24 febbraio 2022: ” a date which will live in infamy”.
Ucraina, Termopili d’Europa.
………….
E un onore più grande gli è dovuto
se prevedono ( e molti lo prevedono)
che spunterà da ultimo un Efialte
e che i Medi finiranno per passare.
(Konstantinos Kavafis, Termopili, traduzione di Nelo Risi)
Mostra i tuoi colori, città di Pietro
E sii incrollabile, come la Russia..
Alexander Puskin
(Citato da I novecento giorni, di Harrison E. Salisbury)
Prologo.
Agli inizi del Settecento, Pietro il Grande, zar di tutte le Russie, fondò San Pietroburgo sulle rive della Neva( in russo Nivà), in una zona, in origine, inospitale e paludosa. Mai capitale costò più cara. Per edificarla, infatti, furono necessarie ricchezze enormi e l’impiego di più di centomila operai. Ma Pietro era fatto così: quando voleva una cosa , non badava a spese per ottenerla . Qualche anno dopo, ad esempio, per avere ragione del re di Svezia Carlo XII, non esitò a sacrificare in battaglia , a Poltava, la vita di dieci dei suoi per quella di un solo svedese. Guadagnandoci nel cambio, si vantò .
Quella di San Pietroburgo era terra di confine da tempi immemorabili e, da tempi immemorabili, su quella terra era corso molto sangue. Fin da quando, secoli prima, il principe di Nòvgorod, Alexander Jaroslàvic aveva sconfitto duramente a poca distanza dalla Neva gli invasori svedesi, gettando le basi della futura Russia e guadagnandosi, in eterno, l’appellativo di Alexander Nevskij.
Molto tempo dopo, da quelle parti, su quel sangue e pagata con altro sangue, era sorta San Pietroburgo. Nelle intenzioni di Pietro il Grande, suo fondatore, essa avrebbe dovuto essere un bastione rivolto verso l’Europa, la dimostrazione tangibile della potenza russa, una sfida e, nello stesso tempo, un ammonimento.
Caterina II- la Grande Caterina – la ampliò e la riempì di colori, facendo di quella città il centro della vita culturale della Russia. Nella città di Pietro fiorivano le arti e le scienze, si parlava francese, circolavano le idee. Si tentavano persino cambiamenti politici e sociali. Ci provarono, nella prima metà dell’Ottocento, alcuni giovani e brillanti ufficiali- i cosiddetti decabristi– ma invano; ci riuscì, quasi un secolo dopo e a prezzo di altro sangue, Vladìmir Uliànovic Lenin. Con lui San Pietroburgo e l’intera Russia divennero sovietiche.
Diciassette anni dopo la Rivoluzione, il primo dicembre del 1934, a Leningrado, Leonid Nikolaiev uccideva con un colpo di pistola il brillante segretario del partito, Sergeij Kirov. Kirov era, a suo modo, un tipo scomodo. Correva voce che godesse, nel Paese e ai vertici dell’apparato, di maggior seguito di Stalin. Il suo assassinio- mai chiarito, per altro- fu il pretesto per una gigantesca caccia all’uomo. Il partito di Leningrado fu smantellato, i suoi vertici deportati o fucilati; in tutta l’Unione Sovietica cominciò il periodo delle “purghe”. L’Armata Rossa pagò un prezzo terribile : tre marescialli su cinque scomparvero nel nulla; tutti o quasi i comandanti d’armata furono destituiti o fucilati; numerosi ufficiali subalterni furono privati del grado, deportati o giustiziati. Il futuro eroe dell’Unione Sovietica, il maresciallo Konstantin Rokossovskij, trascorse un lungo periodo in un campo di “ rieducazione”, prima di essere riconosciuto innocente.
Pietro il Grande era tornato.
Qualcosa si muove.
Andrej Zdanov, il potente segretario del Partito Comunista di Leningrado e, stando ai si dice, successore designato di Stalin, non si stancava di ripetere il solito ritornello: “ La Germania non può affrontare la guerra su due fronti”. E, allora- ribatteva qualcuno- perché tutti quei movimenti di truppe tedesche a ovest dell’Unione Sovietica ? Perché quei voli continui sulle posizioni russe del Baltico? “ Guerra psicologica o questioni di sicurezza, nient’altro”, era l’immancabile risposta. I militari del Distretto di Leningrado pensavano: se un esponente così in vista del Partito qual è Zdanov non è preoccupato, dovremmo esserlo noi? Ma faticavano a farsene una ragione. Forse la Germania non avrebbe combattuto su due fronti, ma, di sicuro, teneva d’occhio l’Unione Sovietica.
Anche troppo.
Era primavera inoltrata , pioveva spesso, faceva ancora freddo. Ma presto, molto presto sarebbe arrivata l’estate con le sue notti bianche e allora gli abitanti di “Piter”, come ancora era chiamata confidenzialmente Leningrado, avrebbero tirato tardi, godendosi il fresco lungo la Neva o nei giardini della città . Presto, molto presto, gli innamorati, nel caldo sole di giugno, avrebbero passeggiato mano nella mano facendo progetti sul proprio futuro. Ma quale futuro?
Per ora il futuro non preoccupava lo scrittore Alexander Luknitzkij , a passeggio per la vie di Leningrado accompagnato dal suo cane Mishka. Tutto era tranquillo, era una bella giornata. Il cagnolino scorrazzava in lungo e in largo come suo solito . Era felice e si fidava del padrone. E il padrone salutava questa o quella signora, questo o quel conoscente, sempre tenendo d’occhio il suo amico a quattro zampe, badando che non si allontanasse troppo.
Era sabato, sabato 21 giugno. Un sabato qualunque , a Leningrado.
Un sabato qualunque?
Non per l’ammiraglio Arsenij Golovko, capo dei servizi di terra della Marina. Nei giorni precedenti aveva segnalato a Mosca numerosi voli di ricognizione da parte di aerei tedeschi. Mosca aveva risposto tenendosi sul vago, come sempre. E ammonendo, come sempre, di non cadere in provocazioni di sorta. Quel sabato , nel cielo sopra Leningrado non era comparso un solo aeroplano . I tedeschi si erano stancati o stavano preparando qualcosa? Golovko era preoccupato. Ad ogni modo, pensò, inutile farsi il sangue cattivo: meglio andare a teatro e godersi lo spettacolo. E così fece.
Anche il vice- ammiraglio Vladìmir Tributz, comandante della flotta del Baltico alla fonda nel porto di Tallin, in Estonia, era inquieto. Troppi voli tedeschi, troppi movimenti di truppe: qualcosa era nell’aria. Ma che cosa? Meglio stare sul sicuro: mise la flotta in allarme 2 e chiese a Mosca l’autorizzazione a posare mine a scopo precauzionale. L’ammiraglio N. G. Kutnètzov, Commissario alla Marina, gli rispose di stare sul chi vive, ma di evitare qualsiasi provocazione. Per quanto riguardava la posa delle mine, niente da fare.
Ma neppure lui era tranquillo: forse sarebbe stato più prudente impartire alla flotta del Baltico, a quella del Mar Nero, a tutte le navi sovietiche lo stato di massima allerta. Già, ma come riuscirci senza fare imbufalire Stalin, convinto che tutti quei movimenti, tutte quelle voci di guerra fossero soltanto propaganda o un’astuta manovra anglo-americana per mettere i tedeschi e i russi gli uni contro gli altri?
L’ammiraglio ci pensò un po’ su , poi trovò la scappatoia: impartì alle flotte l’ordine di entrare in allarme 1 spacciandolo per un’esercitazione. Anticipò di poco i tempi: qualche ora dopo, infatti, l’ordine ufficiale di massima allerta arrivò direttamente dal Cremlino. Recava la firma del nuovo capo di stato maggiore, il generale Georgij Zukov.
L’ordine di Zukov non deve trarre in inganno : pochi, in Unione Sovietica, credevano ancora veramente o volevano credere alla guerra. Qualche giorno prima, il 13 giugno, la Tass , l’agenzia di stampa sovietica, aveva ribadito l’infondatezza di tutte le voci relative a un attacco tedesco. E i soldati, i cittadini dovevano forse dubitare degli organismi ufficiali? Non ci sarebbe stata guerra: se lo diceva Mosca, se lo scriveva la Tass era vero.
Non era vero.
Barbarossa.
I tedeschi lanciarono la loro offensiva, l’operazione Barbarossa, all’alba del 22 giugno, domenica, lungo tre direttrici: Leningrado, Mosca , Kiev. I sovietici furono colti completamente di sorpresa.
Eppure erano stati avvisati per tempo, conoscevano persino la data e l’ora dell’attacco. E, allora, se sapevano, perché non cercarono subito di correre ai ripari? La risposta è semplice: perché Stalin non credeva a un’aggressione tedesca o non voleva crederci. Secondo lui, tutte quelle voci di guerra erano una provocazione, nient’altro. In fin dei conti, i due Paesi erano ancora uniti da un patto di amicizia e di non aggressione( il cosiddetto “Patto Ribbentrop- Molotov”), sempre rispettato dai sovietici. E tanto bastava.
All’ultimo minuto, tuttavia, Stalin fu assalito da scrupoli e tormentato da dubbi. Allora si mosse, cercando di vedere le carte in mano a Hitler , ma il suo tentativo fu goffo e, soprattutto, inutile. Von Ribbentrop, ministro degli Esteri del Reich non si fece vedere né trovare per l’ intera giornata di sabato 21 giugno, mentre l’ambasciatore sovietico a Berlino, Dekanozov, lo cercava per mare e per terra. Von Weizaecker, primo segretario del Ministero, contattato verso sera, non fu affabile e disponibile come suo solito. “ I nostri aerei vi attaccano? A me risulta il contrario” disse gelido a un sempre più disorientato Dekanozov. Né era andata meglio a Molotov: aveva convocato al Cremlino l’ambasciatore tedesco von Schulenburg, ma non era riuscito a cavare un ragno dal buco.
Perché tutto quel movimento diplomatico? Stalin era pronto , pur di evitare la guerra, a fare concessioni politiche e territoriali anche consistenti? Forse sì, forse no. Ad ogni modo era tardi per qualsiasi cosa. A sera inoltrata, von Ribbentrop comparve : era teso, eccitato e forse ubriaco. Fece convocare Dekanozov e gli consegnò la dichiarazione di guerra. Poi, con le lacrime agli occhi, rimarcò davanti all’ambasciatore sovietico la propria estraneità a quella decisione.
Era la guerra, dunque. Ma, nonostante l’evidenza, si faticava a crederci. Quando aerei nazisti attaccarono Sebastòpoli, in Crimea, un ufficiale sovietico della contraerea fu diffidato dall’aprire il fuoco: ignorò l’ordine, rischiando la fucilazione. Altrove, a Libau , sul Baltico, l’autorizzazione fu concessa solo quando gli aerei nemici ebbero sganciato le loro bombe.
Il generale d’armata D.G. Pàvlov, comandante del Distretto Speciale d’Occidente, era a teatro a Minsk quando gli venne comunicata la notizia dell’attacco tedesco. “ Non può essere”, commentò” E’ una sciocchezza”. Il Commissario alla Difesa Semjon Timoschenko, chiamò da Mosca e ammonì: “ Vietato aprire il fuoco senza autorizzazione contro gli aerei tedeschi ”. Forse si credeva, forse si sperava, in una specie di bluff e non si voleva commettere un passo falso , fornendo a Hitler un pretesto per affondare il colpo.
Ma Hitler non bluffava: faceva sul serio. I suoi andavano di gran carriera , circondavano le divisioni sovietiche , distruggevano al suolo gli aerei , prendevano una città dopo l’altra. Von Leeb avanzava verso Leningrado da due direzioni- con la XVIII Armata verso Pskov- Ostrov e , con la XVI Armata, verso Kaunas e la Dvina- in perfetto orario, sfasciando le difese terrestri sovietiche, usando come maglio il formidabile 4° corpo corazzato del generale Hoeppner.
Hitler era stato chiaro: prima Leningrado, poi Mosca. E la manovra di von Leeb era stata disegnata in funzione di quell’ordine e del tempo stabilito per avere ragione dell’antica città di Pietro: un mese. E bisognava rispettarli, i tempi. Perché secondo i piani , una volta presa Leningrado, le divisioni del Gruppo Nord avrebbero dovuto operare una conversione verso Mosca per chiudere la tenaglia insieme al Gruppo di Armate Centro. Per von Leeb tempo contato e vietato sbagliare, dunque.
Verso Leningrado.
A ovest e a sud-est, Leningrado era sguarnita o quasi. Per i sovietici, il confine pericoloso era, da sempre, quello con la Finlandia, vale a dire quello settentrionale. Lì erano state erette fortificazioni, lì erano state ammassate truppe. In Estonia, in Lituania, in Lettonia, si era fatto poco. In primo luogo perché quegli stati erano entrati a far parte dell’Unione Sovietica da appena un anno; in secondo luogo, perché la maggior parte della popolazione baltica non aveva digerito quell’annessione e non ne faceva mistero e, in terzo luogo, perché erano attivi gruppi armati di nazionalisti ostili all’URSS. Negli stati baltici, insomma, la polizia lavorava a pieno ritmo, l’Armata Rossa un po’ meno.
A Tallin era alla fonda la potente flotta sovietica del Baltico, ossessione di Hitler; nel retroterra erano state erette qua e là linee difensive ancora approssimative e disseminate truppe. C’erano sempre seicento chilometri o giù di lì, fra la frontiera con la Germania e Leningrado, una bella distanza senza dubbio, ma un piano generale di difesa mancava.
Stando così le cose, i sovietici, di fronte allo strapotere nazista, non potevano fare miracoli. Kaunas fu presa in men che non si dica , nonostante la resistenza accanita delle guardie di frontiera; numerose divisioni prive di ordini o con ordini senza capo né coda ( tipo: contrattaccare e riprendere Kaunas), furono sorprese in movimento e spazzate via. Altre si diressero alla cieca verso posizioni troppo distanti o già in mano nemica. Von Manstein , alla testa del suo Corpo corazzato , passò il Niemen ad Alytus, raggiunse la Dvina a Dvinsk e si spinse avanti , transitando sui ponti rimasti intatti. Era il 26 giugno e i carri nazisti, sul fronte nord, erano penetrati per quasi centoottanta chilometri in territorio sovietico. Un disastro, insomma.
Ma un trionfo, per gli aggressori. Hitler sprizzava gioia da tutti i pori; Halder, il suo capo di stato maggiore, non era da meno. E Stalin? Stalin, dopo l’iperattivismo delle prime ore successive all’invasione, non reagiva. Era come se fosse caduto in catalessi . Per più di una settimana, passerà ore e ore chiuso nella sua stanza al Cremlino o nella sua dacia fuori città incapace di prendere decisioni, incapace, quasi, di parlare.
Parlò invece Molotov, a mezzogiorno del 22, ora di Mosca. Siamo stati attaccati a tradimento, disse, senza una ragione e senza un motivo. Ma siamo nel giusto e vinceremo. Nella città di Pietro, qualcuno si chiese : “ Perché parla Molotov e non Stalin?”. Chi li aveva, si precipitò in banca a ritirare i propri risparmi; tutti fecero incetta di viveri. Il cibo in scatola, di solito detestato dai russi, andò a ruba. Ma andò a ruba anche il caviale.
I nazisti si muovevano con la velocità del fulmine, ma avevano fatto i conti senza l’oste . Benché prive di ordini o con ordini contraddittori, le divisioni sovietiche si battevano con coraggio e tenacia, prima di essere spazzate via. La popolazione collaborava. Intendiamoci : non tutti nella città di Pietro stravedevano per Stalin e per il comunismo, ma, vistosi aggredito, ognuno si sentiva in dovere di battersi fino in fondo per la difesa della città. Gli abitanti di Leningrado, dunque, si mobilitarono o vennero mobilitati. Chi non poteva imbracciare un fucile, scavava trincee e sbarramenti anticarro o, come facevano i poeti e gli scrittori, parlava alla radio per tenere alto il morale della popolazione.
La tenace resistenza sovietica rallentava von Leeb. Il generale Leliùscenko , ad esempio, riuscì a fermare, seppure per poco, nientemeno che von Manstein. Anche in altri punti del fronte si tentarono contrattacchi. Dal canto suo, il generale (poi maresciallo) Kirill Mèretzkov, un veterano dell’Armata Rossa, combattente durante la guerra civile spagnola, spedito a Leningrado direttamente dalla Lubjanka -dove era stato detenuto e torturato- per adottare le misure più idonee per fronteggiare un’eventuale aggressione , fece fortificare la zona di Psokv- Ostrov, poi la linea dell’antico confine con la Finlandia, situata a una trentina di chilometri da Leningrado, quindi, a ovest, quella sul fiume Luga e, per finire, aprì un secondo fronte nei pressi di Volkov, a nord-est dell’antica San Pietroburgo.
Gli accorgimenti adottati da Meretzkov, funzionarono. A metà, ma funzionarono. Se non fermarono i tedeschi, ne rallentarono comunque la marcia.
Sulla Luga, von Leeb impiegò quasi un mese per avere ragione delle truppe sovietiche e delle male addestrate , raccogliticce, ma valorose milizie popolari – i Volontari del Popolo- e per spingersi avanti. Ma era già agosto, l’8 per la precisione, e la tabella di marcia fissata da Hitler era saltata. Sul fronte settentrionale, a prezzo di durissimi combattimenti, i finlandesi furono fermati o preferirono fermarsi. Ma non bastò. Quando i tedeschi occuparono la stazione ferroviaria di Mga, interrompendo qualsiasi comunicazione via terra con il resto della Russia, con Mosca in particolare, Leningrado fu isolata.
E la flotta del Baltico, la tanto temuta flotta del Baltico? Aveva lasciato Tallin in mezzo a una confusione indescrivibile. A causa delle mine e degli attacchi aerei continui aveva subito perdite consistenti , soprattutto in vite umane, ma era riuscita a raggiungere Kronstadt. E , da lì, i cannoni dell’incrociatore Kirov e delle altre navi da guerra sovietiche , non cessavano di martellare le posizioni nemiche, nel tentativo di dare respiro alla città.
Era una brutta situazione. A questo punto, direttamente da Mosca il generale Zùkov fu spedito a Leningrado. Georgij Kostantìnovic Zukov capiva poco i sacri testi del marxismo, aveva un pessimo carattere , ma ci sapeva fare. Figlio di un ciabattino poverissimo, sottufficiale nell’esercito zarista prima, ufficiale in quello sovietico poi, si era fatto le ossa in Estremo Oriente, dove sul Chalkin-Gol le aveva suonate ai giapponesi. Dopo quel successo, Stalin lo aveva chiamato al Cremlino e ne aveva fatto uno degli ufficiali più in vista dell’Armata Rossa. Non aveva peli sulla lingua, Zukov. Neanche con Stalin. In sua presenza, alzava spesso la voce: non gliele mandava a dire, insomma. E , stranamente, Stalin non reagiva e , a volte, almeno nei primi tempi, sembrava subirne la personalità.
Correva una leggenda: prima di ogni battaglia, Zukov raccoglieva un pugno di terra e l’annusava: poi decideva se attaccare o meno. Leggenda a parte, era molto deciso, persino spietato. Una volta il generale Eisenhower gli chiese come facessero i sovietici ad affrontare i campi minati. Rispose: la fanteria attacca come se il campo minato non esistesse. Il tipo era questo.
Il nemico oltre le porte.
Quando Zukov arrivò a Leningrado, la situazione era disperata. I nazisti , sfondata la linea della Luga e presa Mga, premevano e stavano per impadronirsi della città. D’ora in avanti, ordinò Zukov, non ci si ritira più, si attacca. Nello stesso tempo, però, furono allestite linee difensive, aperte feritoie nei palazzi e nelle abitazioni , costruite casematte; ci si preparò ad affrontare il nemico casa per casa; l’intera Leningrado fu minata. Il porto di Kronstadt fu riempito di bombe di profondità collegate a un unico detonatore : né il porto né la flotta dovevano cadere in mano nemica. Tutto sarebbe dovuto saltare in aria se i tedeschi avessero sfondato.
Ci andarono vicino, ma non sfondarono. Arrivati sulle rive della Neva, non riuscirono ad attraversarla: ci provarono, ma invano. Così, andarono a farsi benedire la possibilità del congiungimento con i finlandesi in arrivo da nord e il sogno di Hitler di prendere alle spalle Mosca. Che cosa li trattenne? Forse mancavano di pontoni , forse non si aspettavano di dover attraversare il fiume sotto un fuoco intensissimo, forse erano stanchi e provati dalla tenace resistenza sovietica e dai contrattacchi di Zukov, forse sottovalutarono il nemico.
Eppure sarebbe bastato poco. I sovietici, conciati male com’erano, non ce l’avrebbero fatta a fermarli. I tedeschi, invece, raggiunto il fiume, tentarono soltanto qualche episodica sortita, ma non ci provarono mai in forze. E a questa inspiegabile leggerezza, Leningrado dovette, per la seconda volta dopo la Luga, la salvezza. A Lìgovo, ad esempio, nei sobborghi della città, i sovietici erano attestati attorno a un edificio, casa Klinovskij, ed erano quattro gatti. Ma quei quattro gatti , nonostante il terribile impeto tedesco, tennero duro e , col passare delle ore , ricevettero rinforzi, artiglieria, lanciarazzi katiuscia, divennero sempre più numerosi e fu impossibile sloggiarli.
A volte, i soldati di entrambe le parti, stanchi morti, si fermavano per rifiatare. Durante una di queste pause , un soldato sovietico intonò, come sanno fare soltanto i soldati russi, una vecchia canzone popolare. Quando il canto finì, accadde una cosa inaspettata: si udì una voce dall’altra parte della trincea invocare : “ Ancora, russo! Ancora!”
In settembre, i tedeschi ci avevano provato anche dal cielo. Ondate successive di bombardieri , scarsamente contrastati , avevano scaricato tonnellate e tonnellate di bombe su Leningrado, mietendo vittime, minacciando i tesori artistici dell’Ermitage, stivati in fretta e furia nelle cantine e nei sotterranei del museo, colpendo caserme, ospedali, installazioni militari, abitazioni di civili. E i magazzini Badajev, soprattutto. Con i magazzini,- centrati in pieno- erano andate a fuoco tonnellate e tonnellate di viveri: l’intera scorta di Leningrado. I sovietici , poco prudenti o accorti, avevano colpevolmente trascurato di immagazzinare i viveri in luoghi diversi, al fine di rendere i depositi meno vulnerabili in caso di attacco.
Da Leningrado si partiva. Partivano i bambini, soprattutto. Sempre troppo pochi, però e in modo del tutto improvvisato. Molte delle località verso le quali venivano sfollati, tanto per fare un esempio, si trovavano lungo la direttrice di marcia dei tedeschi in avanzata. Mancava, infatti, un piano complessivo di evacuazione: sottovalutazione degli eventi o speranza di poter respingere gli invasori?
A Leningrado si arrivava. Arrivarono la nota poetessa Vera Imber e il marito, un medico famoso, in procinto di assumere l’incarico di primario all’ospedale cittadino. Fu una questione di puro patriottismo: stare nelle retrovie, confidò la poetessa a un’amica, ci sarebbe sembrato un atto di viltà.
Non se ne andavano solo le persone. Da Leningrado erano partiti, in due riprese, imballati con cura, alcuni dei tesori dell’Ermitage: i Leonardo, i Rubens , i Raffaello, i Rembrandt, gli El Greco; da Leningrado partivano , a pezzi per essere rimontate altrove, molte fabbriche. A Leningrado, tutti combattevano per la città o lavoravano per la città , donne comprese. E tutti si aspettavano il peggio.
Poi, un giorno, i tedeschi si misero a scavare trincee. Il formidabile Corpo corazzato del generale Hoeppner era stato tolto a von Leeb intorno alla metà di settembre e spedito sul fronte di Mosca. Dove, in fretta e furia, ai primi di ottobre fu richiamato anche Zukov perché, annusando o meno la terra, compisse un altro miracolo. Il comando passò allora al generale Ivàn Fediuniskij ( poi al generale Michail S. Chozin). Senza il Corpo corazzato di Hoeppner, i tedeschi, già dentro Leningrado, avevano perso spinta e velocità e, per ordine di Hitler, si erano fermati.
Zukov, lo spasìtel , il salvatore, aveva vinto la battaglia di settembre.
Quando vide i soldati tedeschi lavorare di zappa, la popolazione di Leningrado trasse un profondo sospiro di sollievo : la città e i resti della flotta del Baltico, per il momento, erano salvi. Sull’antica fortezza di Schlisselburg -l’antica Orescek, l’”Osso duro” di Pietro il Grande- sventolava la bandiera rossa: per quanto tempo ancora avrebbe continuato a sventolare?
A lungo Hitler aveva accarezzato il sogno di entrare a Leningrado da vincitore, di passare in rassegna le truppe schierate , di festeggiare la vittoria all’Hotel Astoria. La necessità di conquistare Mosca gliene aveva impedito la realizzazione. Per prendere la capitale sovietica aveva spostato truppe da Leningrado, indebolendo la pressione di von Leeb sulla città di Pietro. Ma la necessità di conquistare Mosca non gli avrebbe impedito di decretare la morte per fame di Leningrado. E non glielo impedì. Dichiarò: non è nostro compito nutrire tutta la popolazione di Leningrado. Se prendiamo la città, dovremmo farlo: non possiamo permettercelo. Von Leeb fu avvertito: stringere la città in una morsa mortale e se la città si arrende, rifiutarne la resa. Hitler aveva deciso: Leningrado sarebbe dovuta sparire dalla faccia della terra e, con essa, l’intera sua popolazione. I finlandesi, interpellati in merito, non ebbero nulla da obiettare.
Per la città di Pietro stavano arrivando i giorni della prova suprema.
Il principe Mìshkin e la principessa Mìshkina.
L’incendio dei magazzini Badajev fu un colpo terribile. Le scorte di viveri erano andate, letteralmente, in fumo. La città, allora, fu rivoltata da cima a fondo , alla ricerca di qualcosa di commestibile. Se ne occupò un instancabile funzionario, Dimitri Pavlov, autore, fra l’altro, di un interessante libro di memorie su quei giorni. Trovò poco. E così, le razioni furono ridotte e la qualità del cibo peggiorò. Se all’inizio si aveva diritto a 800 grammi di pane al giorno, nel giro di poco tempo si passò a 200. Presto il pane sarebbe stato un impasto di segatura e di cellulosa, duro e amaro . Scarseggiava la corrente elettrica: come riscaldare le abitazioni durante i mesi più freddi? Niente da dire: i sovietici non solo non avevano predisposto misure adatte per fronteggiare un assedio, ma non ci avevano neppure pensato. E ora stavano per pagarne le terribili conseguenze.
Qualcosa, è vero, arrivava attraverso il Làdoga, il grande lago situato a est di Leningrado. Chiatte e imbarcazioni portavano viveri, carburante e munizioni nella città assediata e dalla città assediata evacuavano i bambini, i civili e i feriti dell’Armata Rossa . Ma durò poco. Agli inizi di novembre, i tedeschi del generale Schmidt , impadronitisi della località di Tichvin, bloccarono la strada attraverso la quale , dall’entroterra, affluivano i rifornimenti verso il Làdoga e si apprestarono a stringere un secondo cerchio attorno a Leningrado. La radio tedesca annunciò trionfante: “ Achtung! Achtung! Tichvin è caduta!”
La perdita di Tichvin fu un disastro. La strada alternativa per rifornire Leningrado, lunga più di trecento chilometri in un territorio impervio e difficile , non era stata neppure cominciata. Sotto l’incalzare degli eventi, fu allestita in fretta e furia , ma cominciò a funzionare tardi e male. In certi punti era così stretta che gli autocarri non riuscivano a passare. Il flusso di rifornimenti si fermò e, in città, le razioni furono ulteriormente ridotte.
Non si andava per il sottile: chi rubava le tessere annonarie o ne stampava di false; chi si impadroniva delle tessere altrui; chi veniva scoperto a fare mercato nero, finiva immediatamente davanti al plotone di esecuzione. Chi smarriva la propria tessera era condannato a morire di fame.
File di persone uscivano di casa sotto i bombardamenti continui per cercare cavoli, patate o semplicemente erbe commestibili nei campi, nei giardini, lungo i fossi; le donne si ammucchiavano davanti ai negozi e restavano lì, in fila, apparentemente incuranti delle bombe che cadevano a grappoli. A Leningrado si cominciò a morire di fame. Si dimagriva o ci si gonfiava; scorbuto e distrofia muscolare si diffusero; pochi – i più fortunati, i più astuti, i più ricchi- furono risparmiati. La gente cadeva per la strada e sulla strada, spesso, rimaneva. I giovani erano i primi a morire e anche al fronte , dove si combatteva duramente, si pativa la fame. In città un anello di brillanti valeva quanto una pagnotta di pane nero.
Gli animali erano spariti. Non si vedevano più cani, gatti, piccioni, corvi, passeri. Come erano lontani i tempi in cui un soldato dell’Armata Rossa aveva incontrato in città una ragazza con una gatta in braccio e due maschere antigas a tracolla . “ Perché due maschere?” le aveva chiesto. “ Una per me e una per la mia gatta. Credi che la lascerei morire , in caso di attacco con i gas?” aveva risposto la giovane. Adesso i gatti venivano mangiati. E anche i cani. In città, ce n’era uno, Dinka, addestrato, in puro stile pavloviano, a correre nel rifugio antiaereo al suono delle sirene di allarme. Tutti gli volevano bene. Un giorno non si vide più.
Qualche tempo prima, quando un convoglio di soccorso aveva raggiunto la località di Koivisto, sul fronte nord, per evacuare i feriti e i soldati sottoposti a un durissimo attacco finlandese, un’imbarcazione, già staccatasi dal porto, era tornata indietro per recuperare un cane- mascotte rimasto a guaiolare sull’imbarcadero. Gli animali dei reggimenti erano trattati bene: i soldati si affezionavano loro e li consideravano una specie di portafortuna. Per questo, Alexandr Luknitzkij pensò di regalare il proprio amatissimo cane Mishka a un’unità militare. “ Al fronte , mangiano meglio e il cane sopravviverà”, provò a dire. Intervenne suo figlio : è meglio che il cane ce lo mangiamo noi, disse senza tanti giri di parole. La spuntò. Solo qualche mese prima, Mishka, come abbiamo visto, correva felice e fiducioso insieme al proprio padrone, lungo le rive della Neva.
Un altro abitante di Leningrado uccise e mangiò il proprio cane e fu preso da terribili rimorsi. Tanto terribili da passarsi una corda al collo e farla finita. Un altro ancora fu visto, con il cane in braccio, accompagnare un funerale. L’uno e l’altro erano due scheletri e il cane aveva un misto di terrore e di rassegnazione negli occhi sbarrati, insolitamente grandi. Il padrone se lo teneva ben stretto al petto , quasi a proteggerlo. Era affetto, era solidarietà o era semplicemente desiderio di salvare la propria preziosa riserva di cibo? Ma non erano soltanto gli abitanti di Leningrado a infierire sugli animali. Una bomba nazista aveva centrato il giardino zoologico , sventrando gabbie e abbattendo staccionate . L’elefantessa Betty, colpita da una scheggia, era morta dopo ore di agonia, barrendo disperatamente. Sembrava che i topi si fossero trasferiti in massa al fronte, dove c’erano maggiori scorte di cibo. Prediligevano la parte tedesca: si mangiava meglio. In città se ne vedevano pochi.
A Leningrado c’era chi si faceva delle “ scorte”: non consumava, cioè, tutto il pane che riceveva, ma ne conservava qualche briciola per i momenti di emergenza . Una sera un bambino avvertì la presenza di un topo nella scatola delle “ scorte”. Che fare? Uccidere l’animale e mangiarselo? Preferì liberarlo: anche il topo, a modo suo, era una vittima e soffriva la fame quanto lui. I bambini , a Leningrado assediata, ragionavano così.
A volte, la presenza di un topo in casa era una specie di compagnia, come avere , in tempi normali, un cane o un gatto. Non solo per Vera Imber- che lo ha lasciato scritto- ma anche per molti abitanti di Leningrado, “Mishkin” e “Mìshkina” ,Topolino e Topolina, divennero , dove tutto moriva, presenze di vita. Qualcuno, ogni sera, lasciava loro qualche briciola; altri davano loro la caccia.
Alle soglie dell’inverno, si cominciò a parlare di bambini scomparsi misteriosamente e le madri ebbero un motivo in più per preoccuparsi. Se si mangiava di tutto, persino la carta da parati e la colla, perché non si sarebbe dovuto mangiare carne umana? In Piazza delle Erbe, comparvero i “ cannibali”. Vendevano carne, polpette soprattutto. E la gente le comprava, senza fare né farsi troppe domande. Qualcuno giurava di aver visto cadaveri mutilati: la carne delle cosce e delle spalle era stata asportata da qualcuno del mestiere, un macellaio, sicuramente.
I “ cannibali” sembravano prediligere i soldati: erano giovani e meglio nutriti. Qualcuno di loro, tornando in città per fare visita ai famigliari, cadeva vittima di misteriose imboscate. Qualche volta, però, i soldati si prendevano la rivincita. Un pomeriggio tre giovani , due ragazzi e una ragazza , si recarono al mercato per comprare un paio di stivali di feltro, i caldi valenki. Offrivano, come contropartita, seicento grammi di pane, la moneta con la quale si pagava tutto, in quei tempi, a Leningrado. Un mercante di Piazza delle Erbe li aveva – o , meglio, sulla bancarella ne aveva uno solo- e accettò il pane. “ Venite con me”, disse “ Vi consegnerò anche l’altro”.
I ragazzi lo seguirono, tesi e sul chi vive. Uno di essi salì le scale di una gelida abitazione; gli altri aspettarono in strada. Giunto davanti a una porta chiusa, il mercante la aprì con queste parole: “ C’è n’è uno vivo, qui”. Il giovane si sentì afferrare, ma riuscì a divincolarsi. Giunto in strada si imbatté in una pattuglia di soldati regolari, diretti verso il Làdoga. Riferì loro l’accaduto. I militari scesero dall’automezzo e salirono le scale. Si udirono alcuni colpi di arma da fuoco. Alla fine , quando uscirono dall’abitazione, i soldati restituirono ai ragazzi il loro pane.
Si vendeva anche la terra, in Piazza delle Erbe. Quella dei magazzini Badajev era richiestissima: su di essa era, infatti, colato lo zucchero solidificato dal fuoco provocato dal bombardamento nazista di settembre. I bambini, per lo più orfani da un pezzo di uno o di entrambi i genitori, mangiavano gambi di cavolo congelati trovati per strada fra i rifiuti, senza neppure scaldarli. Erano perennemente alla ricerca di cibo. Una volta, in una panetteria, uno di loro si avventò sulla pagnotta in procinto di essere ritirata da una donna. Afferrò quel pane , se lo portò alla bocca e cominciò a divorarlo, incurante delle percosse e delle grida della legittima proprietaria. Un altro bambino , ormai in punto di morte, continuava a muovere le mascelle come se stesse mangiando chissà quale leccornia.
Le file per il pane erano sempre più lunghe e i vicoli e le strade della città erano sempre più animati. Da ombre che si muovevano nell’ombra. Quando una donna, un vecchio o un uomo indebolito passava loro vicino, lo aggredivano per portargli via il pane. Le pene per i furti erano severissime, ma la fame vinceva ogni paura. Correvano leggende. Una di queste era quella del “ ladro gentiluomo”. Una sera una ragazza fu aggredita da un gruppo di uomini: fu costretta a spogliarsi e a consegnare tutti i propri vestiti agli aggressori. Uno di questi, il capo probabilmente, vedendola tremante e terrorizzata, si tolse la giacca, gliela gettò sulle spalle e sparì. Tornata a casa, la giovane trovò nelle tasche della giacca un pane di burro e una pagnotta.
A volte accadevano piccoli miracoli. Una sera, una povera donna, sola , affamata e senza cibo, sentì bussare alla porta. Quando aprì si vide davanti un giovane soldato dell’Armata Rossa. In mano aveva una borsa piena a metà di foglie di cavolo, in parte andate a male. Gliela offrì. La donna la prese senza una parola e non seppe mai perché quel soldato fosse capitato lì e avesse scelto proprio lei.
Ma succedeva anche il contrario. Una sera Vera Imber e il marito, il noto medico direttore dell’ospedale di Leningrado, stavano tornando a casa. Si imbatterono in una vecchietta corta di vista, la quale chiese loro aiuto per cercare la tessera annonaria sfuggitale di mano e caduta chissà dove. C’era troppo buio, disse la donna e lei non sarebbe mai riuscita a trovare la tessera da sola , nemmeno se fosse stata ai suoi piedi. La poetessa sbottò : “Ma che vuoi? Cercatela da sola la tua tessera!”. Il marito non disse una parola, né alla moglie né alla vecchia: si chinò, trovò la tessera , la raccolse e la restituì alla proprietaria.
Tempo dopo, Vera Imber ripensando all’episodio, non seppe trovare una spiegazione al proprio comportamento.
La spiegazione era una sola: ci si sentiva alla fine. Novembre fu un mese spaventoso per Leningrado. Sottoposta al continuo e incessante fuoco dell’artiglieria tedesca, annichilita dalla fame sembrò sul punto di cedere. Ci furono più di diecimila decessi , la maggior parte per denutrizione e stenti. E il terribile inverno russo si stava avvicinando a passi da gigante.
Ma, ai primi di dicembre, accadde un nuovo miracolo: i generali Fediuninskij e Meretzkov ripresero Tichvin. Fu un grande successo. In primo luogo, perché veniva frustrata la manovra tedesca di stringere un secondo cappio attorno al collo di Leningrado e, poi , perché la via del Làdoga tornava ad essere percorribile.
Il pane del Làdoga.
“La strada della vita” attraverso il Làdoga prese a funzionare a pieno ritmo quando sul lago il ghiaccio si solidificò a tal punto da reggere il peso di un autocarro. Si era tentato anche prima, quando il ghiaccio era ancora sottile, con slitte trainate da cavalli, ma quello che si riusciva a trasportare era come una goccia nel mare. Non c’era neve sulla superficie ghiacciata del lago quando i primi autocarri si mossero verso Leningrado e più di un autista ebbe, netta , l’impressione di viaggiare sull’acqua. Qualcuno non ce la fece e sprofondò, quando il ghiaccio non ancora completamente solidificato, cedette.
All’inizio, “ la strada della vita” funzionò male. Molto male. La prima volta ci vollero sei- sette ore per raggiungere la città; poi, giorno dopo giorno, l’organizzazione migliorò e anche i tempi di percorrenza furono ridotti. Ai primi di aprile , dalla parte più breve, la distanza sarebbe stata coperta in poco più di un’ora. Ma intanto, in quel terribile inverno, a Leningrado scarseggiava il pane e si continuava a morire di fame.
Una donna , in fila davanti alla panetteria, parlottava a bassa voce. Ce l’aveva con il freddo, con la guerra, con la lunghezza della fila, con quel pane, duro e nero che veniva distribuito. Un’altra donna, davanti a lei, ne udì le lamentele. Si voltò lentamente e, senza alzare la voce, quasi a rimproverarla, le disse: “ No, questo non è pane nero. Questo è pane bianco, è pane del Làdoga, è pane santo!”
Il pane del Làdoga non era bianco: era un pane nero e duro, ma era pane. Non ne arrivava ancora molto, anche perché i tedeschi non dormivano. Appena si accorsero del traffico, intensificarono i bombardamenti e le incursioni aeree sul lago. Ma, viaggiando col buio e con i fari schermati, molti autocarri riuscivano, seguendo le bandierine tracciavia, a compiere il tragitto di andata e ritorno. E a distanza regolare, sul lago erano stati approntati punti di appoggio, per fornire agli autisti assistenza, indicazioni , carburante. E protezione. Erano state installate, infatti, anche numerose postazioni contraeree, costruite utilizzando blocchi di ghiaccio.
Le voci di Leningrado.
Dentro Leningrado, l’inverno era sempre più buio, sempre più freddo, sempre più mortale. Ma, nonostante tutto, la vita continuava. Anche la vita culturale. Il direttore dell’Ermitage, Josif Orbelij, il giorno dell’invasione, aveva gettato uno sguardo al calendario e il suo pensiero era corso a Napoleone: anche l’imperatore , a suo tempo, aveva attaccato la Russia in giugno , più o meno in quei giorni e gli era andata male.
Ora Orbelij non pensava più a Napoleone, anche se quel pensiero, allora, lo aveva messo di buonumore né pensava ai tesori del Museo già arrivati a destinazione in una località sicura: pensava al poeta tamuride Navoj, del quale ricorreva in quell’anno il cinquecentesimo anniversario della nascita. E pensava a come celebrare degnamente la ricorrenza. Così, nel terribile inverno di Leningrado, i versi del leggendario poeta tornarono a risuonare in una stanza fredda e semivuota del palazzo dell’Ermitage sulla bocca di insigni studiosi, convocati per l’occasione, anche dal fronte. Uno di essi, terminata la propria relazione, si accasciò privo di vita sul tavolo della conferenza, stroncato dalla fame.
La biblioteca di Leningrado rimase a lungo aperta, a disposizione dei lettori e degli studiosi. E la radio non cessò mai di trasmettere. Quando, per mancanza di energia elettrica, le trasmissioni furono sospese per un paio di giorni, qualcuno commentò: “ Possiamo resistere a tutto, possiamo resistere al freddo e alla fame, ma non possiamo rimanere senza radio. Se la sua voce tace, anche le nostre taceranno”.
Un’altra voce stava per farsi sentire. Sui tetti delle abitazioni di Leningrado erano state installate postazioni di artiglieria contraerea e organizzati servizi antincendio. In una di queste postazioni, sul tetto della casa degli artisti, un uomo era di servizio. Non c’erano incendi da spegnere e quell’uomo pensava ad altro. Nella sua mente si susseguivano, in un vortice inarrestabile, le note di una grande sinfonia per Leningrado assediata; nella sua mente, uno dopo l’altro, prendevano forma i passaggi per esprimere il dolore, la morte, il coraggio, l’abnegazione, la sofferenza, la disperazione della gente della sua città. E la certezza della vittoria.
Quell’uomo era un musicista: si chiamava Dimitri Shostakovich.
Il 29 marzo ’42, la sua sinfonia n. 7, la sinfonia di Leningrado , fu eseguita nel teatro dell’Opera a Mosca. Alla fine del concerto, Shostakovich, piccolo, minuto, quasi indifeso, si alzò a raccogliere l’applauso del pubblico. “ Quest’uomo è più forte di Hitler”, pensò la poetessa Olga Bergholtz , presente quella sera in sala.
La poetessa Anna Achmàtova, anch’essa a Leningrado, parlava alla radio e scriveva. Un giorno fu sorpresa all’aperto da un attacco aereo . Raggiunse un riparo di fortuna dove si trovavano già alcuni bambini e ragazzi. Tempo dopo scriverà di uno di essi, morto fra le sue braccia:
Bussa alla mia porta col piccolo pugno e ti aprirò….
Non ti ho udito piangere.
Portami un ramoscello di acero
O semplicemente una manciata d’erba,
Come hai fatto la scorsa primavera.
E portami una manata di fredda, pura acqua della Neva
E io laverò le tracce di sangue
Dalla tua piccola testa dorata….
Ma l’acqua della Neva, a Leningrado, serviva a secchi, non a manciate. Quando, un terribile giorno d’inverno, le pompe si fermarono si rischiò la catastrofe. Senza acqua, con che cosa sarebbe stato impastato il pane?
I ragazzi e le ragazze della Gioventù Comunista , mobilitati per l’occasione, aprirono fori nel ghiaccio della Neva , formarono una catena umana e i secchi della preziosissima acqua passarono di mano in mano fino ai punti di raccolta e, da lì, raggiunsero i forni. Per quei ragazzi e per quelle ragazze era pronto un ruolo da protagonisti in un’opera teatrale sull’assedio: intervenne la censura , non se ne fece niente e la loro voce non si sarebbe mai udita.
Non che cosa? ma come?
Agli inizi di gennaio le razioni di pane erano ancora ferme a 125 grammi mentre la temperatura scendeva in picchiata sotto lo zero. Non c’era riscaldamento. Nelle vie della città fecero la loro comparsa gli slittini : fungevano da carri funebri. Sistemate sugli slittini dai vivaci colori , le salme, avvolte in un semplice lenzuolo, venivano accompagnate al cimitero.
Ma molti, troppi cadaveri restavano senza sepoltura, all’aperto, ai bordi delle strade, nelle stanze ridotte a ghiacciaie per la mancanza di riscaldamento , nei corridoi delle scuole, nelle corsie degli ospedali, persino nei saloni dell’ Ermitage o nelle sale di lettura della biblioteca. I genieri dell’esercito scavavano con la dinamite fosse comuni dove seppellire i cadaveri. Ma per quante se ne scavassero, non bastavano mai.
Zdanov e il vice segretario del partito, Alexej Kutnetzov, lavoravano come matti, organizzando, decidendo, implorando , minacciando, vedendo e ..facendo finta di non vedere. Un giorno il generale Michail Duchanov, durante un controllo, sorprese i bambini di un istituto mentre riponevano furtivamente in un vasetto parte delle razioni ricevute . Non ci mise molto a capire: quelle misere razioni erano destinate ai loro genitori, ai loro fratelli, ai loro nonni. Ma gli fu chiara anche un’altra cosa: quei bambini rubavano. E i furti erano puniti severamente. Il generale Duchanov fece per intero il proprio dovere: si voltò dall’altra parte. Quando lo riferì a Zdanov, disse: “ Non sono intervenuto, perché quello non era furto, era necessità”. E Zdanov di rimando: “ Hai fatto bene”. Poi, per tutta risposta, ordinò alle batterie sovietiche di fare fuoco su quelle nemiche, per rappresaglia. E fece evacuare quei bambini.
Vennero istituiti alcuni “luoghi protetti”, dove si mangiava un po’ meglio ed era garantita una seppur minima assistenza medica. La Gioventù Comunista fu impegnata nel controllo degli appartamenti e nel prestare aiuto a chi ne aveva più bisogno. Ragazzi e ragazze, guidate dal loro segretario, Ivànov, controllarono centinaia di abitazioni , salvando molte vite. Un giorno, penetrati in un appartamento a prima vista deserto, scoprirono, sotto un mucchio di vestiti, un bambino di pochi mesi. Lo avviarono immediatamente a uno dei “luoghi protetti” voluti da Zdanov.
Circolava la voce che i tedeschi avessero infiltrato una quinta colonna all’interno della città. Forse era vero. Di certo, prima e durante l’assedio, i controlli si fecero più stretti e chi, in passato, aveva manifestato , anche blandamente, opinioni antisovietiche cominciò a tremare e non solo per il freddo. Ma il pericolo non veniva da Leningrado, veniva da Mosca. E’ strano ( o forse no): lontano da Leningrado , nonostante la situazione in cui versava l’antica città di Pietro, non ci si dimenticava dei “ crimini politici”.
Una donna molto attiva, in quel terribile inverno, nel prestare aiuto a chi ne aveva bisogno, fu, per ordine di Mosca, deportata in Siberia insieme al proprio bambino, a causa di una storia molto dubbia risalente a parecchi anni prima. Un artista stravagante, la cui unica colpa era quella di portare un eccentrico copricapo, sparì dall’oggi al domani e non si seppe più niente di lui. Mentre a Leningrado si moriva di fame e di freddo, altrove, come se niente fosse, Berija era al lavoro e la giustizia (?) faceva il proprio implacabile corso.
Stalin, dal canto suo, sembrava voler mettere il bastone fra le ruote a Zdanov: non gli andava mai bene niente ed era prodigo di critiche , anziché di incoraggiamenti. A un certo punto, mandò a Leningrado il principe dell’artiglieria sovietica , il maresciallo Voronov, non perché portasse, ma perché togliesse cannoni alla città. Sembrava voler abbandonare Leningrado al proprio destino. Vero o falso che fosse, gli abitanti della città di Pietro se ne accorsero e scelsero Zdanov: i suoi ritratti erano ovunque, quelli di Stalin solo negli uffici pubblici. E neppure in tutti.
All’ombra della statue di Suvòrov e di Kutùsov protette da sacchetti di sabbia , ignara della partita politica in pieno svolgimento fra Stalin e Zdanov, la gente sperava nella vittoria, ma sperava, soprattutto, nella fine di quell’incubo. Chiedeva: “Quando sarà spezzato l’assedio?” . Presto, rispondevano senza troppa convinzione i militari, a chiunque glielo chiedesse , Stalin compreso. Ma spezzare l’assedio non era per niente facile. Zukov ci aveva provato più volte, in settembre, dopo aver fermato l’avanzata nazista. Non ce l’aveva fatta . E non ce la fecero neppure i generali Chozin e Meretzkov , quando, nel gennaio del ’42, lanciarono una nuova offensiva.
“ Quando sarà spezzato l’assedio?”
Nel frattempo, la “Strada della vita” era diventata a doppio senso e , finalmente, funzionava a pieno ritmo. In marzo, per la prima volta dall’inizio dell’assedio, Leningrado si trovò a disporre di riserve alimentari. In altri termini, in marzo, la città consumò meno di quello che aveva nei magazzini.
Nello stesso tempo, sempre più persone lasciavano la città e raggiungevano l’altra sponda del lago. Non sempre era un viaggio tranquillo. A volte qualcosa si metteva di traverso fin dall’inizio; altre volte un guasto meccanico, un disguido burocratico, un ritardo, una tempesta di neve o di vento , bastavano a creare confusione e problemi nelle località di arrivo. Non si sapeva a che ora sarebbero partiti i treni né quando né da dove. Chi arrivava sul fare della sera sulla sponda libera del lago doveva trovare un riparo per sfuggire al freddo polare dei mesi invernali e non sempre ce la faceva. Tuttavia, pur nella confusione causata dall’intenso traffico in un senso e nell’altro lungo le piste tracciate sul lago, più di mezzo milione di persone furono trasportate in luoghi più sicuri.
Venendo da Leningrado assediata, qualcuno fu stupito di vedere, sulla sponda orientale del Làdoga, animali vivi nei campi e nei cortili delle case.
Uscire dall’inverno , da quell’inverno fu durissima. Chi ce la fece si trovò, ai primi tiepidi soli della primavera, ridotto pelle e ossa , indebolito, provato nel fisico e nel morale. Un uomo aveva portato una bilancia in Piazza delle Erbe e faceva affari d’oro: ogni abitante di Leningrado voleva sapere di quanto fosse dimagrito durante l’inverno.
La primavera portò con sé problemi nuovi. La città era sporca: bisognava pulirla. Per evitare le epidemie, naturalmente, ma anche per togliere dallo sguardo dei sopravvissuti i cadaveri accatastati lungo le strade e per togliere dalle mense, dagli ospedali, dalle abitazioni, gli escrementi umani.
Le persone puzzavano. La maggior parte di esse non si era lavata se non raramente durante l’inverno né aveva lavato gli abiti. Furono aperti lavanderie e bagni pubblici; i genieri tornarono a fare brillare le cariche esplosive; furono formate squadre di pulizia. Alla fine di aprile anche il ghiaccio del Làdoga si sciolse, ma la strada della vita continuò a funzionare. File interminabili di chiatte facevano la spola fra la città e la sponda orientale del lago; le strutture portuali erano state perfezionate e ampliate; viveri e munizioni, farina e armi , civili e soldati si spostavano da una parte all’altra , ininterrottamente.
A poco a poco, la città si rianimò. Per la strade di Leningrado non si vedevano più i “ cannibali”, ma soldati in divisa marrone diretti al fronte ; l’ “ Osso duro” resisteva ancora e la bandiera sovietica non era stata ammainata ; i campi, i prati, i cigli dei fossi furono piantati a cavoli e a patate. Furono diffuse descrizioni accurate delle piante selvatiche in grado di fornire vitamina C , la vitamina anti-scorbuto. Le donne giovani e le ragazze da marito si passavano sulle labbra un’ombra di rossetto. Si vedevano pochissimi cadaveri per strada; i tram avevano ripreso a circolare. Le file alle panetterie, però, erano sempre lunghissime e i bombardamenti quotidiani. Di lì a poco, all’inizio delle strade, sarebbero comparse le scritte, visibili fino a non molto tempo fa : “ Attenzione, in caso di cannoneggiamento, questo è il lato più pericoloso”.
Quando l’assedio fu tolto, un giornalista straniero chiese alla scrittrice Vera Ketlìnskaja e ad alcuni suoi amici: “ Non voglio sapere che cosa vi ha tenuto in vita, voglio sapere come siete riusciti a rimanere in vita”.
Già, come?
Lazzaroni!
Govoriàt, in russo, significa parlare, chiacchierare. Il generale Leonid Alexàndrovic Govòrov non faceva onore all’etimologia del proprio cognome: parlava poco, chiacchierava meno. Quando, guardando sotto di sé a bordo dell’aereo che lo portava a Leningrado, gli scappò un “ Bravi, ragazzi!” all’indirizzo degli abitanti della città, chi lo accompagnava rimase meravigliato. Govorov era un ufficiale d’artiglieria, eroe della difesa di Mosca e veniva ad assumere il comando del fronte di Leningrado. Pochi lo conoscevano, nella città di Pietro. Solo un ufficiale, Odintzov, allora colonnello, in seguito generale, si ricordava di lui per averlo avuto come insegnante all’Accademia di artiglieria. Era in gamba, disse. E confermò: non amava le chiacchiere. E, caso strano, non era neppure iscritto al Partito.
Volle gli ufficiali a rapporto. Il generale Borìs V. Bycewskij, il valoroso e capace ufficiale del Genio, fra gli artefici della difesa della città, gli fece un quadro allarmante della situazione: molte trincee erano state scoperchiate, molti bunker erano saltati e chi doveva ripararli lavorava poco e male. Govorov alzò gli occhi , batté il pugno sul tavolo ed esclamò : “ Lazzaroni!”.
Bycewskj non la prese bene. Si lanciò allora in una difesa di quegli operai denutriti e concluse : “ Lo sa, compagno generale, che qui la gente muore di fame? Lo sa che cos’è la distrofia?” Govorov lo guardò di nuovo e, con calma, come se non avesse capito, rispose: “ Lei è teso, generale. Vada a farsi un giretto e torni fra mezzora: ci sono tante cose da fare!”.
Bycewskij seppe in seguito che “ Lazzaroni!” era un intercalare tipico di Govorov. Abituato ad apostrofare in questo modo i rampolli di agiate famiglie russe ai quali aveva insegnato in gioventù, aveva mantenuto anche in seguito l’abitudine di uscire, di tanto in tanto, con quell’esclamazione. Spesso a proposito, ma , qualche volta , anche a sproposito.
Maledetta primavera.
Sull’altra riva della Neva, i sovietici avevano una testa di ponte, dispendiosa e inutile da un punto di vista militare . Non lo era da un punto di vista psicologico e quando Govorov decise di ritirarla al di qua della Neva, qualcuno si sentì tradito. Smantellata quella testa di ponte e riportati i soldati al di qua del fiume, restava la questione dei bombardamenti. Il copione era sempre lo stesso: i tedeschi sparavano con l’artiglieria , i sovietici rispondevano. Govorov ribaltò la situazione : d’ora in avanti, si spara per primi. Il 9 agosto, i cannoni tedeschi del generale Ferch provarono ad aprire il fuoco in direzione del teatro dove, alla presenza delle autorità, veniva eseguita la settima sinfonia di Shostakovich: furono zittiti uno per uno.
A Mosca , in aprile , aveva avuto luogo una riunione ai massimi livelli. In quell’occasione , il generale Chozin, comandante in capo dei fronti di Volchov e di Leningrado, aveva presentato la proposta di unire i due fronti( vale a dire i due gruppi d’armate) per cercare di rompere il cerchio di ferro intorno alla città. Il generale Meretzkov, comandante del fronte di Volchov, aveva espresso qualche critica : era stato rimosso e mandato a comandare un’armata , la XVI. Fu richiamato al comando poco dopo, in giugno , quando, a causa dell’ assurda decisione di unire i due fronti, la II armata d’assalto era stata circondata dai tedeschi. Meretzkov doveva liberarla, anche a costo, come gli disse Stalin in persona, di abbandonare equipaggiamento e artiglieria pesante.
Il generale fece il possibile. A prezzo di perdite rilevanti, riuscì ad aprire uno stretto corridoio e lo tenne aperto per qualche ora. Lungo quel corridoio, parte della II armata riuscì a svignarsela; poi quella via di fuga fu chiusa definitivamente dai tedeschi e Meretzkov dovette abbandonare la partita. A un certo punto si diffuse la notizia della sua morte. Stalin lo cercò due giorni al telefono senza trovarlo. Quando, il terzo giorno, Meretzkov rispose, aveva avuto sotto di sé due automobili fracassate dai colpi di artiglieria e, a stento, era riuscito a mettersi in salvo.
Tirava una brutta aria, insomma. La bandiera rossa garriva ancora sulle mura dell’”Osso Duro”, ma altrove c’era poco da stare allegri. I tedeschi avanzavano verso il Volga e Stalingrado; Sebastopoli era caduta ; le unità corazzate del maresciallo List puntavano diritte al Caucaso e ai giacimenti petroliferi di Baku; il neo feldmaresciallo von Manstein aveva lasciato la Crimea e si stava dirigendo verso la città di Pietro, per darle, si pensava, il colpo di grazia. Insomma, le carte, quelle buone, sembravano essere tornate in mano a Hitler.
In quell’offensiva di primavera, Leningrado si giocò la libertà e qualcun altro la reputazione. Il generale Vlasov, ad esempio. Eroe della battaglia di Mosca al pari di Govorov, a Leningrado pasticciò, perse il controllo della situazione, subì un terribile rovescio alla testa della II armata e, alla fine, passò al nemico. Una brutta storia, mai chiarita completamente, sia nei risvolti politici, sia in quelli militari, anche per via del lungo silenzio fatto calare sul reprobo dalle autorità sovietiche, anche in tempi prossimi a noi. La colpa dello scacco subito dalla II armata d’assalto fu attribuita interamente a Vlasov. La verità era un’altra: i tedeschi erano al massimo della loro potenza e i sovietici, per quanto ci provassero, non avevano ancora forze sufficienti per batterli.
Govorov non cercò giustificazioni né si pianse addosso. Studiò la situazione, fece tesoro degli errori commessi e , preciso e scrupoloso com’era, cominciò ad abbozzare idee, a raccogliere materiale, a formulare piani e ipotesi. Presto, ne era sicuro, sarebbe venuto il momento di metterli in pratica. Per ora , li conservava parte nella sua mente e parte nella cassaforte del suo ufficio.
Il lampo della scintilla.
Intanto, si avvicinava l’inverno- il secondo inverno d’assedio. Questa volta la città sapeva come affrontarlo. Molti abitanti erano stati evacuati e, grazie all’abile operato di Alexeij Kosygin, futuro premier dell’Urss, il via vai attraverso il Làdoga non accennava a fermarsi. Rispetto al terribile inverno precedente, la popolazione era calata: due abitanti su tre o erano morti o erano stati evacuati.
I rifornimenti alimentari arrivavano con regolarità e le razioni giornaliere furono portate a 400-500 grammi di pane a testa. Non era facile, però, trovare carne , piselli o fagioli secchi e altre verdure. Era stato posato un enorme oleodotto sotto le acque del Làdoga , attraverso il quale affluiva in città il carburante necessario a far funzionare le centrali e a far muovere i carri armati. Un altro cavo sottomarino sul fondo del lago collegava Leningrado con la riattivata centrale elettrica di Volchov. In Piazza delle Erbe , i “ cannibali” erano del tutto scomparsi e, nel complesso, le cose funzionavano meglio. Tutti i sopravvissuti al terribile inverno del 1941 furono decorati.
Ma la domanda era sempre la stessa : quando sarà spezzato l’assedio?
Al Quartier Generale sovietico con sede nell’istituto Smolnij, erano in corso i festeggiamenti per il 25.mo anniversario della rivoluzione d’ottobre. I lampadari erano accesi e le notizie erano buone. Rommel era stato fermato in Africa, Paulus non faceva progressi a Stalingrado. Nel bel mezzo dei festeggiamenti, il generale Govorov fu chiamato al telefono. Era Stalin. “ Procedere con l’Esercitazione n. 5 “ fu la laconica comunicazione. Govorov ne conosceva il significato: si attaccava e , questa volta, si faceva sul serio.
Dopo quella telefonata, Govorov, con l’immancabile bicchiere di tè sul tavolo, lavorò giorno e notte all’ “ esercitazione” ; sviluppò le idee maturate dopo il fallimento dell’offensiva di primavera, studiò mappe e grafici, consultò i collaboratori e mandò a Mosca, il 17 novembre , una bozza di piano, alla quale seguì, il 22, una versione più particolareggiata . Iskra, la scintilla, stava per scoccare.
Che qualcosa fosse nell’aria , lo si capì dal fuoco di artiglieria. Chi era rimasto a Leningrado aveva ormai l’orecchio allenato e a quell’orecchio i cannoni sovietici sembravano, ora, sparare a casaccio e, in apparenza, senza alcuna logica. Ma una logica c’era: quella dispersione di fuoco doveva disorientare i tedeschi e impedire loro di individuare con precisione il punto scelto da Govorov per l’attacco. In città si vedevano pochi movimenti di truppe e mai lungo i medesimi tragitti.
Qualcuno, un giorno, per puro caso aveva visto un carro armato, un T 34, cercare di attraversare, alla presenza degli alti papaveri, la Neva ghiacciata. Quel carro era sprofondato nell’acqua gelida e il conducente era stato ripescato in extremis. Più della medaglia conferitagli, quel giovane carrista aveva apprezzato il bicchierino di vodka offertogli dopo il ripescaggio. A uso e consumo di chi era stato allestito quello spettacolo? E, soprattutto, perché?
Perché i carri, non solo i T 34, ma anche i KV da sessanta tonnellate, dovevano passare in tutta sicurezza la Neva, ecco perché. Govorov non voleva commettere errori. Non poteva . Il maresciallo Voroscilov, inviato da Mosca a Leningrado a “ osservare”, non aveva apprezzato quell’esperimento e se l’era presa, in puro stile staliniano, con l’ideatore , il generale Bicewskij. Al quale, però, Govorov, più concreto , passata la sfuriata di Voroscilov , aveva detto di continuare nel suo lavoro.
Stalin aveva fissato l’inizio dell’offensiva per l’8 dicembre; Govorov chiese e ottenne un rinvio al 12 gennaio, quando il ghiaccio della Neva sarebbe stato abbastanza solido da reggere i carri, anche i giganteschi KV. E il 12 gennaio del 1943, intorno alle nove del mattino, la scintilla si trasformò in un lampo. Con tanto di tuono al seguito.
Dopo un violento fuoco d’artiglieria, i sovietici del fronte di Leningrado attraversarono, in due fasi, la Neva ghiacciata per un’ampiezza di dodici chilometri, fra Nèvskaja Dubròvka e Schlisselburg e cominciarono a premere sui tedeschi. Contemporaneamente , dal fronte di Volchov, sempre preceduto dal fuoco dei cannoni e delle katiusce, il generale Meretzkov si mosse nel settore di Sinjàvino verso ovest, per chiudere la tenaglia. Il generale tedesco Linderman aveva avvisato i suoi : preparatevi a una dura battaglia: i sovietici non molleranno mai Leningrado. Per loro è come Mosca o come Stalingrado.
Era stato facile profeta.
Ogni giorno di più , la distanza fra i due fronti sovietici si riduceva; ogni giorno di più , nonostante gli ordini del sostituto di von Leeb, von Kueckler, di non cedere terreno, succedeva il contrario. Il 18 gennaio, dopo aver respinto l’ennesimo contrattacco tedesco, le truppe del neo maresciallo Govorov e di Meretzkov si congiunsero a circa otto chilometri a sud-est di Schlisselburg . Alle undici di sera , con voce solenne, l’annunciatore di radio Mosca lesse il comunicato ufficiale: “ Le truppe dei fronti di Leningrado e Volchov si sono congiunte, spezzando il blocco di Leningrado”.
“ Convoglio n. 719, macchinista Fedorov”
Ora la bandiera sovietica non sventolava più soltanto sull’”Osso Duro” dove aveva resistito per più di cinquecento giorni di assedio. Per le vie di Leningrado era tutto un fiorire di bandiere rosse; le ragazze abbracciavano e baciavano i soldati; il primo treno di rifornimenti, il convoglio n. 719 guidato dal macchinista Fedorov, infilatosi nello stretto corridoio aperto dalle armate sovietiche, era arrivato a Leningrado. Si faceva festa: la città non era più isolata.
C’erano ragioni per festeggiare? A migliaia, ma la alture di Sinjàvino erano ancora in mano tedesca e da lì e dalle zone circostanti, i cannoni nazisti tenevano sotto controllo quel corridoio – presto ribattezzato il “ corridoio della morte”- e sparavano sui treni provenienti dall’entroterra, sui binari, sulle postazioni fortificate. L’assedio era stato spezzato, ma la situazione era ancora difficile. Sarebbe bastato niente, una disattenzione da parte sovietica o un’offensiva condotta in grande stile dai tedeschi per chiudere quel corridoio. E per dover ricominciare tutto daccapo.
Non accadde. I sovietici non abbassarono la guardia e , benché in un solo mese i binari della ferrovia con l’entroterra fossero stati divelti più di trenta volte al giorno tutti i giorni, i treni continuarono a passare. I tedeschi, allora, se la presero con la città . Leningrado fu sottoposta a violentissimi cannoneggiamenti. La poetessa Vera Imber perse parzialmente l’udito e fu assalita dal terrore di uscire all’aperto; all’inizio delle vie , si moltiplicarono le scritte, bianche e blu, “ Attenzione, in caso di cannoneggiamento, questo lato della strada è il più pericoloso”.
Le razioni alimentari, però, furono ulteriormente aumentate. Arrivarono i primi aiuti americani: carne di maiale in scatola, farina e, soprattutto, burro e zucchero. Gli abitanti di Leningrado ne furono molto contenti, anche se- fecero notare- lo zucchero russo era più dolce e il burro più saporito.
Tutti volevano possedere un gattino e non per mangiarselo, questa volta. Ce n’erano molti in vendita sulle bancarelle del mercato: ognuno costava cinquecento rubli. Sui gradini della cattedrale di San Nicola erano tornati i piccioni; gli slittini non trasportavano più cadaveri, ma legna da ardere. Si giocò anche un campionato estivo di calcio: la Dynamo lo vinse a mani basse.
Le bombe continuavano a cadere, ma l’atmosfera era cambiata. Adesso si guardava avanti. Si pensava a come ricostruire la città, a che cosa edificare di nuovo, a che cosa restaurare o lasciare com’era , a perenne monito di quanto era accaduto. Gli architetti si misero al lavoro. E anche gli scrittori si diedero da fare : composero poesie, abbozzarono opere teatrali o racconti sull’assedio di Leningrado. Ma anche la censura era tornata al lavoro e molte di quelle opere dovettero essere riviste. Con il graduale ritorno alla normalità- perché anche l’intervento in grande stile della censura era, nella Russia sovietica, normalità- qualcosa cambiò negli atteggiamenti delle persone .
In quelli degli artisti, sicuramente. Vera Imber, adesso, non risparmiava critiche alla sua collega e amica Olga Bergholtz , autrice, secondo lei, di poesie vecchie e antiquate. Molti cominciarono a percepire i tedeschi più come una seccatura che come una minaccia. “ E’ ora che si tolgano dai piedi” era l’auspicio di tutti.
La città di Pietro voleva tornare a vivere.
Razzi su Leningrado.
Per sloggiare i tedeschi , erano state preparate e programmate per il gennaio del ‘44 due possibili offensive. La prima, denominata Neva I, sarebbe scattata nel caso in cui i tedeschi – ormai in rotta ovunque- avessero abbandonato le posizioni e si fossero ritirati anche da Leningrado. La seconda, più probabile e per questo maggiormente curata da Govorov e dal suo stato maggiore, era stata denominata Neva II e prevedeva un attacco a tenaglia lungo tre direzioni: Oranienbaum, le alture di Pùlkovo, Nòvgorod.
Nulla fu lasciato al caso. A partire dal mese di novembre, la flotta del Baltico, viaggiando di notte, trasferì a Oranienbaum migliaia di uomini , decine di cannoni, centinaia di cavalli e una sessantina di carri armati; l’artiglieria fu potenziata con i micidiali lanciarazzi katiuscia; fu garantito l’appoggio aereo; i partigiani intensificarono le missioni dietro le linee nemiche; molti bunker nazisti furono spianati per tempo dai cannoni a lunga gittata; alla guida delle armate sovietiche furono posti generali di provata esperienza, come Feiduniskij e Meretzkov . Ma, alla vigilia, quasi tutti erano tesi : troppe cose dipendevano dall’esito di quell’offensiva.
L’attacco scattò il 14 gennaio, 867.mo giorno dalla caduta di Mga e dall’inizio dell’assedio. Sul terreno si stendeva una fitta nebbia. Gli unici ad esserne contenti furono i genieri di Bicewzkij , impegnati ad aprire corridoi nei campi minati.
Precedute da un terribile fuoco di artiglieria, le divisioni sovietiche avanzarono lungo le tre direttrici previste, incontrando una feroce resistenza ma facendo significativi progressi. Poi , il 16, ci fu un breve periodo di disgelo e la neve si trasformò in pioggia. Le operazioni rallentarono. Ripresero a pieno ritmo, qualche giorno dopo, il 19, quando gelò di nuovo.
A Leningrado si stava sulle spine. Dal fronte arrivavano notizie contraddittorie, spesso confuse. Poi, il 27 gennaio , alle otto di sera, nel cielo della città esplosero migliaia di razzi , rossi, bianchi e blu. Tutti capirono e piansero di gioia. Quei razzi multicolori sparati da centinaia di cannoni significavano una cosa sola: i tedeschi , incalzati dai soldati dell’Armata Rossa, abbandonavano Leningrado. Memore dell’esortazione di Puskin la città di Pietro era stata incrollabile: adesso era finalmente libera.
Libera?
Epilogo .
Dopo la guerra, Leningrado tornò, per breve tempo, ad essere quella di prima: ricca di iniziative e fervente di vita. Fu aperto un museo dell’assedio , una sorta di Memoriale, il cui reperto più significativo era una piccola bilancia sui bracci della quale erano stati posti alcuni minuscoli pesi e 125 grammi di pane; furono preparati progetti ambiziosi per la ricostruzione della città . Molti intellettuali di Leningrado cullavano un sogno: partendo dalla città di Pietro, un nuovo umanesimo si sarebbe potuto diffondere per tutta l’Europa.
Non andò così. La città di Pietro si trovò, dall’oggi al domani, sprofondata in un complicato affare politico. Zdanov , richiamato a Mosca nell’aprile del 44, ne fu l’oggetto. Passati i primi, bruttissimi momenti dell’invasione e dell’assedio, durante i quali la sua posizione si era fatta quanto mai precaria, Zdanov aveva risalito la china.
Non rimase in vetta per molto tempo. Morì nel ’48, forse avvelenato, forse di infarto cardiaco e Leningrado precipitò , come ai tempi dell’assassinio di Kirov, in un periodo di terrore. Gli arresti, le destituzioni, le esecuzioni sommarie e le deportazioni divennero la norma. Furono inventate le accuse più infamanti: di tradimento, di connivenza con gli invasori, di tentata defezione dall’Unione Sovietica. Pagarono in molti e nessuno seppe mai il perché. A Mosca era in corso una sordida lotta per il potere nella quale il potente capo della polizia segreta, Berija e l’astro nascente Malenkov recitavano un ruolo importante e Leningrado era il perno attorno al quale questa lotta ruotava. O un pretesto, se si preferisce.
La nota poetessa Anna Achmàtova e altri intellettuali furono messi al bando ; il museo dei 900 giorni fu chiuso e il suo direttore, un maggiore dell’Armata Rossa, spedito in Siberia ; la censura infierì sui romanzi , i drammi e i racconti di quei terribili giorni ; persino gli avvisi di stare sull’altro lato della strada in caso di cannoneggiamento furono cancellati dalle vie di Leningrado. Nel 1957 furono ripristinati
A Leningrado perse la vita più di un milione e mezzo di persone, dieci volte di più che a Hiroshima. Le autorità sovietiche parlarono per lungo tempo di poco più di seicentomila. Perché?
Una possibile spiegazione è questa: Stalin temeva una caduta della propria popolarità e, soprattutto, di dovere rendere conto al Paese di tutti gli errori commessi, causa principale di quello spaventoso numero di morti a Leningrado e altrove. Per questo tenne nascosta a lungo la verità. Ma bastava mentire per mettersi in pace la coscienza?
Oggi Leningrado ha ripreso l’antico nome di San Pietroburgo. Il nove maggio di ogni anno, in tutta la Russia , si celebra solennemente l’anniversario della resa dei nazisti ai sovietici. Il nove maggio di ogni anno, per un giorno, la città di Pietro torna a chiamarsi Leningrado. Per un giorno, per un solo giorno, torna a essere, anche nel nome, la città del freddo e della fame, della disperazione e della speranza, dell’abiezione e del coraggio, del sacrificio e dell’eroismo. Perché, come è stato scritto, nessuno dimentichi , nulla sia dimenticato.
Post scriptum
Quando Hitler attaccò, nel 1941, l’Unione Sovietica, la vendette così: mi muovo per primo per impedire a Stalin di attaccare me e l’Europa tutta.
Oggi Putin dice: ero minacciato dalla NATO, dovevo attaccare in Ucraina, non avevo altra scelta.
Gli storici hanno messo in luce le vere intenzioni di Hitler; di quelle di Putin poco si sa e occorrerà tempo per conoscerle appieno. Di certo, fin da ora, c’è questo: non risulta che la NATO ammassasse truppe al confine russo né che, minacciosamente, orientasse i propri missili in direzione della Piazza Rossa.
La storia, dunque, si ripete. Ma rovesciata, questa volta. I discendenti russi di quei sovietici che ebbero ragione dei nazisti si comportano a loro volta da invasori nazisti: massacrano, violentano, deportano, torturano, saccheggiano. Invadendo l’Ucraina, essi hanno disonorato e disonorano i loro padri, hanno offeso e offendono la memoria di milioni di russi come loro ( sì, russi prima che sovietici) caduti nella lotta contro il nazismo.
Per questo il 24 febbraio 2022 sarà ricordato, per usare le parole pronunciate dal presidente americano Franklin D. Roosevelt in occasione del proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor, come un nuovo “ giorno dell’infamia” e la parata del 9 maggio, quest’anno, sarà per molti la parata della vergogna.
Da leggere.
Chris Bellamy, Guerra assoluta, Einaudi , 2010
Paul Carrel, Operazione Barbarossa, Einaudi
Martin Gilbert: la grande storia della seconda guerra mondiale, 1989; Mondadori Oscar Storia, 2003
Basil Liddle Hart, Storia di una sconfitta, 1948
John Keegan, La seconda guerra mondiale, una storia militare, 1986; Bur saggi, 2003
Richard Overy, Russia in guerra, Il Saggiatore, 2000
Constantin Pleshakov, Il silenzio di Stalin, Corbaccio, 2007
Harrison E. Salisbury, I 900 giorni, l’assedio di Leningrado, Bompiani, 1969
Alexander Werth, Leningrado, Einaudi, 1947
Su questo sito puoi leggere anche :
I traditori e gli eroi ( la battaglia di Mosca, 1941),
Uno contro uno ( La battaglia di Kursk, 1943),
Sei barra uno ( La battaglia di Stalingrado, 1942-43)
Andata e ritorno ( I tedeschi nel Caucaso, 1942)
Gli abeti rossi ( Il massacro di Katyn, 1940)
Verso Berlino (Operazione Bagratiòn, controffensiva sovietica in Bielorussia,1944)
La corsa ( La caduta di Berlino)
QUIpuoi trovare un elenco completo degli articoli relativi alle due guerre mondiali ( e non solo) pubblicati su questo sito.
Gli avvenimenti in breve.
22 giugno 1941:
– I tedeschi invadono l’Unione Sovietica, lanciando all’alba l’Operazione Barbarossa, ;
– il generale Kiril Mèretzkov arriva a Leningrado;
– Viaceslav Molotov, Commissario agli Esteri, annuncia alla radio lo scoppio della guerra.
23 giugno. A Mosca si installa lo Stavka, il Comando Supremo con a capo il maresciallo Semiòn Kostantìnovic Timoschenko.
24 giugno: le navi da guerra sovietiche alla fonda a Riga, in Lettonia, abbandonano la città e si dirigono verso Tallin, in Estonia, sede principale della flotta del Baltico
25 giugno: Kaunas, in Lituania, viene occupata dal generale Georg von Kuechler .
26 giugno: Erich von Manstein raggiunge Dvinsk alla testa dei propri reparti
27 giugno: Andreij Zdanov rientra a Leningrado da Soci, sul Mar Nero, dove si trovava in vacanza.
1 luglio : cade Riga.
3 luglio: Stalin , per radio, si rivolge con tono dimesso e interrompendosi spesso, “ai fratelli, alle sorelle, agli amici” della Russia: sono gli inizi della “ Guerra Patriottica”.
5 luglio: i tedeschi prendono Ostrov.
8-9 luglio: il maresciallo Fedor von Leeb attacca la linea fortificata della Luga. I difensori sovietici sono costituiti per metà dai Volontari del Popolo.
9 luglio: i panzer nazisti entrano a Pskov, l’antica città legata al nome di Alexander Newskij .
10 luglio: il maresciallo Kliment Voroscìlov è nominato comandante supremo del fronte di Leningrado; molti generali vengono destituiti.
21 luglio: sui muri di Leningrado compaiono i manifesti con la scritta :” Il nemico è alle porte!”
6 agosto: i finlandesi sfondano il fronte nord e raggiungono il Làdoga nei pressi di Khitola.
8 agosto: dopo un mese di accanita resistenza e dopo perdite spaventose, i sovietici sono costretti ad abbandonare la linea della Luga.
8 agosto: Stalin viene nominato Comandante Supremo dell’Unione Sovietica.
15 agosto: ulteriori progressi dei finlandesi sul fronte nord; i sovietici si ritirano sulla linea delle fortificazioni antecedenti la guerra del 1939-40 . A prezzo di grandi sacrifici , I finlandesi vengono fermati e il fronte si stabilizza praticamente fino alla controffensiva sovietica del 1944.
21 agosto: direttiva di Hitler: prima Leningrado, poi Mosca.
26 agosto: lo Stavka ( il Comando Supremo)di Mosca ordina l’evacuazione di Tallin e della flotta del Baltico, fatte segno a un massiccio attacco nazista.
27-31 agosto: a prezzo di perdite elevate, sia militari sia civili, Tallin viene evacuata via mare e i resti della flotta del Baltico raggiungono Kronstadt.
30 agosto : i tedeschi prendono Mga, una stazione sulla linea Leningrado- Vologda- Mosca e interrompono qualsiasi comunicazione fra la città di Pietro e l’entroterra.
8 settembre: comincia il bombardamento dall’aria di Leningrado: bombe incendiarie centrano in pieno i magazzini Badajev, dove sono stivate le scorte di viveri per la città.
8 settembre: i carri tedeschi raggiungono Schlisselburg , l’antica fortezza sulla Neva, e chiudono il cerchio attorno a Leningrado.
9 settembre: von Leeb lancia un attacco lungo due direzioni: da sud –ovest attraverso i sobborghi di Kràsnoje Selo e Lìgovo verso gli stabilimenti Kirov e da sud-est, lungo l’autostrada Leningrado-Mosca, appena oltre Izhorzk e Kolpino. I tedeschi raggiungono la Neva, ma inspiegabilmente, non l’attraversano.
13 settembre: il generale Georgij K. Zukov assume il comando di Leningrado: sostituisce il maresciallo Voroscilov, destituito per “ passività di fronte al nemico”.
16-21 settembre: Leningrado viene minata.
17 settembre: il Corpo Panzer del generale Erich Hoeppner viene tolto a von Leeb e inviato al fronte di Mosca.
18 settembre. I tedeschi , fermati a Lìgovo, già dentro la città, si “ riposizionano” e cominciano a trincerarsi.
19 settembre: violenta incursione aerea nazista su Leningrado: centrato in pieno il grande centro commerciale Gostinij Dvor; molti morti.
6 ottobre: Zukov è richiamato a Mosca e il generale Ivàn Fediuniskij lo sostituisce a Leningrado.
7 novembre: sulla fortezza di Schlisselburg- l’”Osso duro” come era comunemente chiamata- isolata dal resto della cittadina in mano ai nazisti, i difensori issano la bandiera rossa: ci resterà fino alla prima controffensiva sovietica dell’inverno del 1943.
8 novembre. I tedeschi occupano la località di Tichvin, interrompendo la strada dei rifornimenti dall’entroterra al lago Làdoga.
15 novembre: le razioni di pane, in città, vengono portate a 175 grammi. Vengono ridotte anche le razioni per le truppe combattenti.
18 novembre: muore in combattimento, sul sommergibile in cui era stato imbarcato, il tenente Aleksej Lebedev. Aveva 26 anni ed era uno dei più promettenti poeti di Leningrado
20 novembre: le razioni di pane per la popolazione non combattente scendono a 125 grammi
22 novembre: sul Làdoga ghiacciato transitano i primi autocarri verso Leningrado. Prima si era provato con slitte trainate da cavalli.
Inizi di dicembre: in città gli slittini, da strumenti di divertimento diventano mezzi di trasporto:portano malati, feriti, moribondi. E cadaveri, soprattutto.
9 dicembre: i sovietici riprendono Tichvin: il traffico sul Làdoga si intensifica.
10 dicembre: a Leningrado, i tram smettono di circolare.
10 dicembre: all’Ermitage, vengono celebrati i cinquecento anni della nascita del poeta tamuride Aliscev Navoi.
25 dicembre: Zdanov ordina un aumento delle razioni, in concomitanza con un’offensiva per riprendere Mga . L’offensiva fallisce.
8 gennaio 1942: la radio tace per qualche tempo in molti quartieri di Leningrado.
18 gennaio: sulla “strada della vita”, vengono superate, per la prima volta, le quote fissate per il trasporto dei viveri.
20 gennaio: vengono predisposti piani specifici per evacuare da Leningrado gran parte degli abitanti non necessari alla produzione bellica.
24 gennaio: le razioni vengono portate a 400 grammi di pane per gli operai e a 250 grammi per la popolazione non attiva
25 gennaio : la centrale elettrica n. 5 smette di funzionare per mancanza di combustibile. L’acqua necessaria per impastare il pane viene prelevata dalla Neva ghiacciata dai ragazzi e dalle ragazze della Gioventù Comunista.
11 febbraio: le razioni giornaliere vengono ulteriormente aumentate: 500 grammi di pane per gli operai e 300 per la popolazione non attiva.
8 marzo. Vengono recapitati i primi telegrammi e le prime lettere dopo mesi. Per smaltire l’intera posta accumulata, occorrerà un anno.
15 marzo: si comincia a pulire la città e a liberare le strade dai cadaveri.
20 marzo: riprendono a funzionare le centrali elettriche.
29 marzo: a Mosca viene eseguita la settima sinfonia di Dmitrij Shostakovich, composta per Leningrado assediata.
12 aprile: Alekseij Kossyghin rende noto che, da gennaio, sono state sfollate lungo la strada della vita più di cinquecentomila persone.
Inizi di aprile: il generale di divisione Leonid Aleksàndrovic Govorov assume il comando del “ Fronte di Leningrado”.
15 aprile: alcuni tram riprendono a funzionare ( linee 7,9, 10, 12). Un soldato tedesco prigioniero dichiarerà : “ Capii che non avremmo vinto, quando udii lo scampanellio dei tram per le strade di Leningrado.”
24 aprile: prima del disgelo, arriva l’ultimo carico di viveri dal ghiaccio del Làdoga: si tratta di un carico di cipolle.
22 giugno: attraverso il Làdoga privo di ghiaccio lunghissime teorie di chiatte e di imbarcazioni di vario genere continuano a rifornire la città.
Primi di giugno: all’inizio delle vie cittadine compaiono le scritte “ Attenzione, in caso di cannoneggiamento, questo lato della strada è il più pericoloso”.
Seconda metà di giugno: viene lanciata , inutilmente, un’offensiva per spezzare l’assedio. Il 25 giugno la II armata d’assalto viene accerchiata. Nonostante gli sforzi del generale Kirill Meretzkov per liberarla, le perdite sono ingenti. Il generale Andreij Vlasov, eroe della difesa di Mosca e comandante della II armata, passa al nemico.
27 giugno: prigionieri nazisti vengono fatti sfilare sulla “Prospettiva Newski”.
9 agosto: la settima sinfonia di Sciostakovic viene eseguita a Leningrado.
7 novembre: discorso di Stalin alla radio.” Presto si farà festa nelle strade delle città russe”, annuncia.
31 dicembre: il presidente dell’Urss, Michail I. Kalinin, annuncia alla radio la resa della Sesta armata tedesca a Stalingrado.
12 gennaio 1943: Govorov lancia l’operazione Iskra, “Scintilla”, per spezzare l’assedio.
18 gennaio: le truppe sovietiche dei fronti di Leningrado e di Volchov si congiungono, liberando Schlisselburg e aprendo una via con l’entroterra.
7 febbraio: il treno 919 , guidato dal macchinista Fedorov , raggiunge Leningrado attraversando lo stretto corridoio aperto con l’operazione Iskra. Presto, quel corridoio sarà ribattezzato “ il corridoio della morte”.
30 maggio: la Dynamo vince il campionato estivo di calcio.
24 giugno: Leningrado subisce un cannoneggiamento devastante.
14 gennaio 1944: scatta l’operazione Neva II, l’attesa offensiva sovietica per liberare la città.
22 gennaio: i tedeschi, in rotta, abbandonano Leningrado e si ritirano verso gli stati baltici.
27 gennaio: il cielo di Leningrado è attraversato da migliaia di razzi multicolori per celebrare la vittoria. La scrittrice Olga Bergholtz commenta: “ Io, scrittrice di professione, non riesco a trovare le parole per esprimere questo momento” . E conclude: “ Ora, a Leningrado, c’è silenzio”.
L’immagine del palazzo d’Inverno di San Pietroburgo è tratta da:
www.paesionline.it › … › San Pietroburgo
le altre da Wikipedia.
Cartina di Leningrado assediata.( Da Richard Overy, Russia in guerra, citato). Clicca sulla cartina per ingrandirla.
La poesia ” Bussa alla mia porta…” di Anna Achmatova è tratta dal libro di Harrison Salisbury, I novecento giorni, citato.
Cliccando sul video seguente, puoi ascoltare uno dei movimenti più significativi ( il cosiddetto ” Tema dell’invasione”) della Settima sinfonia di Shostakovich.
Per ascoltare l’intera sinfonia, collegati al seguente sito: Shostakovich-Sinfonia7.html