I denti del Cobra

21/06/2014

Intorno alla metà di  luglio 1944, il tenente generale Omar Bradley comandante della Prima armata impegnata in Normandia, ricevette una telefonata: il maggior generale Leonard Gerow, suo vecchio compagno di corso alla Scuola di Guerra, gli chiedeva di raggiungerlo presso il comando della Seconda divisione. E aggiungeva: non venire solo. Portati  il tuo ufficiale di ordinanza: qui abbiamo qualcosa che ti lascerà a  bocca aperta ( “We have got something that will knock your eyes out”).

Per quasi tutti noi, l’invasione della Francia –  Overlord, come fu chiamata in codice – si identifica nel D-Day, nel giorno dello sbarco. Libri e film – non ultimo “Salvate il soldato Ryan”(Saving private Ryan) – hanno trasformato il giorno più lungo in un mito, nel mito: tutto accadde e si decise in quelle drammatiche, concitate ore.
In realtà le cose andarono diversamente. Non fu affatto una passeggiata. Sbarcati il 6 giugno, solo in agosto gli Alleati intrappolarono i tedeschi nei dintorni di Falaise aprendosi la strada verso la Germania. Stando a Montgomery, Caen doveva essere conquistata il primo giorno dello sbarco, massimo il secondo: i canadesi vi entrarono il 19 luglio , dopo aspri combattimenti e dopo bombardamenti devastanti. E solo ai primi di agosto riuscirono a sloggiare i tedeschi dai dintorni della città.
Hitler – lo sappiamo- non volle muovere immediatamente verso la Normandia la Quindicesima armata di von Salmuth e questo favorì il consolidamento delle teste di ponte alleate. L’avanzata verso l’interno, tuttavia, fu lenta e tenacemente contrastata.  L’aviazione e i cannoni navali, il porto Mulberry di Arromanches  e la superiore tecnologia si rivelarono fattori decisivi per gli Alleati. Eppure, appena oltre le spiagge, tutta  la loro tecnologia e la loro potenza di fuoco furono messe a dura prova dalla conformazione del terreno.

Fitte siepi alte quattro, cinque metri correvano lungo i campi e le aree coltivate. Servivano a delimitare le proprietà, a controllare il flusso delle acque, a impedire al bestiame di disperdersi. Circondate da pruni, da meli e da altri alberi da frutto, quelle siepi erano barriere naturali formidabili. In caso di operazioni militari esse impedivano agli attaccanti di vedere, di manovrare con rapidità e di fare fuoco con efficacia. Al contrario, i difensori trovavano in quelle siepi ottimi ripari e possibilità di nascondersi senza essere visti. Esse divennero così micidiali punti di fuoco ed eccellenti luoghi di osservazione. Non per niente esse erano state mantenute intatte, mentre altre parti della Normandia erano state allagate dai tedeschi o completamente modificate a scopi difensivi.
L’impatto con il bocage fu immediato, inatteso e brutale. Usciti dalle spiagge, i soldati alleati – in particolare nella parte occidentale del fronte- si trovarono davanti quasi subito le alte e spesse siepi normanne. Il loro slancio si affievolì, in alcuni casi si spense del tutto. I GI e i carristi dovettero guardarsi dalle imboscate, dagli attacchi improvvisi, dai colpi di mortaio e di mitragliatrice , dai proiettili dei cannoni controcarro. Non se l’aspettavano, nessuno se lo aspettava. Nessuno aveva pensato a un modo per superare quelle siepi alla svelta e in sicurezza. Gli analisti militari semplicemente non lo avevano previsto. A sentir loro, i tedeschi una volta subito lo sfondamento, si sarebbero ritirati verso posizioni più sicure senza combattere. E invece, al riparo delle siepi, combattevano. Con tenacia e con accanimento.

Superare quelle maledette siepi diventò ben presto la questione prioritaria. L’aviazione – il punto di forza degli Alleati- aveva sì il dominio dei cieli, ma faticava a individuare i centri di osservazione tedeschi perfettamente mimetizzati nella vegetazione. E da quegli osservatori venivano dettate le coordinate per l’artiglieria, fornite indicazioni per le unità corazzate o per la fanteria.
Dal canto loro, i soldati alleati avanzavano quasi alla cieca esposti al fuoco nemico. I carri avevano un solo modo per superare quegli sbarramenti naturali: passarci sopra. Ma quando lo facevano , diventavano oltremodo vulnerabili perché, impennandosi, esponevano la “ pancia” al fuoco nemico. Quando invece tentavano di aggirarli, venivano presi di mira dai micidiali 88 tedeschi o si perdevano in un intrico di sentieri. Combattere nel bocage era come combattere in un labirinto. In quel succedersi continuo di siepi, fossi, sentieri si girava in tondo senza venire a capo di alcunché. Certo, prima o poi si sarebbe usciti  dal “ labirinto”.  Ma a quale prezzo?
Eppure il modo c’era. Geniale nella sua semplicità. I soldati ne parlavano, cercavano soluzioni. Aprire varchi nelle siepi usando gli esplosivi? Si poteva fare, certo, ma i problemi erano tanti, troppi. Occorreva una quantità enorme di tritolo per consentire agli Sherman di superare una siepe dietro l’altra. Come trasportare tutto quell’esplosivo? Come farlo arrivare in prima linea? Come piazzare le cariche nel posto giusto e rapidamente? Il soldato Roberts,  contadino nella vita civile, provò allora a dire: lasciamo perdere gli esplosivi: saldiamo sbarre di ferro sulla parte anteriore degli Sherman e usiamole per abbattere le siepi. Risata generale.
Forse anche il sergente Curtis “Bud” Culin rise quando sentì la proposta di Roberts. Ma poi ci tornò su. Più ci pensava, più la cosa gli sembrava fattibile. Se il problema era quello di consentire ai carri di passare attraverso le siepi, perché non dotarli di lame d’acciaio da usare a mo’ di falci? Il ferro e l’acciaio non scarseggiavano. Sulle spiagge normanne c’erano centinaia di  grossi aculei di metallo, i cosiddetti “asparagi di Rommel”. Sì, si poteva fare. Lì e subito.
Il sergente Culin ne parlò ai propri ufficiali e la cosa ebbe seguito. Sul muso di uno Sherman fu saldata una sbarra orizzontale dalla quale sporgevano quattro lame d’acciaio. Le prove sul campo diedero risultati soddisfacenti:  era nato il CHC( Culin Hedgerow Cutter) o Rhino tank.
Era quella la cosa “strabiliante” di cui aveva parlato Gerow. Bradley ne fu entusiasta. Si era alla vigilia dell’Operazione Cobra e quelle maledette siepi dovevano essere superate in fretta se non si voleva precludere l’esito dell’operazione. E il CHC era lo strumento adatto, efficacissimo nella sua semplicità. Perché non averci pensato prima?
Con la benedizione di Bradley cominciò così un  frenetico lavoro di forgiatura e di saldatura. I genieri furono costretti a turni massacranti per dotare gli Sherman delle nuove lame. Alla fine di tutto quel lavoro, sei carri su dieci montavano le appendici . Ora il Cobra era pronto a colpire.

Il sergente Culin si guadagnò una Medal of Honor per quell’ invenzione “assurdamente semplice” (Bradley) e una Purple Heart quando, quattro mesi più tardi, subì una grave ferita a una gamba saltando su una mina. Alla fine della guerra tornò in America e intraprese l’attività di commesso viaggiatore. Morì il 20 settembre 1963.
Ha scritto il generale Eisenhower: “ L’invenzione del sergente Culin che ci ha permesso di sfondare con successo in Normandia è la dimostrazione di quanto gli americani sappiano essere ingegnosi.”

Da www.flamesofwar.com
Da http://www.flamesofwar.com

 

 

Leggi QUI altri articoli relativi alle due guerre mondiali pubblicati su questo sito.

 

Da leggere:

Stephen E. Ambrose, D-Day. Storia dello sbarco in Normandia, Rizzoli, 1998
Claude Bertin, La vera storia dello sbarco in Normandia, Res Gestae, 2013
Larry Collins, La storia segreta, Mondadori, Oscar Storia, 2005
Cornelius Ryan, Il giorno più lungo, BUR, 2003
Oliver Wieviorka, Lo sbarco in Normandia, Il Mulino, 2009

Da vedere:

Il giorno più lungo, di Darryl F. Zanuck,Ken Annakin, Bernhard Wicki, 1962
Salvate il soldato Ryan, di Steven Spielberg, 1998