanti o già in mano nemica. Von Manstein , alla testa del suo Corpo corazzato  , passò il Niemen ad Alytus,  raggiunse la Dvina a Dvinsk e si spinse  avanti  , transitando sui ponti rimasti intatti. Era il 26 giugno e i carri nazisti, sul fronte nord,  erano penetrati per quasi centoottanta chilometri in territorio sovietico.  Un disastro, insomma.
Ma un trionfo, per gli aggressori. Hitler sprizzava gioia da tutti i pori; Halder, il suo capo di stato maggiore, non era da meno. E Stalin? Stalin, dopo l’iperattivismo delle prime ore successive all’invasione, non reagiva. Era come se fosse caduto in catalessi . Per più di una settimana, passerà  ore e ore chiuso nella sua stanza al Cremlino o nella sua dacia fuori città  incapace di prendere decisioni, incapace, quasi, di parlare.
Parlò invece Molotov, a mezzogiorno del 22, ora di Mosca. Siamo stati attaccati  a tradimento, disse,  senza una ragione e senza un motivo. Ma siamo nel giusto e vinceremo. Nella città di Pietro, qualcuno si chiese  : “ Perché  parla Molotov e non Stalin?”. Chi li aveva, si precipitò in banca   a ritirare i propri  risparmi; tutti fecero incetta di viveri. Il cibo in scatola, di solito detestato  dai russi, andò a ruba. Ma  andò a ruba anche il caviale.


I nazisti si muovevano con la velocità del fulmine, ma  avevano fatto i conti senza  l’oste . Benché prive di  ordini o con ordini contraddittori, le divisioni sovietiche si battevano con coraggio e tenacia, prima di essere spazzate via. La popolazione collaborava. Intendiamoci : non tutti nella città di Pietro  stravedevano  per Stalin e per il comunismo, ma,  vistosi aggredito, ognuno  si sentiva in dovere di battersi fino in fondo per la difesa della città.  Gli abitanti di Leningrado, dunque,  si mobilitarono o vennero mobilitati.  Chi non poteva imbracciare  un fucile, scavava trincee e sbarramenti anticarro o, come facevano i poeti e gli scrittori, parlava alla radio per tenere alto il morale della popolazione.
La tenace  resistenza sovietica rallentava von Leeb. Il generale  Leliùscenko , ad  esempio, riuscì  a fermare, seppure per poco, nientemeno che von Manstein. Anche  in altri punti del fronte  si tentarono  contrattacchi.  Dal canto suo, il generale (poi maresciallo) Kirill Mèretzkov, un veterano dell’Armata Rossa, combattente  durante la guerra civile spagnola, spedito a Leningrado direttamente dalla Lubjanka -dove era stato detenuto e torturato-  per adottare le misure più idonee per fronteggiare  un’eventuale aggressione ,  fece fortificare la zona di Psokv- Ostrov,  poi  la linea  dell’antico confine con la Finlandia, situata a una trentina di chilometri da Leningrado, quindi, a ovest, quella  sul fiume Luga e, per finire,  aprì un secondo fronte  nei pressi di Volkov, a nord-est dell’antica  San Pietroburgo.
Gli accorgimenti adottati da Meretzkov, funzionarono. A metà, ma funzionarono. Se non fermarono i tedeschi, ne rallentarono comunque  la marcia.
Sulla Luga, von Leeb  impiegò quasi  un mese per avere ragione delle truppe sovietiche e delle  male addestrate ,  raccogliticce, ma valorose milizie popolari – i Volontari del Popolo- e per spingersi avanti. Ma era già agosto, l’8 per la precisione, e la tabella di marcia fissata da Hitler   era saltata. Sul fronte settentrionale,  a prezzo di durissimi combattimenti, i finlandesi furono fermati o preferirono fermarsi. Ma  non bastò. Quando i tedeschi occuparono  la stazione   ferroviaria di  Mga, interrompendo  qualsiasi comunicazione via terra  con il resto della Russia, con Mosca in particolare,  Leningrado fu isolata.
E la flotta del Baltico, la tanto temuta flotta del Baltico? Aveva lasciato Tallin in  mezzo a una confusione indescrivibile. A causa delle mine e degli attacchi aerei  continui aveva subito perdite  consistenti , soprattutto in vite umane, ma era riuscita a raggiungere Kronstadt. E , da lì, i cannoni dell’incrociatore Kirov e delle altre navi da guerra sovietiche , non cessavano di martellare le posizioni  nemiche, nel tentativo di dare  respiro alla città.
Era una brutta situazione. A questo punto, direttamente da Mosca il generale   Zùkov  fu spedito a Leningrado.  Georgij Kostantìnovic  Zukov   capiva poco i sacri testi del marxismo, aveva un  pessimo carattere , ma ci sapeva fare. Figlio di un ciabattino poverissimo, sottufficiale nell’esercito zarista prima, ufficiale in quello sovietico poi,   si era fatto le ossa  in Estremo Oriente,  dove sul  Chalkin-Gol le aveva suonate ai giapponesi. Dopo quel successo,  Stalin lo aveva chiamato al Cremlino  e ne aveva fatto uno degli ufficiali più in vista dell’Armata Rossa. Non aveva peli sulla lingua, Zukov. Neanche con Stalin. In sua presenza, alzava spesso la voce: non gliele mandava a dire, insomma.  E , stranamente,  Stalin non reagiva  e , a volte, almeno nei primi tempi,  sembrava subirne  la personalità.
Correva una leggenda: prima di ogni battaglia, Zukov raccoglieva un pugno di terra e l’annusava: poi decideva se attaccare o meno.  Leggenda a parte, era molto deciso, persino spietato.  Una volta il generale Eisenhower gli chiese come facessero i sovietici ad affrontare i campi minati. Rispose: la fanteria attacca come se il campo minato non esistesse. Il tipo era questo.


Il nemico oltre le porte.

Quando Zukov arrivò a Leningrado, la situazione era disperata. I nazisti , sfondata la linea della Luga e presa Mga,  premevano e stavano per impadronirsi della città. D’ora in avanti, ordinò  Zukov, non ci si ritira più, si attacca. Nello stesso tempo, però, furono allestite   linee difensive, aperte feritoie nei palazzi e nelle abitazioni , costruite casematte; ci si preparò ad affrontare il nemico casa per casa; l’intera Leningrado fu minata. Il porto di Kronstadt fu riempito di bombe di profondità collegate a un  unico detonatore : né il porto né la flotta dovevano cadere in mano nemica. Tutto sarebbe dovuto saltare in aria se i tedeschi avessero sfondato.
Ci andarono vicino, ma non sfondarono. Arrivati sulle rive della Neva, non  riuscirono ad attraversarla: ci provarono, ma invano. Così, andarono a farsi benedire  la possibilità del congiungimento  con i finlandesi in arrivo da nord e il sogno di Hitler di prendere alle spalle Mosca.  Che cosa li trattenne? Forse mancavano di pontoni , forse non si aspettavano  di dover attraversare il fiume sotto un fuoco intensissimo, forse erano stanchi  e provati dalla tenace resistenza sovietica e dai contrattacchi di Zukov, forse sottovalutarono il nemico.
Eppure sarebbe bastato poco. I sovietici, conciati male com’erano, non ce l’avrebbero fatta a fermarli. I tedeschi, invece, raggiunto il fiume,   tentarono soltanto qualche episodica sortita, ma non ci provarono mai in forze. E  a questa inspiegabile  leggerezza, Leningrado dovette, per la seconda volta dopo la Luga, la salvezza. A Lìgovo, ad esempio, nei sobborghi della città, i sovietici erano  attestati attorno  a un edificio,  casa Klinovskij, ed erano quattro gatti. Ma quei  quattro gatti , nonostante il terribile  impeto tedesco, tennero duro e , col passare delle ore , ricevettero rinforzi, artiglieria, lanciarazzi katiuscia,  divennero sempre più numerosi e fu impossibile sloggiarli.
A volte, i soldati di entrambe le parti, stanchi morti, si fermavano per rifiatare.  Durante una di queste pause , un soldato sovietico intonò, come sanno fare soltanto i soldati russi,  una vecchia canzone popolare. Quando il canto finì, accadde una cosa inaspettata:  si udì una voce dall’altra parte della trincea invocare  : “ Ancora, russo! Ancora!”
In settembre, i  tedeschi ci  avevano provato  anche  dal cielo.   Ondate successive di bombardieri ,  scarsamente contrastati , avevano scaricato  tonnellate e tonnellate di bombe su Leningrado, mietendo vittime, minacciando i tesori artistici  dell’Ermitage, stivati in fretta e furia nelle cantine e nei sotterranei del museo, colpendo caserme, ospedali, installazioni militari, abitazioni di civili. E i magazzini Badajev, soprattutto. Con i magazzini,- centrati in pieno- erano andate  a fuoco tonnellate e tonnellate di viveri: l’intera scorta di Leningrado. I sovietici , poco prudenti o accorti, avevano colpevolmente trascurato  di immagazzinare i viveri in luoghi diversi, al fine di  rendere i depositi meno vulnerabili in caso di attacco.

Da Leningrado  si partiva.  Partivano i bambini, soprattutto.  Sempre troppo pochi, però e in modo del tutto improvvisato. Molte delle  località verso le quali venivano sfollati, tanto per fare un esempio, si trovavano  lungo la direttrice di marcia  dei  tedeschi in avanzata.  Mancava, infatti, un piano complessivo di evacuazione: sottovalutazione degli eventi o speranza di poter respingere gli invasori?
A Leningrado  si  arrivava. Arrivarono  la nota poetessa Vera Imber  e il marito, un medico famoso, in procinto di assumere l’incarico di primario all’ospedale cittadino.  Fu una questione di puro patriottismo: stare nelle retrovie, confidò la poetessa a un’amica, ci sarebbe sembrato un atto di viltà.
Non  se ne andavano  solo le persone. Da Leningrado erano partiti, in due riprese,  imballati con cura, alcuni  dei  tesori dell’Ermitage: i Leonardo, i Rubens , i Raffaello, i Rembrandt, gli El Greco;  da Leningrado partivano , a pezzi per essere rimontate altrove, molte fabbriche.   A Leningrado, tutti  combattevano per la città  o lavoravano  per la città  , donne comprese. E tutti si aspettavano il peggio.
Poi,  un  giorno,   i  tedeschi si misero a scavare  trincee. Il formidabile Corpo corazzato del generale Hoeppner era stato tolto a von Leeb  intorno alla metà di  settembre  e spedito sul fronte di Mosca. Dove, in fretta e furia, ai primi di ottobre fu richiamato anche Zukov perché, annusando o meno la terra,  compisse un altro miracolo. Il comando passò allora al generale Ivàn  Fediuniskij ( poi al generale Michail  S.  Chozin).  Senza il  Corpo corazzato  di Hoeppner, i tedeschi,  già dentro Leningrado, avevano perso  spinta e velocità e, per ordine di Hitler, si erano fermati.
Zukov,  lo spasìtel  , il salvatore, aveva vinto la battaglia di settembre.

Quando vide i soldati  tedeschi lavorare di zappa,  la popolazione  di Leningrado trasse un profondo sospiro di sollievo : la città e  i resti  della flotta del Baltico, per il momento, erano salvi.  Sull’antica fortezza di Schlisselburg -l’antica  Orescek,  l’”Osso duro” di Pietro il Grande-    sventolava la bandiera rossa: per quanto tempo ancora avrebbe continuato a  sventolare?
A lungo  Hitler aveva accarezzato il sogno di entrare a Leningrado da vincitore, di passare in rassegna le truppe schierate ,  di festeggiare la vittoria all’Hotel Astoria. La necessità di conquistare Mosca gliene aveva impedito la realizzazione. Per prendere la capitale sovietica  aveva spostato truppe da Leningrado, indebolendo la pressione di von Leeb sulla città di Pietro.  Ma la necessità di conquistare Mosca non gli avrebbe impedito di decretare la morte per fame di Leningrado.  E  non glielo impedì.  Dichiarò: non è nostro compito nutrire tutta la popolazione di Leningrado. Se  prendiamo la città, dovremmo farlo: non possiamo permettercelo. Von Leeb fu avvertito: stringere la città in una morsa mortale e se la città si arrende, rifiutarne la resa. Hitler aveva  deciso: Leningrado sarebbe dovuta sparire dalla faccia della terra e, con essa, l’intera sua popolazione. I finlandesi, interpellati in merito, non ebbero nulla da obiettare.
Per  la città di Pietro    stavano  arrivando i giorni della prova suprema.

Il principe Mìshkin e la principessa Mìshkina.

L’incendio dei magazzini Badajev fu un colpo terribile. Le scorte di viveri erano andate, letteralmente, in fumo.  La città, allora,  fu rivoltata  da cima a fondo , alla ricerca di qualcosa di commestibile. Se ne occupò un instancabile  funzionario, Dimitri Pavlov, autore, fra l’altro, di un  interessante  libro di memorie su quei giorni. Trovò poco.  E così, le razioni furono ridotte e la qualità del cibo peggiorò. Se all’inizio si aveva diritto a 800 grammi di pane al giorno, nel giro di poco tempo si passò a 200. Presto il pane sarebbe stato  un impasto  di  segatura e di cellulosa, duro e amaro . Scarseggiava  la corrente elettrica: come riscaldare le abitazioni durante i mesi più freddi? Niente da dire:  i sovietici non  solo non avevano predisposto misure adatte per fronteggiare un assedio, ma  non ci avevano neppure pensato. E ora stavano per pagarne  le terribili conseguenze.
Qualcosa, è vero, arrivava attraverso il Làdoga,  il grande lago situato a est di Leningrado. Chiatte e imbarcazioni portavano viveri, carburante e munizioni nella città  assediata e dalla città  assediata evacuavano i bambini, i civili e i feriti dell’Armata Rossa .  Ma durò poco. Agli inizi di novembre, i tedeschi  del generale  Schmidt , impadronitisi  della località di  Tichvin,  bloccarono  la strada  attraverso la quale  , dall’entroterra, affluivano i  rifornimenti verso il Làdoga  e si apprestarono a   stringere un secondo cerchio attorno  a Leningrado. La radio tedesca  annunciò trionfante: “ Achtung! Achtung! Tichvin è caduta!
La perdita di Tichvin fu un disastro. La strada alternativa per rifornire Leningrado, lunga più di trecento chilometri in un territorio  impervio  e  difficile , non era stata neppure cominciata. Sotto l’incalzare degli eventi,  fu allestita in fretta  e furia , ma cominciò a funzionare tardi e male. In certi punti era così stretta che gli autocarri non riuscivano a passare.  Il  flusso di rifornimenti si fermò e,    in città, le razioni furono ulteriormente ridotte.
Non si andava per il sottile: chi rubava le tessere annonarie o ne stampava di false; chi si impadroniva delle tessere altrui;  chi  veniva scoperto a fare mercato nero,   finiva   immediatamente davanti al plotone di esecuzione. Chi smarriva  la propria tessera era condannato a morire di fame.
File di persone uscivano  di casa  sotto i bombardamenti  continui per cercare cavoli,  patate o semplicemente erbe commestibili  nei campi, nei giardini, lungo i fossi; le donne si ammucchiavano  davanti ai negozi e  restavano lì, in fila, apparentemente incuranti delle bombe che cadevano a grappoli. A Leningrado si cominciò a morire di fame. Si dimagriva o ci si gonfiava; scorbuto e distrofia muscolare si diffusero; pochi – i più fortunati, i più astuti, i più ricchi- furono risparmiati. La gente cadeva  per la  strada e  sulla strada, spesso,  rimaneva. I giovani erano i primi a morire e anche al fronte , dove si combatteva duramente, si pativa  la fame. In città un anello di brillanti valeva  quanto  una pagnotta di pane nero.
Gli animali erano spariti. Non si vedevano più cani, gatti, piccioni, corvi, passeri. Come erano lontani i tempi in cui un soldato dell’Armata Rossa aveva incontrato in città  una ragazza con una gatta in braccio e  due maschere antigas  a tracolla . “ Perché due maschere?” le aveva chiesto. “ Una per me e una per la mia gatta. Credi che la lascerei morire , in caso di attacco con i gas?” aveva risposto la giovane.  Adesso i gatti venivano mangiati. E anche i cani. In città,  ce n’era uno,  Dinka, addestrato, in puro stile pavloviano, a  correre nel rifugio antiaereo al suono delle sirene di allarme.  Tutti gli volevano bene.   Un giorno non si vide più.
Qualche tempo prima, quando un convoglio di soccorso aveva raggiunto la località di Koivisto, sul fronte nord,  per evacuare i feriti e i soldati  sottoposti a un durissimo attacco finlandese, un’imbarcazione, già staccatasi dal porto,  era tornata indietro per recuperare un  cane- mascotte rimasto a guaiolare sull’imbarcadero. Gli animali dei reggimenti erano trattati bene: i soldati si affezionavano loro e li consideravano una  specie di portafortuna.  Per questo, Alexandr Luknitzkij  pensò di regalare il proprio  amatissimo cane Mishka   a un’unità militare. “ Al fronte , mangiano meglio e il cane sopravviverà”, provò a dire. Intervenne suo figlio : è meglio che il cane ce lo mangiamo noi, disse senza tanti giri di parole.  La spuntò. Solo qualche mese prima,  Mishka, come abbiamo visto, correva felice e fiducioso insieme al proprio padrone, lungo le rive della Neva.
Un altro abitante di  Leningrado uccise e  mangiò il proprio cane e fu preso da terribili rimorsi. Tanto terribili da passarsi una corda al collo e farla finita. Un altro ancora  fu visto, con il cane in braccio, accompagnare un funerale. L’uno  e l’altro erano due scheletri e il cane aveva  un misto di terrore e di rassegnazione negli occhi sbarrati, insolitamente grandi. Il padrone se lo teneva ben stretto al petto , quasi a proteggerlo. Era affetto, era solidarietà o era semplicemente desiderio di  salvare la  propria preziosa riserva di cibo? Ma non erano soltanto gli abitanti di Leningrado a infierire sugli animali. Una bomba nazista aveva centrato il giardino zoologico , sventrando gabbie e abbattendo  staccionate .  L’elefantessa Betty, colpita da una scheggia, era morta dopo ore di agonia, barrendo disperatamente. Sembrava che i topi si fossero trasferiti in massa al fronte, dove c’erano maggiori scorte di cibo. Prediligevano  la parte tedesca: si mangiava  meglio.  In città se ne vedevano pochi.
A Leningrado c’era chi   si faceva delle “ scorte”: non consumava, cioè, tutto il pane che riceveva, ma ne conservava qualche briciola  per i momenti di emergenza . Una sera un bambino avvertì la presenza di un topo nella scatola delle “ scorte”. Che fare? Uccidere  l’animale  e mangiarselo? Preferì  liberarlo: anche il topo, a modo suo, era una vittima e soffriva la fame quanto lui. I bambini , a Leningrado assediata,  ragionavano  così.
A volte, la presenza di un topo in casa era una specie di compagnia, come avere , in tempi normali, un cane o un gatto. Non solo per Vera Imber- che lo ha lasciato scritto- ma anche per molti abitanti di Leningrado,  “Mishkin” e “Mìshkina” ,Topolino e Topolina,  divennero , dove tutto moriva, presenze  di vita. Qualcuno, ogni sera, lasciava loro qualche briciola;  altri davano loro la caccia.
Alle soglie dell’inverno, si cominciò  a parlare di bambini  scomparsi misteriosamente e le madri ebbero un motivo in più per preoccuparsi. Se si mangiava di tutto, persino la  carta da parati e la colla, perché non si sarebbe dovuto mangiare carne umana? In  Piazza delle Erbe, comparvero i “ cannibali”. Vendevano carne, polpette soprattutto. E  la gente le comprava, senza fare né farsi troppe domande. Qualcuno giurava di aver visto cadaveri mutilati: la carne delle cosce e delle spalle era stata asportata da qualcuno del mestiere, un macellaio, sicuramente.
I “ cannibali” sembravano prediligere i soldati: erano giovani e  meglio nutriti. Qualcuno di loro, tornando in città per fare visita ai famigliari,  cadeva vittima di misteriose imboscate. Qualche volta, però,  i soldati si prendevano  la rivincita.  Un pomeriggio  tre giovani , due ragazzi e una ragazza ,  si recarono al mercato per comprare un  paio di stivali di feltro, i caldi valenki. Offrivano, come contropartita,  seicento grammi di pane, la moneta con la quale si pagava tutto, in quei tempi, a Leningrado. Un mercante di Piazza delle  Erbe  li aveva – o , meglio, sulla bancarella ne aveva  uno solo- e accettò il pane. “ Venite con me”, disse “ Vi consegnerò anche l’altro”.
I ragazzi lo seguirono,  tesi e sul chi vive. Uno di essi salì le scale di una gelida abitazione; gli altri aspettarono in strada. Giunto davanti a una porta chiusa, il mercante la aprì con queste parole: “ C’è n’è uno vivo, qui”. Il giovane si sentì afferrare, ma riuscì a divincolarsi. Giunto in strada si imbatté in una pattuglia di soldati regolari, diretti verso il Làdoga. Riferì loro l’accaduto. I militari scesero dall’automezzo e salirono le scale. Si udirono  alcuni colpi di arma da fuoco. Alla fine , quando  uscirono dall’abitazione, i soldati  restituirono ai ragazzi il loro pane.
Si vendeva anche la terra,  in Piazza delle Erbe.  Quella dei magazzini Badajev era richiestissima:  su di essa era, infatti, colato lo zucchero solidificato dal fuoco provocato dal bombardamento nazista di settembre. I bambini, per lo più  orfani da un pezzo di uno o di entrambi i genitori, mangiavano gambi di cavolo congelati  trovati per strada fra i rifiuti,  senza neppure scaldarli. Erano perennemente alla ricerca di cibo. Una volta, in una panetteria, uno di loro  si avventò sulla pagnotta in procinto di essere  ritirata da una donna. Afferrò quel pane ,  se lo portò alla bocca e cominciò a divorarlo, incurante delle percosse e delle grida della legittima proprietaria. Un altro bambino , ormai in punto di morte, continuava a muovere le mascelle come se stesse mangiando chissà quale leccornia.
Le file  per il pane erano sempre più lunghe e   i vicoli e   le strade della città erano sempre più animati. Da  ombre  che  si muovevano nell’ombra.  Quando una donna, un vecchio o un uomo indebolito passava loro vicino, lo aggredivano per portargli via il pane.  Le pene  per i furti erano severissime, ma la fame vinceva ogni paura. Correvano leggende. Una di queste era quella del  “ ladro gentiluomo”. Una sera una ragazza fu aggredita da un gruppo di uomini: fu costretta a spogliarsi e a consegnare tutti i propri vestiti  agli aggressori. Uno di questi, il capo probabilmente, vedendola tremante  e terrorizzata,  si tolse la giacca, gliela gettò sulle spalle e sparì. Tornata  a casa, la giovane trovò nelle tasche della giacca un pane di burro e  una pagnotta.
A volte accadevano  piccoli miracoli. Una sera, una povera donna, sola , affamata  e senza cibo,  sentì bussare alla porta. Quando aprì si vide davanti un  giovane soldato dell’Armata Rossa. In mano aveva una borsa piena a metà  di foglie di cavolo, in parte andate  a male. Gliela  offrì. La donna la prese senza una parola e non seppe mai perché quel soldato  fosse capitato lì  e avesse scelto proprio lei.
Ma succedeva anche il contrario. Una sera Vera Imber e il marito, il noto medico direttore dell’ospedale di Leningrado, stavano tornando a casa. Si imbatterono in una vecchietta corta di vista,  la quale chiese loro aiuto per cercare la tessera annonaria sfuggitale di mano e caduta chissà dove. C’era troppo buio, disse la donna e lei non sarebbe mai riuscita a trovare la tessera da sola , nemmeno se fosse stata ai suoi piedi. La poetessa sbottò : “Ma che vuoi? Cercatela da sola la tua tessera!”. Il marito non disse una parola, né alla moglie né alla vecchia: si chinò, trovò la tessera , la raccolse  e la restituì alla proprietaria.
Tempo dopo, Vera Imber ripensando all’episodio,  non seppe trovare una spiegazione al proprio comportamento.
La spiegazione era una sola: ci si sentiva alla fine. Novembre fu un mese spaventoso per Leningrado. Sottoposta al continuo e incessante fuoco dell’artiglieria tedesca,  annichilita dalla fame sembrò sul punto di cedere.  Ci furono più di diecimila  decessi  , la maggior parte per denutrizione e stenti. E il terribile inverno russo si stava avvicinando a passi da gigante.
Ma,  ai primi di dicembre, accadde un nuovo miracolo: i generali Fediuninskij  e Meretzkov ripresero Tichvin. Fu un grande successo. In primo luogo, perché veniva  frustrata la manovra tedesca di stringere un secondo  cappio attorno al collo di Leningrado e,  poi , perché la via del Làdoga tornava ad essere percorribile.

Il pane  del Làdoga.

“La strada della vita” attraverso il Làdoga  prese a funzionare  a pieno ritmo  quando  sul lago il ghiaccio si solidificò  a tal punto da reggere il peso di un autocarro. Si era tentato anche prima, quando il ghiaccio era ancora sottile,  con slitte trainate da cavalli, ma quello che si riusciva a trasportare era come una goccia nel mare.  Non c’era  neve sulla superficie ghiacciata del lago quando i primi autocarri si mossero verso Leningrado e più di un autista ebbe,  netta ,  l’impressione di viaggiare sull’acqua. Qualcuno non ce la fece e sprofondò, quando il ghiaccio non ancora completamente solidificato, cedette.
All’inizio, “ la strada della vita” funzionò male. Molto male. La prima volta ci vollero sei- sette ore per  raggiungere la città; poi, giorno dopo giorno,  l’organizzazione migliorò e anche i tempi di percorrenza furono ridotti. Ai primi di aprile , dalla parte più breve,  la distanza sarebbe stata coperta in poco più di un’ora. Ma  intanto,  in quel terribile inverno, a Leningrado scarseggiava il pane e  si continuava a morire  di fame.
Una donna , in fila davanti alla panetteria, parlottava a bassa voce. Ce l’aveva  con il freddo, con la guerra, con la lunghezza della fila, con quel pane, duro e nero che veniva distribuito. Un’altra donna, davanti a lei, ne  udì le lamentele.  Si voltò lentamente e, senza alzare la voce, quasi a rimproverarla,  le disse: “ No, questo non è pane nero. Questo è  pane bianco, è pane del Làdoga, è pane santo!”
Il pane del Làdoga  non era bianco: era   un pane nero e duro, ma era pane. Non ne arrivava ancora  molto, anche perché i tedeschi non dormivano. Appena si accorsero del traffico, intensificarono i bombardamenti e  le incursioni aeree  sul lago. Ma, viaggiando  col buio e con i fari schermati, molti autocarri riuscivano, seguendo le bandierine tracciavia,  a  compiere il tragitto di andata e ritorno. E a distanza regolare, sul lago erano stati  approntati punti di appoggio, per fornire agli autisti  assistenza,  indicazioni , carburante. E protezione.   Erano state installate, infatti,  anche numerose postazioni contraeree, costruite utilizzando blocchi di  ghiaccio.

Le voci di Leningrado.

Dentro Leningrado, l’inverno era sempre più buio, sempre più freddo, sempre più mortale. Ma, nonostante tutto,  la vita continuava. Anche la vita culturale. Il direttore dell’Ermitage, Josif  Orbelij, il giorno dell’invasione,  aveva gettato uno sguardo al calendario e il suo pensiero era corso a Napoleone: anche l’imperatore , a suo tempo,  aveva attaccato la Russia in giugno , più o meno in quei giorni e gli era andata male.
Ora Orbelij non pensava più a Napoleone, anche se quel pensiero, allora, lo aveva messo di buonumore  né  pensava ai tesori del Museo già arrivati a destinazione in una località sicura: pensava al poeta tamuride Navoj, del quale ricorreva in quell’anno il cinquecentesimo  anniversario della nascita. E pensava a come celebrare degnamente  la ricorrenza. Così, nel terribile inverno di Leningrado, i versi del leggendario poeta tornarono a risuonare in una stanza fredda e semivuota del  palazzo dell’Ermitage sulla bocca di insigni studiosi, convocati   per l’occasione, anche dal fronte.  Uno di essi, terminata la propria relazione, si accasciò privo di vita sul tavolo della conferenza, stroncato dalla fame.
La biblioteca di Leningrado rimase  a lungo  aperta, a disposizione dei lettori e degli studiosi.  E la radio non cessò mai di  trasmettere. Quando, per mancanza di energia elettrica, le trasmissioni furono sospese per un paio di giorni, qualcuno commentò: “ Possiamo resistere  a tutto, possiamo resistere  al freddo e  alla  fame, ma non possiamo rimanere senza radio. Se la sua voce tace, anche le nostre taceranno”.
Un’altra voce stava per farsi sentire. Sui tetti delle  abitazioni di Leningrado  erano state installate postazioni di artiglieria  contraerea e organizzati servizi antincendio.  In  una di queste postazioni, sul tetto della casa degli artisti, un uomo  era di servizio. Non c’erano incendi da spegnere e quell’uomo pensava ad altro. Nella sua mente si susseguivano, in un vortice inarrestabile, le note  di una grande sinfonia per Leningrado assediata; nella sua mente,  uno dopo l’altro, prendevano forma i passaggi  per esprimere   il  dolore,  la morte, il coraggio, l’abnegazione, la sofferenza,  la disperazione della gente della sua città.  E la certezza della vittoria.
Quell’uomo   era   un musicista:  si chiamava  Dimitri Shostakovich.
Il 29 marzo ’42, la sua sinfonia n. 7, la sinfonia di  Leningrado ,  fu  eseguita nel teatro dell’Opera a Mosca. Alla fine del concerto, Shostakovich, piccolo, minuto, quasi indifeso, si alzò a raccogliere l’applauso del pubblico. “ Quest’uomo è più forte di Hitler”, pensò  la poetessa Olga Bergholtz , presente quella sera in sala.
La poetessa Anna Achmàtova, anch’essa a Leningrado, parlava alla radio e scriveva. Un giorno fu sorpresa  all’aperto da un attacco aereo . Raggiunse  un riparo di fortuna dove si trovavano già alcuni bambini e ragazzi.  Tempo dopo scriverà di uno di essi, morto fra le sue braccia:

Bussa alla mia porta col piccolo pugno e ti aprirò….
Non ti ho udito piangere.
Portami un ramoscello di acero
O semplicemente una manciata d’erba,
Come hai fatto la scorsa primavera.
E portami una manata di fredda, pura acqua della Neva
E io laverò le tracce di sangue
Dalla tua piccola testa dorata….

Ma l’acqua della Neva, a Leningrado, serviva a secchi, non a manciate. Quando, un terribile giorno d’inverno, le pompe si fermarono si rischiò la catastrofe. Senza acqua, con che cosa sarebbe stato impastato il pane?
I ragazzi e le ragazze della Gioventù Comunista , mobilitati per l’occasione, aprirono fori nel ghiaccio della Neva ,  formarono una catena umana e i secchi  della preziosissima acqua passarono di mano in mano fino ai punti di raccolta  e, da lì,  raggiunsero i  forni. Per  quei ragazzi e per quelle ragazze  era pronto un ruolo da protagonisti in un’opera teatrale sull’assedio: intervenne la censura  , non se ne fece niente e la loro voce non  si sarebbe mai udita.

 Non  che cosa?  ma  come?

Agli inizi di  gennaio le razioni di pane erano ancora ferme a 125 grammi mentre la temperatura  scendeva in picchiata sotto  lo zero. Non  c’era riscaldamento. Nelle vie della città fecero la loro comparsa   gli slittini : fungevano da carri funebri.   Sistemate sugli slittini dai  vivaci colori  ,  le salme, avvolte in un semplice lenzuolo,  venivano  accompagnate al cimitero.
Ma molti, troppi cadaveri restavano senza sepoltura, all’aperto,  ai bordi delle strade, nelle stanze ridotte a ghiacciaie per la mancanza di riscaldamento , nei  corridoi delle scuole, nelle corsie degli ospedali, persino  nei saloni dell’ Ermitage o nelle sale di lettura della biblioteca. I genieri dell’esercito scavavano con la dinamite fosse comuni dove seppellire i cadaveri. Ma per quante se ne scavassero, non bastavano mai.
Zdanov e il vice segretario del partito, Alexej  Kutnetzov, lavoravano come matti, organizzando, decidendo, implorando , minacciando, vedendo e ..facendo finta di non vedere. Un giorno il generale Michail  Duchanov, durante un controllo,  sorprese   i bambini di un  istituto  mentre riponevano  furtivamente in un vasetto  parte delle  razioni  ricevute . Non ci mise molto a capire: quelle  misere razioni erano destinate ai loro genitori, ai loro fratelli, ai loro nonni. Ma  gli fu chiara  anche un’altra cosa: quei bambini  rubavano. E i furti erano puniti severamente. Il generale Duchanov   fece per intero  il proprio dovere: si voltò  dall’altra parte. Quando lo riferì a Zdanov, disse: “ Non sono intervenuto, perché quello non era furto, era necessità”. E Zdanov di rimando: “ Hai fatto bene”. Poi, per tutta risposta, ordinò alle batterie sovietiche di fare fuoco su quelle nemiche, per rappresaglia. E fece evacuare  quei bambini.
Vennero istituiti alcuni “luoghi protetti”, dove si mangiava un po’ meglio ed era garantita una seppur minima assistenza  medica. La Gioventù Comunista fu impegnata nel controllo degli appartamenti e nel prestare aiuto a chi ne aveva più bisogno.  Ragazzi e  ragazze, guidate dal loro segretario, Ivànov, controllarono centinaia di abitazioni , salvando molte vite. Un giorno, penetrati in un appartamento a prima vista deserto, scoprirono, sotto un mucchio di vestiti, un bambino di pochi mesi. Lo avviarono immediatamente a uno dei “luoghi protetti” voluti da Zdanov.
Circolava la voce che i tedeschi avessero infiltrato una quinta colonna all’interno della città. Forse  era vero. Di certo, prima e  durante l’assedio,   i controlli si fecero  più stretti  e chi, in passato, aveva manifestato , anche blandamente,  opinioni  antisovietiche cominciò a tremare  e non solo per il freddo. Ma il pericolo non veniva da Leningrado, veniva da Mosca.  E’ strano ( o forse no): lontano da Leningrado , nonostante la  situazione  in cui versava l’antica città di Pietro, non ci si dimenticava   dei “ crimini politici”.
Una donna  molto attiva, in quel terribile inverno, nel prestare aiuto a chi ne aveva bisogno, fu, per ordine di Mosca,  deportata in Siberia  insieme al proprio bambino, a causa di  una  storia  molto dubbia risalente a  parecchi  anni prima. Un artista stravagante, la cui unica colpa era quella di portare un eccentrico copricapo, sparì dall’oggi al domani e non si seppe più niente di lui. Mentre a Leningrado  si moriva di fame e di freddo,  altrove, come se niente fosse, Berija era al lavoro e  la  giustizia (?) faceva il proprio implacabile  corso.
Stalin, dal canto suo, sembrava voler mettere il bastone fra le ruote a Zdanov: non gli andava mai bene niente ed era prodigo di critiche , anziché di incoraggiamenti. A un certo punto,  mandò a Leningrado il principe dell’artiglieria sovietica , il maresciallo Voronov,  non perché portasse, ma perché togliesse cannoni alla città. Sembrava voler abbandonare Leningrado  al proprio destino. Vero o falso che fosse, gli abitanti della città di Pietro se ne accorsero e scelsero Zdanov: i suoi ritratti erano  ovunque, quelli di Stalin solo negli uffici pubblici. E neppure in tutti.
All’ombra della statue di Suvòrov e di Kutùsov protette da sacchetti di sabbia , ignara della partita politica in pieno svolgimento fra Stalin e Zdanov,   la gente sperava nella vittoria, ma sperava, soprattutto,  nella fine di quell’incubo. Chiedeva: “Quando sarà  spezzato  l’assedio?” . Presto, rispondevano senza troppa convinzione i militari, a chiunque glielo chiedesse , Stalin compreso. Ma spezzare l’assedio non era per niente facile.  Zukov ci aveva provato più volte, in settembre, dopo aver  fermato l’avanzata nazista. Non ce l’aveva fatta . E non ce la fecero neppure i generali  Chozin e Meretzkov , quando, nel gennaio del ’42, lanciarono una nuova  offensiva.
“ Quando sarà spezzato l’assedio?”
Nel frattempo, la “Strada della vita” era diventata a doppio senso e , finalmente,  funzionava a pieno ritmo. In marzo, per la prima volta dall’inizio dell’assedio, Leningrado si trovò a disporre di riserve alimentari. In  altri  termini, in marzo,  la città consumò  meno di quello che  aveva  nei magazzini.
Nello stesso tempo, sempre più persone lasciavano la città  e raggiungevano l’altra  sponda del lago. Non  sempre era un viaggio tranquillo.  A volte qualcosa si metteva di traverso fin dall’inizio; altre   volte un guasto meccanico,  un disguido burocratico,  un ritardo,  una tempesta di neve o di vento , bastavano a creare  confusione e problemi nelle località di arrivo. Non si sapeva a che ora sarebbero partiti i treni né quando né da dove. Chi arrivava  sul fare della sera sulla sponda libera  del lago doveva trovare un riparo per sfuggire al freddo polare dei mesi invernali e non sempre ce la faceva. Tuttavia, pur nella confusione causata dall’intenso traffico in un senso e nell’altro lungo le piste tracciate sul lago, più di mezzo milione di persone furono trasportate in luoghi più sicuri.
Venendo da Leningrado assediata, qualcuno fu stupito di vedere, sulla sponda orientale del Làdoga,  animali vivi nei campi e  nei cortili delle  case.

Uscire dall’inverno , da quell’inverno fu durissima.  Chi ce la fece si trovò, ai primi tiepidi soli della primavera,  ridotto pelle e ossa , indebolito, provato nel fisico e nel morale. Un uomo aveva portato una bilancia in  Piazza delle Erbe e faceva affari d’oro: ogni abitante di Leningrado voleva sapere di quanto fosse dimagrito durante l’inverno.
La primavera portò con sé  problemi nuovi. La città era sporca: bisognava pulirla. Per evitare le epidemie, naturalmente, ma anche per togliere dallo sguardo dei sopravvissuti i cadaveri accatastati lungo le strade  e per togliere  dalle mense, dagli ospedali, dalle abitazioni,  gli escrementi umani.
Le persone puzzavano.  La maggior parte di esse non si era lavata se non raramente durante l’inverno  né aveva lavato gli abiti. Furono aperti  lavanderie e bagni pubblici; i genieri tornarono a fare brillare le cariche esplosive; furono  formate  squadre di pulizia. Alla fine di aprile anche il ghiaccio del  Làdoga si sciolse, ma la strada della vita continuò a funzionare. File interminabili di chiatte facevano la spola fra la città e la sponda orientale del lago; le strutture portuali erano state perfezionate e ampliate; viveri e munizioni,  farina e armi , civili e  soldati si spostavano da una parte all’altra , ininterrottamente.
A poco a poco, la città si rianimò.  Per la strade di Leningrado non si vedevano più i “ cannibali”, ma  soldati in divisa marrone diretti al  fronte ; l’ “ Osso duro” resisteva ancora e   la bandiera sovietica non era stata ammainata  ; i campi, i prati, i cigli dei fossi furono piantati a cavoli e a patate. Furono diffuse descrizioni accurate delle piante  selvatiche in grado di fornire vitamina C , la vitamina anti-scorbuto. Le  donne giovani  e le ragazze da marito si   passavano sulle labbra un’ombra di rossetto.  Si vedevano pochissimi cadaveri per strada; i tram avevano ripreso a circolare. Le file alle panetterie, però,   erano sempre lunghissime   e i  bombardamenti quotidiani. Di lì a poco, all’inizio  delle strade,  sarebbero comparse le scritte, visibili fino a non molto tempo fa : “ Attenzione, in caso di  cannoneggiamento, questo è il lato più pericoloso”.
Quando l’assedio fu tolto, un giornalista straniero  chiese alla scrittrice  Vera Ketlìnskaja  e ad alcuni suoi amici: “ Non voglio sapere che cosa vi ha tenuto in vita, voglio sapere come siete riusciti a rimanere in vita”.
Già, come? 

Lazzaroni!

Govoriàt, in russo, significa parlare, chiacchierare. Il generale Leonid Alexàndrovic Govòrov non faceva onore all’etimologia del  proprio cognome: parlava poco, chiacchierava meno. Quando, guardando sotto di sé  a bordo dell’aereo che lo portava a Leningrado, gli scappò un “ Bravi, ragazzi!” all’indirizzo degli abitanti della città, chi lo accompagnava rimase meravigliato. Govorov  era un ufficiale d’artiglieria, eroe della difesa di Mosca  e  veniva ad assumere  il comando del fronte di Leningrado. Pochi lo conoscevano, nella città di Pietro. Solo un ufficiale, Odintzov, allora colonnello, in seguito generale,   si ricordava di lui per averlo avuto come insegnante all’Accademia  di artiglieria.  Era in gamba, disse. E confermò:   non amava le chiacchiere. E, caso strano, non era neppure iscritto al Partito.
Volle gli  ufficiali  a rapporto. Il  generale Borìs V.  Bycewskij, il valoroso e capace ufficiale  del Genio, fra gli  artefici della difesa della città, gli fece un quadro allarmante della situazione: molte trincee erano state scoperchiate, molti bunker  erano saltati e chi doveva ripararli lavorava poco e male.    Govorov  alzò gli occhi , batté il pugno sul tavolo ed esclamò  : “ Lazzaroni!”.
Bycewskj non la prese bene. Si lanciò allora in una difesa di quegli operai denutriti  e  concluse  : “ Lo sa, compagno generale, che qui la gente muore di fame? Lo sa che cos’è la distrofia?” Govorov lo guardò di nuovo  e, con calma, come se non avesse capito,  rispose: “ Lei è teso, generale. Vada a farsi un giretto e torni fra mezzora: ci sono tante cose da fare!”.
Bycewskij seppe in seguito che “ Lazzaroni!” era un intercalare tipico  di Govorov. Abituato ad apostrofare  in questo modo i rampolli di  agiate famiglie russe ai quali aveva insegnato  in gioventù, aveva mantenuto anche in seguito l’abitudine di uscire, di tanto in tanto,  con quell’esclamazione.   Spesso a proposito, ma ,  qualche volta , anche a sproposito.

Maledetta primavera.  

Sull’altra riva della  Neva, i sovietici avevano una testa di ponte,  dispendiosa e inutile da un punto di vista militare . Non lo era da un punto di vista psicologico e quando Govorov decise di ritirarla al di qua della Neva, qualcuno si sentì tradito.  Smantellata quella testa di ponte e riportati i soldati  al di qua del fiume,  restava la questione dei bombardamenti. Il copione era sempre lo stesso: i tedeschi sparavano con  l’artiglieria , i sovietici rispondevano. Govorov ribaltò la situazione :  d’ora in avanti, si spara per primi. Il 9 agosto,   i cannoni tedeschi del generale Ferch   provarono ad aprire il fuoco  in direzione del teatro dove, alla presenza delle autorità,  veniva eseguita la settima sinfonia di Shostakovich:  furono zittiti uno per uno.
A Mosca , in aprile , aveva  avuto  luogo una riunione ai massimi livelli.  In quell’occasione , il generale Chozin, comandante in capo dei fronti di Volchov e di Leningrado, aveva presentato la proposta  di unire i due fronti( vale a dire i due gruppi d’armate)  per cercare di rompere il cerchio di ferro intorno alla città. Il generale Meretzkov, comandante del fronte di Volchov,  aveva espresso qualche critica  : era stato  rimosso e mandato  a comandare  un’armata , la XVI. Fu  richiamato al comando  poco dopo, in giugno , quando, a causa dell’ assurda decisione di unire i due fronti,  la II armata d’assalto era stata  circondata dai tedeschi. Meretzkov doveva liberarla, anche a costo, come gli disse Stalin in persona, di abbandonare equipaggiamento e artiglieria pesante.
Il generale   fece il possibile. A prezzo di perdite rilevanti,  riuscì ad aprire uno stretto corridoio e lo tenne aperto per qualche ora. Lungo quel corridoio, parte della II armata riuscì a svignarsela; poi quella via di fuga  fu chiusa definitivamente dai tedeschi e  Meretzkov dovette abbandonare la partita.  A un certo punto si diffuse la notizia della sua morte. Stalin lo cercò due giorni al telefono senza trovarlo. Quando, il terzo giorno, Meretzkov rispose, aveva avuto sotto di sé due automobili fracassate dai colpi di artiglieria e, a stento, era riuscito a mettersi in salvo.
Tirava una brutta aria, insomma.   La bandiera rossa  garriva ancora  sulle mura  dell’”Osso Duro”, ma altrove c’era poco da stare allegri.  I tedeschi avanzavano verso il Volga e Stalingrado; Sebastopoli era  caduta ; le unità corazzate  del maresciallo List puntavano diritte al  Caucaso e ai giacimenti petroliferi di Baku; il neo feldmaresciallo von Manstein  aveva lasciato la Crimea e si stava dirigendo verso la città di Pietro, per darle, si pensava, il colpo di grazia.  Insomma, le carte, quelle buone,  sembravano essere  tornate in mano a Hitler.
In quell’offensiva di primavera, Leningrado si giocò la libertà e qualcun altro la reputazione. Il generale Vlasov, ad esempio. Eroe della battaglia di Mosca al pari di Govorov, a Leningrado  pasticciò, perse il controllo della situazione, subì un terribile rovescio alla testa della II armata e,  alla fine, passò al nemico. Una brutta storia, mai chiarita completamente, sia  nei risvolti politici, sia in quelli militari,  anche per via del lungo  silenzio fatto calare sul reprobo dalle autorità sovietiche, anche in tempi prossimi a noi. La colpa dello scacco subito dalla II armata d’assalto fu attribuita interamente a Vlasov. La verità era un’altra: i tedeschi erano al massimo della loro potenza e i sovietici, per quanto ci provassero,  non avevano ancora forze sufficienti per batterli.
Govorov  non cercò giustificazioni né si pianse addosso. Studiò la situazione, fece tesoro degli errori commessi e , preciso e scrupoloso com’era, cominciò ad abbozzare idee, a raccogliere  materiale, a formulare piani  e ipotesi. Presto, ne era sicuro,  sarebbe venuto il momento di metterli in pratica. Per ora  , li conservava parte  nella sua mente e  parte nella cassaforte del suo ufficio.

Il lampo della scintilla.

Intanto, si avvicinava l’inverno- il secondo inverno d’assedio. Questa volta la città  sapeva come  affrontarlo. Molti  abitanti erano stati evacuati e, grazie all’abile operato di Alexeij Kosygin, futuro premier dell’Urss,  il  via vai  attraverso  il Làdoga non accennava a fermarsi. Rispetto al terribile inverno precedente, la popolazione era calata:  due abitanti su tre o erano morti o erano stati evacuati.
I rifornimenti alimentari arrivavano con regolarità e le razioni giornaliere  furono portate a 400-500 grammi di pane a testa. Non era facile, però,   trovare carne , piselli o fagioli secchi  e altre verdure.   Era stato posato un enorme oleodotto sotto le acque del Làdoga , attraverso il quale affluiva in città il carburante necessario a far funzionare le centrali e a far muovere i carri armati. Un altro cavo sottomarino sul fondo del lago collegava Leningrado con la riattivata centrale elettrica di Volchov. In Piazza delle Erbe , i “ cannibali” erano del tutto scomparsi e, nel complesso, le cose funzionavano meglio. Tutti i sopravvissuti al terribile inverno del 1941 furono decorati.
Ma la domanda era  sempre la stessa : quando sarà spezzato  l’assedio?
Al Quartier Generale sovietico con sede nell’istituto  Smolnij,  erano in corso i festeggiamenti per il 25.mo anniversario della rivoluzione d’ottobre. I lampadari erano accesi e le notizie erano buone. Rommel era stato fermato in Africa, Paulus non faceva progressi a  Stalingrado. Nel bel mezzo dei festeggiamenti, il generale Govorov fu chiamato al telefono. Era Stalin. “ Procedere con l’Esercitazione n. 5 “ fu la laconica comunicazione. Govorov  ne conosceva il significato: si attaccava e , questa volta, si faceva sul serio.
Dopo quella telefonata, Govorov, con l’immancabile bicchiere di tè sul tavolo,  lavorò giorno e  notte all’ “ esercitazione” ;  sviluppò le idee maturate dopo il fallimento dell’offensiva di primavera, studiò mappe e grafici, consultò i collaboratori e mandò a Mosca,  il  17 novembre ,  una bozza di piano, alla quale seguì, il 22,  una versione più particolareggiata . Iskra, la scintilla, stava per scoccare.
Che qualcosa fosse nell’aria , lo si capì dal fuoco di artiglieria.  Chi era rimasto a  Leningrado aveva ormai l’orecchio allenato e a quell’orecchio i cannoni   sovietici sembravano, ora,  sparare a casaccio e, in apparenza,  senza  alcuna logica. Ma una logica  c’era:  quella dispersione di fuoco doveva disorientare  i tedeschi e impedire loro  di individuare con precisione il punto scelto da Govorov   per l’attacco.  In città si vedevano pochi movimenti di truppe e mai lungo i medesimi tragitti.
Qualcuno, un giorno, per puro caso  aveva visto un carro armato, un T 34, cercare di attraversare, alla presenza degli alti papaveri, la Neva  ghiacciata. Quel carro era sprofondato nell’acqua gelida  e il conducente era stato  ripescato in extremis. Più della medaglia conferitagli, quel giovane carrista aveva apprezzato il bicchierino di vodka  offertogli dopo il ripescaggio. A uso e consumo di chi era stato allestito quello spettacolo? E, soprattutto, perché?
Perché i carri, non solo i T 34, ma anche i KV da sessanta tonnellate, dovevano passare in tutta sicurezza  la Neva, ecco perché. Govorov non voleva commettere errori.  Non poteva . Il maresciallo Voroscilov, inviato da Mosca   a Leningrado  a “ osservare”, non aveva apprezzato quell’esperimento  e se l’era presa, in puro stile staliniano, con l’ideatore ,  il generale Bicewskij. Al quale, però, Govorov, più  concreto , passata  la sfuriata di Voroscilov ,  aveva detto di continuare nel suo lavoro.
Stalin aveva fissato l’inizio dell’offensiva per l’8 dicembre; Govorov  chiese e ottenne un rinvio al 12 gennaio, quando  il ghiaccio della Neva sarebbe stato abbastanza solido da reggere i carri, anche i giganteschi KV.  E  il 12 gennaio del 1943, intorno alle nove del mattino,  la scintilla si trasformò in un lampo. Con  tanto di tuono  al seguito.
Dopo un violento fuoco d’artiglieria, i sovietici del fronte di Leningrado  attraversarono, in due fasi,  la Neva ghiacciata  per un’ampiezza di dodici chilometri, fra Nèvskaja Dubròvka e Schlisselburg e cominciarono  a premere sui tedeschi. Contemporaneamente , dal fronte di Volchov,  sempre preceduto dal fuoco dei cannoni e delle katiusce,  il generale Meretzkov  si mosse nel settore di Sinjàvino verso ovest, per chiudere la tenaglia. Il generale  tedesco Linderman aveva avvisato i suoi  : preparatevi a una dura battaglia: i sovietici non molleranno mai Leningrado. Per loro è come Mosca o come Stalingrado.
Era stato facile profeta.
Ogni giorno di più , la distanza fra i due fronti sovietici  si riduceva; ogni giorno di più , nonostante gli ordini del sostituto di   von Leeb, von Kueckler,  di non cedere terreno, succedeva il contrario. Il 18 gennaio, dopo aver respinto l’ennesimo contrattacco tedesco,  le truppe  del neo maresciallo  Govorov  e di Meretzkov si congiunsero   a circa otto chilometri a sud-est di Schlisselburg . Alle undici di sera , con  voce solenne, l’annunciatore di radio Mosca  lesse il comunicato ufficiale: “ Le truppe dei fronti di Leningrado e Volchov si sono congiunte, spezzando il blocco di Leningrado”.

 “ Convoglio n. 719, macchinista Fedorov”

Ora la bandiera sovietica  non sventolava più soltanto sull’”Osso Duro” dove aveva resistito  per più di cinquecento giorni di assedio. Per le vie di Leningrado  era tutto un fiorire di bandiere rosse; le ragazze abbracciavano e baciavano  i soldati; il primo treno di rifornimenti, il convoglio n. 719 guidato dal macchinista Fedorov,  infilatosi nello stretto corridoio aperto dalle armate sovietiche,  era  arrivato  a Leningrado. Si faceva festa: la città  non era più isolata.
C’erano ragioni per festeggiare? A migliaia, ma la alture di Sinjàvino erano ancora  in mano tedesca e da lì e dalle zone circostanti, i cannoni nazisti  tenevano sotto controllo  quel corridoio – presto ribattezzato il “ corridoio della morte”- e  sparavano  sui treni provenienti dall’entroterra, sui binari, sulle postazioni fortificate.  L’assedio era stato spezzato, ma  la situazione era ancora difficile. Sarebbe bastato niente, una disattenzione da parte sovietica o un’offensiva condotta in grande stile dai tedeschi per chiudere quel corridoio. E per dover ricominciare tutto daccapo.
Non accadde. I sovietici non abbassarono  la guardia  e , benché in un solo  mese i binari della ferrovia con l’entroterra fossero stati divelti più di trenta  volte al giorno tutti i giorni, i treni  continuarono a passare. I tedeschi, allora,  se la presero con la città .  Leningrado fu sottoposta a violentissimi cannoneggiamenti. La poetessa Vera Imber perse parzialmente l’udito e fu assalita  dal terrore di uscire  all’aperto; all’inizio delle vie ,  si moltiplicarono le scritte, bianche e blu, “ Attenzione, in caso di cannoneggiamento, questo lato della strada è il più pericoloso”.
Le razioni alimentari, però,  furono ulteriormente aumentate. Arrivarono i primi aiuti americani: carne di maiale in scatola, farina e, soprattutto, burro e zucchero. Gli abitanti di Leningrado ne furono molto contenti, anche se-  fecero notare-  lo zucchero russo era più dolce e il burro più saporito.
Tutti volevano possedere un gattino e non per mangiarselo, questa volta. Ce n’erano molti in vendita sulle bancarelle del mercato: ognuno costava cinquecento rubli. Sui gradini  della cattedrale di San Nicola erano tornati i piccioni; gli slittini non trasportavano più cadaveri, ma legna da ardere. Si giocò anche un campionato estivo di calcio: la Dynamo lo vinse a mani basse.
Le bombe continuavano a cadere, ma l’atmosfera era cambiata. Adesso  si guardava avanti. Si pensava a come ricostruire la città, a che cosa edificare di nuovo,  a che cosa restaurare o lasciare com’era , a perenne monito di quanto era accaduto. Gli architetti si misero al lavoro. E anche  gli scrittori   si diedero da fare : composero  poesie, abbozzarono  opere teatrali o  racconti  sull’assedio di Leningrado.  Ma anche la censura era  tornata al lavoro e molte di quelle opere dovettero essere riviste.  Con il graduale ritorno alla  normalità- perché anche l’intervento in grande stile della censura era, nella Russia sovietica, normalità- qualcosa cambiò  negli atteggiamenti delle persone .
In quelli degli artisti, sicuramente. Vera Imber, adesso,  non risparmiava critiche alla sua collega e amica Olga Bergholtz  , autrice, secondo lei, di poesie vecchie  e  antiquate. Molti cominciarono  a percepire i tedeschi più come una seccatura che come una minaccia.   “ E’ ora che si tolgano dai piedi”  era l’auspicio di tutti.
La città di Pietro voleva  tornare a vivere.

Razzi su Leningrado.

Per  sloggiare i tedeschi , erano state preparate e programmate per il gennaio del ‘44 due  possibili offensive. La prima, denominata Neva I,  sarebbe scattata nel caso in cui i tedeschi – ormai in rotta ovunque- avessero abbandonato le posizioni e si fossero ritirati anche da Leningrado. La seconda, più probabile e per questo maggiormente curata da Govorov e dal suo stato maggiore, era stata denominata Neva II e prevedeva un attacco a tenaglia   lungo tre direzioni: Oranienbaum, le alture di Pùlkovo, Nòvgorod.
Nulla fu lasciato al caso. A partire dal mese di novembre, la flotta del Baltico, viaggiando di notte, trasferì  a Oranienbaum migliaia di uomini ,  decine di cannoni,  centinaia di cavalli e una sessantina di carri armati; l’artiglieria fu  potenziata con i micidiali lanciarazzi   katiuscia; fu garantito l’appoggio aereo; i partigiani  intensificarono le  missioni dietro le linee nemiche; molti bunker nazisti furono spianati per tempo dai cannoni a lunga gittata; alla guida delle armate  sovietiche furono posti generali di provata esperienza, come  Feiduniskij e  Meretzkov .  Ma, alla vigilia,  quasi tutti  erano tesi : troppe cose  dipendevano dall’esito di quell’offensiva.
L’attacco scattò  il 14 gennaio, 867.mo giorno dalla caduta di Mga  e dall’inizio dell’assedio. Sul terreno si stendeva una fitta nebbia.  Gli unici ad esserne contenti  furono i genieri di Bicewzkij , impegnati ad aprire corridoi nei campi minati.
Precedute da un terribile fuoco di artiglieria, le divisioni sovietiche avanzarono lungo le tre direttrici previste, incontrando una feroce resistenza ma facendo significativi  progressi. Poi , il 16, ci fu un breve periodo di disgelo e la neve si trasformò in pioggia. Le operazioni rallentarono. Ripresero a pieno ritmo, qualche giorno dopo, il 19,   quando gelò di nuovo.
A Leningrado si stava sulle spine. Dal fronte arrivavano notizie contraddittorie, spesso confuse.  Poi, il 27 gennaio , alle otto di sera, nel cielo della città esplosero migliaia di  razzi ,  rossi, bianchi e blu. Tutti capirono e piansero di gioia. Quei razzi  multicolori  sparati da centinaia di cannoni  significavano una cosa sola: i tedeschi , incalzati dai soldati dell’Armata Rossa, abbandonavano  Leningrado. Memore   dell’esortazione di Puskin la città di Pietro era stata incrollabile: adesso era finalmente libera.
Libera?

Epilogo .

Dopo la guerra, Leningrado tornò, per breve tempo, ad essere quella di prima: ricca  di iniziative e fervente di vita.  Fu aperto un museo dell’assedio , una sorta di Memoriale, il cui reperto più significativo  era  una piccola bilancia  sui bracci della quale erano stati posti alcuni minuscoli pesi e  125 grammi di pane;  furono preparati  progetti ambiziosi per la ricostruzione della città . Molti intellettuali di Leningrado  cullavano un sogno: partendo dalla città di Pietro, un nuovo umanesimo  si  sarebbe potuto  diffondere  per tutta l’Europa.
Non andò  così. La città di Pietro  si  trovò, dall’oggi al domani, sprofondata  in  un complicato affare politico.  Zdanov , richiamato a Mosca nell’aprile del 44, ne fu  l’oggetto. Passati i primi, bruttissimi momenti dell’invasione e dell’assedio, durante i quali la sua posizione si era fatta quanto mai precaria,   Zdanov aveva risalito la china.
Non  rimase in vetta  per molto tempo. Morì nel ’48,  forse avvelenato, forse di infarto cardiaco  e  Leningrado precipitò , come ai tempi dell’assassinio di Kirov, in  un periodo di terrore. Gli arresti, le destituzioni, le esecuzioni sommarie  e le deportazioni divennero la norma.  Furono inventate  le accuse più infamanti: di tradimento, di connivenza con gli invasori, di tentata  defezione dall’Unione Sovietica. Pagarono in molti e nessuno seppe mai il perché. A Mosca  era in corso una sordida lotta per il potere nella quale il potente capo della polizia segreta, Berija e l’astro nascente Malenkov recitavano un ruolo importante  e Leningrado  era il perno attorno al quale questa lotta ruotava. O un pretesto, se si preferisce.
La nota poetessa Anna Achmàtova e altri intellettuali furono messi al bando ; il museo dei 900 giorni fu chiuso e il suo direttore, un maggiore dell’Armata Rossa, spedito in Siberia ; la censura infierì sui romanzi , i drammi e i racconti di quei terribili giorni ; persino  gli avvisi di stare sull’altro lato della strada in caso di cannoneggiamento furono cancellati  dalle vie  di Leningrado.  Nel 1957   furono  ripristinati
A Leningrado perse la vita  più  di un milione e mezzo di persone, dieci volte di più  che a  Hiroshima. Le  autorità sovietiche parlarono per lungo tempo  di poco più di seicentomila. Perché?
Una  possibile spiegazione è questa: Stalin temeva una caduta della propria popolarità e, soprattutto,  di dovere rendere conto al Paese di tutti gli errori commessi, causa  principale di quello spaventoso numero di morti a Leningrado e altrove. Per questo tenne nascosta a lungo la verità.  Ma bastava mentire per mettersi  in pace la coscienza?

Oggi Leningrado ha ripreso l’antico nome di San Pietroburgo. Il nove maggio di ogni anno, in tutta la Russia , si celebra solennemente  l’anniversario della resa dei nazisti ai sovietici. Il nove maggio di ogni anno, per un giorno, la città di Pietro   torna a chiamarsi Leningrado. Per un giorno, per un solo giorno,  torna a essere, anche nel nome,  la città del freddo e della fame, della disperazione e della speranza, dell’abiezione e del coraggio, del sacrificio e dell’eroismo.  Perché, come è stato scritto, nessuno dimentichi , nulla sia dimenticato.

 

Post scriptum

 

Quando Hitler attaccò, nel 1941, l’Unione Sovietica, la vendette così: mi muovo per primo per impedire a Stalin di attaccare me e l’Europa tutta.
Oggi Putin dice: ero minacciato dalla NATO, dovevo attaccare in Ucraina, non avevo altra scelta.
Gli storici hanno messo in luce le vere intenzioni di Hitler; di quelle di Putin poco si sa e occorrerà tempo per conoscerle appieno. Di certo, fin da ora, c’è questo: non risulta che la NATO ammassasse truppe al confine russo né che, minacciosamente, orientasse i propri missili in direzione della Piazza Rossa.
La storia, dunque, si ripete. Ma rovesciata, questa volta. I discendenti russi di quei sovietici che ebbero ragione dei nazisti si comportano a loro volta da invasori nazisti: massacrano, violentano, deportano, torturano, saccheggiano. Invadendo l’Ucraina, essi hanno disonorato e disonorano i loro padri, hanno offeso e offendono la memoria di milioni di russi come loro ( sì, russi prima che sovietici) caduti nella lotta contro il nazismo.
Per questo il 24 febbraio 2022 sarà ricordato, per usare le parole pronunciate dal presidente americano Franklin D. Roosevelt in occasione del proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor, come un nuovo “ giorno dell’infamia” e la parata del 9 maggio, quest’anno, sarà per molti la parata della vergogna.

 

 

Da leggere.

Chris Bellamy, Guerra assoluta, Einaudi , 2010
Paul Carrel, Operazione Barbarossa, Einaudi
Martin Gilbert: la grande storia della seconda guerra mondiale, 1989; Mondadori Oscar Storia, 2003
Basil Liddle Hart, Storia di una sconfitta, 1948
John Keegan,   La seconda guerra mondiale, una storia militare, 1986;  Bur saggi, 2003
Richard Overy, Russia in guerra, Il Saggiatore, 2000
Constantin Pleshakov, Il silenzio di Stalin, Corbaccio, 2007
Harrison E. Salisbury,  I 900 giorni, l’assedio di Leningrado, Bompiani, 1969
Alexander Werth, Leningrado, Einaudi, 1947

Su questo sito puoi leggere anche :

I traditori e gli eroi ( la battaglia di Mosca, 1941),
Uno contro uno ( La battaglia di Kursk, 1943),
Sei barra uno ( La battaglia di Stalingrado, 1942-43)
Andata e ritorno ( I tedeschi nel Caucaso, 1942)
Gli abeti rossi ( Il massacro di Katyn, 1940)
Verso Berlino (Operazione Bagratiòn, controffensiva sovietica in Bielorussia,1944)
La corsa ( La caduta di Berlino)

QUIpuoi trovare un elenco completo degli articoli relativi alle due guerre mondiali ( e non solo) pubblicati su questo sito.

Gli avvenimenti in breve.

22 giugno 1941:

–          I tedeschi invadono  l’Unione Sovietica, lanciando all’alba l’Operazione Barbarossa, ;

–          il generale  Kiril Mèretzkov  arriva a Leningrado;

–          Viaceslav Molotov, Commissario agli Esteri,  annuncia alla radio lo scoppio della guerra.

 23 giugno. A Mosca si installa lo Stavka, il Comando Supremo con  a capo il maresciallo Semiòn Kostantìnovic Timoschenko.
24 giugno: le navi da guerra sovietiche alla fonda a   Riga,  in Lettonia,  abbandonano la città e  si dirigono verso Tallin, in Estonia, sede principale della flotta del Baltico
25 giugno: Kaunas, in Lituania, viene occupata dal generale Georg  von Kuechler .
26 giugno: Erich von  Manstein  raggiunge  Dvinsk alla testa dei propri reparti
27 giugno: Andreij Zdanov rientra a Leningrado da Soci, sul Mar Nero, dove si trovava in vacanza.
1 luglio :    cade Riga.
3 luglio: Stalin , per radio, si rivolge con tono dimesso e interrompendosi spesso,  “ai  fratelli, alle sorelle, agli amici” della Russia: sono gli inizi della   “ Guerra Patriottica”.
5 luglio: i tedeschi prendono Ostrov.
8-9 luglio: il maresciallo Fedor von Leeb attacca la linea fortificata  della Luga. I difensori sovietici sono costituiti per metà dai Volontari del Popolo.
9 luglio: i panzer nazisti entrano a  Pskov, l’antica città legata al nome di Alexander Newskij .
10 luglio: il maresciallo Kliment Voroscìlov è nominato comandante supremo del fronte di Leningrado; molti generali vengono destituiti.
21 luglio: sui muri di Leningrado compaiono i manifesti con  la scritta :” Il nemico è alle porte!”
6 agosto: i finlandesi sfondano il fronte nord e raggiungono il Làdoga nei pressi di Khitola.
8 agosto: dopo un mese di accanita resistenza e dopo perdite spaventose,  i sovietici sono costretti ad abbandonare  la linea della Luga.
8 agosto: Stalin viene  nominato  Comandante Supremo dell’Unione Sovietica.
15 agosto: ulteriori progressi dei finlandesi sul fronte nord; i sovietici si ritirano sulla linea delle fortificazioni antecedenti la guerra del 1939-40 . A prezzo di grandi sacrifici ,  I finlandesi vengono  fermati e il fronte si stabilizza praticamente fino alla controffensiva sovietica del 1944.
21 agosto: direttiva di Hitler: prima Leningrado, poi Mosca.
26 agosto: lo Stavka ( il Comando Supremo)di Mosca ordina l’evacuazione di Tallin e della flotta del Baltico, fatte segno a  un massiccio attacco nazista.
27-31 agosto: a prezzo di   perdite elevate, sia militari sia civili, Tallin viene evacuata via mare  e i resti della flotta del Baltico raggiungono Kronstadt.
30 agosto : i tedeschi prendono Mga, una stazione sulla linea Leningrado- Vologda- Mosca e  interrompono qualsiasi comunicazione fra la città di Pietro e  l’entroterra.
8 settembre: comincia il bombardamento dall’aria di Leningrado: bombe incendiarie centrano in pieno i magazzini Badajev, dove sono stivate  le scorte di viveri per la città.
8 settembre: i carri tedeschi raggiungono Schlisselburg , l’antica fortezza sulla Neva, e chiudono il cerchio attorno a Leningrado.
9 settembre: von Leeb lancia un attacco lungo due direzioni: da sud –ovest attraverso i sobborghi di Kràsnoje Selo e Lìgovo verso gli stabilimenti Kirov e da sud-est, lungo l’autostrada Leningrado-Mosca, appena oltre Izhorzk e Kolpino. I tedeschi raggiungono la Neva, ma inspiegabilmente, non l’attraversano.
13 settembre: il generale Georgij K.   Zukov assume il comando di Leningrado: sostituisce il maresciallo Voroscilov,  destituito per “ passività di fronte al nemico”.
16-21 settembre: Leningrado viene minata.
17 settembre: il Corpo Panzer del generale Erich Hoeppner viene tolto a von Leeb e inviato al fronte di Mosca.
18 settembre. I tedeschi ,  fermati a Lìgovo, già dentro la città,  si “ riposizionano” e cominciano a trincerarsi.
19 settembre: violenta incursione aerea  nazista su Leningrado: centrato in pieno il grande centro commerciale Gostinij Dvor; molti morti.
6 ottobre: Zukov è richiamato a Mosca e il generale  Ivàn Fediuniskij lo sostituisce a Leningrado.
7 novembre: sulla fortezza di Schlisselburg-  l’”Osso duro” come era comunemente  chiamata- isolata dal resto della cittadina in mano ai nazisti,  i difensori issano la bandiera rossa: ci resterà fino alla  prima controffensiva  sovietica dell’inverno del 1943.
8 novembre. I tedeschi occupano  la località di Tichvin, interrompendo la strada dei rifornimenti dall’entroterra  al lago Làdoga.
15 novembre: le razioni di pane, in città, vengono portate a 175 grammi. Vengono ridotte anche le razioni per le truppe combattenti.
18 novembre: muore in combattimento,  sul sommergibile in cui era stato imbarcato, il tenente Aleksej Lebedev. Aveva 26 anni ed era  uno dei più promettenti poeti di Leningrado
20 novembre: le razioni di pane  per la popolazione non combattente scendono a 125 grammi
22 novembre: sul Làdoga ghiacciato transitano i primi autocarri verso Leningrado. Prima si era provato con slitte trainate da cavalli.
Inizi di dicembre: in città  gli slittini, da strumenti di divertimento  diventano mezzi di trasporto:portano malati, feriti, moribondi. E cadaveri, soprattutto.
9 dicembre: i sovietici riprendono Tichvin:  il traffico sul  Làdoga  si intensifica.
10 dicembre: a Leningrado, i tram smettono di circolare.
10 dicembre: all’Ermitage,  vengono celebrati  i cinquecento anni della nascita del poeta tamuride Aliscev Navoi.
25 dicembre: Zdanov ordina un aumento  delle razioni, in concomitanza con  un’offensiva per riprendere  Mga . L’offensiva  fallisce.
8 gennaio 1942: la radio tace per qualche tempo   in molti quartieri   di Leningrado.
18 gennaio: sulla “strada della vita”, vengono superate, per la prima volta, le quote fissate per il trasporto dei viveri.
20 gennaio: vengono predisposti piani specifici per evacuare da Leningrado gran parte degli abitanti non necessari alla produzione bellica.
24 gennaio: le razioni vengono portate  a 400 grammi di pane per gli operai e a 250 grammi per la popolazione non attiva
25 gennaio : la centrale elettrica n. 5  smette di funzionare per mancanza di combustibile. L’acqua necessaria per impastare il pane  viene prelevata dalla Neva ghiacciata dai ragazzi e  dalle ragazze della Gioventù Comunista.
11 febbraio: le razioni giornaliere vengono ulteriormente aumentate: 500 grammi di pane per gli operai e 300 per la popolazione non attiva.
8  marzo. Vengono recapitati  i primi telegrammi e le prime lettere dopo mesi. Per smaltire l’intera posta accumulata,  occorrerà  un anno.
15 marzo: si comincia a pulire la città e a liberare le strade dai cadaveri.
20 marzo: riprendono a funzionare le centrali elettriche.
29 marzo: a Mosca viene eseguita la settima sinfonia di Dmitrij  Shostakovich, composta per Leningrado assediata.
12 aprile: Alekseij  Kossyghin   rende noto che, da gennaio,  sono state sfollate lungo la strada della vita più di cinquecentomila persone.
Inizi di aprile: il generale  di divisione Leonid Aleksàndrovic Govorov assume il comando del “ Fronte di Leningrado”.
15 aprile: alcuni tram riprendono a funzionare ( linee 7,9, 10, 12). Un soldato tedesco prigioniero dichiarerà : “ Capii che non avremmo vinto, quando udii lo scampanellio dei tram per le strade di Leningrado.”
24 aprile: prima del disgelo,  arriva l’ultimo carico di viveri dal ghiaccio del Làdoga: si tratta di un carico di cipolle.
22 giugno: attraverso il  Làdoga privo di ghiaccio lunghissime teorie di chiatte e di imbarcazioni di vario genere continuano a rifornire la città.
Primi di giugno:  all’inizio delle vie cittadine compaiono le scritte “ Attenzione, in caso di cannoneggiamento, questo lato della  strada è il più pericoloso”.
Seconda metà di giugno: viene lanciata , inutilmente, un’offensiva per spezzare l’assedio.  Il 25 giugno la II armata d’assalto viene accerchiata.  Nonostante gli sforzi del generale Kirill  Meretzkov per liberarla, le perdite sono ingenti. Il generale Andreij Vlasov, eroe della difesa di Mosca e comandante della II armata, passa al nemico.
27 giugno: prigionieri nazisti  vengono fatti sfilare sulla “Prospettiva Newski”.
9 agosto: la settima sinfonia  di Sciostakovic viene eseguita  a Leningrado.
7 novembre: discorso di Stalin alla radio.” Presto si farà festa nelle strade delle  città russe”, annuncia.
31 dicembre: il presidente dell’Urss, Michail I. Kalinin, annuncia alla radio  la resa della Sesta armata tedesca a  Stalingrado.
12 gennaio 1943: Govorov  lancia l’operazione Iskra, “Scintilla”, per spezzare l’assedio.
18 gennaio: le truppe sovietiche  dei fronti di Leningrado e di Volchov si  congiungono, liberando Schlisselburg e  aprendo una via con l’entroterra.
7 febbraio: il treno 919 , guidato dal macchinista Fedorov , raggiunge Leningrado attraversando  lo stretto corridoio aperto con l’operazione Iskra. Presto, quel corridoio sarà ribattezzato  “ il corridoio della morte”.
30 maggio: la Dynamo vince il campionato estivo di calcio.
24 giugno: Leningrado subisce un cannoneggiamento devastante.
14 gennaio 1944: scatta l’operazione Neva II, l’attesa offensiva sovietica per liberare la città.
22 gennaio: i tedeschi,  in rotta, abbandonano Leningrado e si ritirano verso gli stati baltici.
27 gennaio: il cielo di Leningrado è attraversato da migliaia di razzi  multicolori per celebrare la vittoria.  La scrittrice Olga Bergholtz commenta: “ Io, scrittrice di professione, non riesco a trovare le parole per esprimere questo momento” .  E conclude: “ Ora, a Leningrado, c’è silenzio”.

L’immagine del palazzo d’Inverno di San Pietroburgo è tratta da:

www.paesionline.it › … › San Pietroburgo

 le altre da Wikipedia.

 Cartina  di  Leningrado assediata.( Da Richard Overy, Russia in guerra, citato). Clicca sulla cartina per ingrandirla.

 

 La poesia ” Bussa alla mia porta…” di Anna Achmatova è tratta dal libro di Harrison Salisbury, I novecento giorni, citato.

 Cliccando sul video seguente,  puoi ascoltare uno dei movimenti più significativi ( il cosiddetto ” Tema dell’invasione”) della Settima sinfonia di Shostakovich.

Per ascoltare l’intera sinfonia, collegati al seguente sito: Shostakovich-Sinfonia7.html