Un’isola troppo lontana

Prologo

 

A bridge too far ( in italiano Quell’ultimo ponte) è il titolo di un libro del giornalista e scrittore Cornelius Ryan. È ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale e racconta il tentativo – fallito- degli Alleati di entrare in Germania passando dai Paesi Bassi. Il ponte( bridge) cui si fa riferimento nel titolo è quello di Arnhem, in Olanda, raggiunto ma non conquistato dai paracadutisti alleati. La sua mancata conquista pregiudicò la riuscita dell’intera operazione denominata in codice Market-Garden.
Ma, in inglese, l’espressione A bridge too far ha anche un altro significato. È un’espressione idiomatica traducibile liberamente con “ un passo più lungo della gamba”, “ qualcosa al di fuori della portata di qualcuno”. Stando così le cose, dunque, tentare di raggiungere ” a bridge too far” diventa un azzardo assai pericoloso.
E assomiglia molto a un azzardo quello compiuto, molti secoli prima, nel 415 a.c., dalla marina e dall’esercito di una superpotenza di allora. Se Cornelius Ryan fosse vissuto a quei tempi e avesse scritto di quegli avvenimenti, avrebbe intitolato il suo libro “ An island too far”, un’isola troppo lontana, alludendo, da un lato a un’isola reale e dall’altro all’azzardo di mettersi in gioco a più di mille chilometri da casa.
L’isola è la Sicilia; l’azzardo è quello che vede protagonisti Atene e gli Ateniesi.

Le balle di Segesta

Dopo la cosiddetta pace di Nicia ( 421 a.c.), Atene ha le mani libere e coltiva l’idea di espandersi a occidente, in Sicilia. Aveva già cercato di farlo qualche anno prima( 427 a.c.), ma il suo intervento a favore degli abitanti di Leontini ( oggi Lentini) si era concluso con un fallimento. Leontini è ora nell’orbita della potente Siracusa, la fazione democratica è stata espulsa dalla città e gli esuli bombardano Atene di continue richieste di intervento. Altre due città, Segesta e Selinunte sono ai ferri corti per questioni territoriali.
Selinunte ha l’appoggio dell’onnipresente Siracusa. Da soli, i Segestani non ce la possono fare, rischiano di finire come gli abitanti di Leontini. Sia Cartagine, sia Agrigento, interpellate in merito, non vogliono grane e respingono le richieste di aiuto. I Segestani mandano allora- siamo nel giugno del 416 a.c. – ambasciatori ad Atene- alla quale sono legati da vincoli di amicizia- e vengono subito al sodo. State attenti, dicono, perché se Siracusa afferma la propria egemonia sulla Sicilia, per voi sono dolori. I Siracusani sono di stirpe dorica, proprio come i vostri nemici spartani. Resisteranno un domani, se richiesti, alla tentazione di aiutarli? E che cosa succederebbe se la loro flotta cominciasse a correre i mari, a darvi fastidio, a disturbare le vostre comunicazioni? Dateci ascolto, aiutateci. Ci guadagnereste doppiamente: privereste Sparta di un potenziale alleato e non spendereste una dracma perché – udite, udite- pagheremmo tutto noi.
I soldi aprono porte e spalancano portoni. Sempre. Soprattutto quando a pagare sono gli altri. Figurarsi poi in guerra, dove l’oro conta a volte più del ferro. Proposta intrigante, pensano quei paraculi degli Ateniesi sempre più inebriati dal profumo dei soldi e solleticati dalla prospettiva di mostrare i muscoli a spese altrui. Discutono il caso in assemblea e per il momento si mantengono prudenti. Decidono, come primo passo, di raccogliere informazioni. Vogliono sapere a che punto sia la disputa fra Segesta e Selinunte e, soprattutto, se davvero nei templi segestani ci siano ricchezze a profusione. Inviano allora alcuni loro incaricati in Sicilia e aspettano.
Gli ambasciatori tornano all’inizio della primavera del 415 insieme ad alcuni inviati di Segesta. Che non sono venuti a mani vuote, ma con sessanta talenti in argento. Ecco qui, dicono i siciliani mostrando tutto quel ben di dio agli esterrefatti Ateniesi: sessanta talenti, sessanta navi. Per un mese. Il resto, se necessario, ve lo daremo in corso d’opera.
È una balla colossale. Segesta non può sostenere il costo dell’intera spedizione a lungo. E lo sa. Ma è stata furba. Ha truccato la partita facendo dell’apparenza sostanza. E gli inviati ateniesi ci sono cascati in pieno. Interpellati in proposito, confermano: i templi e le dimore private di Segesta traboccano di oro, di argento, di vasellame, di monete e di pietre preziose. Li abbiamo visti con i nostri occhi. Vero, ma non sanno di aver visto sempre le stesse ricchezze in luoghi diversi o vasellame prezioso avuto in prestito da altri. Un trucco da magliari sta per inguaiare – e inguaiare di brutto- Atene.
La decisione dell’assemblea è scontata. “ Che cosa aspettiamo? Armiamo sessanta navi subito, diamo pieni poteri ai nostri comandanti, sistemiamo la questione in Sicilia e vediamo di trarne vantaggio”. Con grande soddisfazione dei fedifraghi Segestani, sembra fatta.
Sembra, ma non è così. Nicia, uno dei comandanti ( gli altri sono Lamaco e la superstar Alcibiade), se potesse, si terrebbe volentieri alla larga da quell’avventura. Troppi rischi, nessun vantaggio. Rischio di compromettere la pace faticosamente raggiunta e perennemente in bilico; rischio di fare il passo più lungo della gamba; rischio di farsi un ulteriore nemico; rischio, in caso di sconfitta, di finire in ginocchio e di non rialzarsi più; rischio di pagare cara l’ambizione, l’inesperienza e l’impulsività dei giovani.
Lo dice chiaramente in assemblea e si becca la reprimenda di Alcibiade. Che, subito dopo, si pronuncia a favore dell’impresa, elencandone i vantaggi e autoproclamandosi degno del comando. Standing ovation, applausi, grida da stadio. In un clima da “armiamoci e partiamo”, i veterani si sentono invincibili; i più giovani non vedono l’ora di conoscere un mondo nuovo e di partecipare a un’impresa eccitante( come se le guerre, tutte le guerre, lo fossero).
Bene , interviene a questo punto Nicia, volete la guerra? E guerra sia. Ma attenzione. Ci aspetta un’impresa tutt’altro che facile. Siracusa è potente, ha navi, alleati, denaro. E , soprattutto, una cavalleria rispetto alla quale la nostra è poca cosa. Dunque, per stare sul sicuro, ci vogliono più opliti, più frombolieri e arcieri, più navi da trasporto, più triremi da guerra, più soldi. Quanto? A occhio e croce direi non meno di cento navi da combattimento, cinquemila o più opliti, unità di frombolieri, di arcieri e di fanteria leggera. Chi paga?
Sono richieste stratosferiche sparate di proposito. Nicia le spara grosse perché vuole far saltare l’operazione o, perché, per usare un eufemismo, vuole guardarsi le spalle. Il suo ragionamento è il seguente: se l’operazione salta a causa delle spese troppo alte, tanto di guadagnato per tutti: per me, per la pace, per Atene; se l’operazione viene autorizzata nonostante lo sforzo finanziario richiesto, io avrò fra le mani una poderosa macchina da guerra e potrei anche vincere.
Preferirebbe la prima soluzione. E di gran lunga. Ma Alcibiade ha seminato bene, spargendo ottimismo, suscitando entusiasmo. E in assemblea è la sua posizione a prevalere: si va, costi quel che costi. I pochi contrari tacciono: non vogliono fare la figura di chi rema contro. In questo clima drogato e sovraeccitato, il buon senso e la moderazione sembrano peccati mortali. Qualcuno si spinge oltre, molto oltre. La Sicilia? È solo il primo passo, poi toccherà a Cartagine.
A quando lo sbarco sulla luna?
I messaggeri partono alla volta delle città alleate, si levano soldati, si raccolgono soldi, si armano navi. Nonostante gli indovini predichino sciagure( ma non manca anche chi profetizza trionfi), nonostante alcuni intellettuali ( fra cui Socrate) nutrano seri dubbi sulla riuscita dell’impresa, si lavora di buona lena, si procede alacremente. La popolazione è cresciuta, la terribile epidemia di qualche anno prima è ormai alle spalle, c’è disponibilità di danaro. Insomma, indovini menagramo a parte, tutto sembra procedere nel migliore dei modi.
Ma qualcuno ci mette lo zampino.

Accuse e misteri

Una mattina, mentre i preparativi per la spedizione in Sicilia sono ancora in corso, gli Ateniesi si svegliano, scendono in strada e rimangono di stucco: le erme[1], le statuette votive poste , con funzioni beneauguranti , ai crocevia e all’ingresso delle case e dei templi, sono state profanate. Nottetempo qualcuno le ha sfregiate e/o ne ha asportato il pene. L’indignazione monta, si pensa addirittura a un complotto per abbattere la democrazia. Chi sa parli, è l’invito perentorio delle autorità. Ascolteremo tutti, compresi gli schiavi e i meteci.
Qualcuno comincia a parlare, salta fuori il nome di Alcibiade. Ha mutilato lui le erme? No, ni , forse. Però corre voce che abbia partecipato in passato a bravate del genere e che abbia inscenato una parodia dei misteri eleusini, in una casa privata, in presenza di un mucchio di ubriachi e- addirittura- di schiavi.
Tutto falso, ribatte Alcibiade. E incalza: processatemi subito, io sono pronto. Anche ad accettare una condanna, se mi troverete colpevole. Processarlo subito? Troppo popolare fra i soldati, troppo ben visto, troppo influente, troppo pericoloso. Meglio invocare un supplemento di indagine e lasciarlo partire. Al suo ritorno se ne riparlerà.
Si parte, dunque. Prima fermata Corcira ( oggi Corfù), luogo di raccolta di quel mini Overlord dell’antichità.

Come a Berlino secoli dopo, anche a Siracusa c’è chi si aspetta l’invasione. Se la aspetta, ad esempio, Ermocrate, un tipo in gamba con le armi e con le parole. Stanno per arrivare, dice ai propri concittadini. E non vengono certo con intenzioni amichevoli. Diamoci subito una mossa o sarà troppo tardi. Mandiamo in giro messaggeri, stringiamo alleanze qui da noi e in Italia. Se del caso, anche con Cartagine. Anzi, vi dirò di più: facciamo noi la prima mossa. Andiamo loro incontro a vele spiegate, spaventiamoli un po’ e chissà che non ci vada bene. Chi li comanda, infatti, non sembra entusiasta di questa avventura.
Come avrà saputo dei dubbi e dei tentennamenti di Nicia?
La sua esortazione, però, cade nel vuoto. Molti, moltissimi, non gli credono( “ Gli Ateniesi alle porte? Figuriamoci”); alcuni addirittura pensano che voglia approfittarne per ottenere maggior potere. Di muovere per primi, poi, neanche a parlarne.

Raggiunta Reggio( oggi Reggio Calabria), i comandanti ateniesi scoprono il bluff: Segesta non può pagare. Che fare allora? Nicia: facciamo vela verso Selinunte, sistemiamo le cose, mostriamo i muscoli e poi torniamocene a casa. Lamaco: è Siracusa il nostro vero obiettivo. I Siracusani non sono pronti: attacchiamoli subito e chiudiamo la partita. Più aspettiamo, più loro si rafforzano. Alcibiade (pensando a Nicia): Tornare a mani vuote? Non sia mai. Dotiamoci di una base operativa, stipuliamo alleanze in loco e, una volta verificato chi è con noi e chi è contro di noi, diamo addosso a Siracusa.
Nicia sarà anche timido, irresoluto e troppo prudente ma, viste le circostanze, la sua sembrerebbe una proposta improntata al buon senso. Ma non passa, non può passare. Lamaco –la cui proposta è forse la migliore- cambia idea e si schiera con Alcibiade. Catania( Katane), “ convinta” [2]a passare dalla parte degli Ateniesi, viene trasformata in base operativa.
La frittata è fatta.

Il patatrac

Nel frattempo ad Atene ne stanno succedendo di tutti i colori. Le indagini sulla profanazione delle erme e dei Misteri non si sono fermate né si fermano. Anzi. Si grida al complotto, si teme per la tenuta del regime democratico. In un clima da caccia alle streghe, decine di persone innocenti finiscono in galera e chissà quante altre ci finirebbero se a un certo punto, con la promessa dell’impunità, un presunto testimone non fornisse la propria versione dei fatti. Di cui è lecito perlomeno dubitare, chiosa Tucidide.
Salta fuori, fra gli altri, anche il nome di Alcibiade. Va processato, urla la folla. Ma Alcibiade è in Sicilia con la flotta, ha responsabilità di comando, è impegnato in un’operazione quanto mai delicata e complessa. Che fare? Istruiamo subito un processo nei suoi confronti come vuole il “popolo” o ne aspettiamo il ritorno? A riprova che gli dei privano della ragione coloro che vogliono perdere, Atene richiama Alcibiade. La nave di stato Salamina raggiunge Catania con il compito di riportare in patria lui e gli altri soldati accusati di empietà.
Non ci arriveranno mai. Forse approfittando di una tempesta, la nave su cui viaggiano beffa la Salamina e scompare. Alcibiade raggiunge prima Turi( colonia ateniese in Italia) e poi Sparta, dove viene accolto a braccia aperte dagli Efori ( e, stando alle malelingue, anche dalla moglie del re Agide). Abbonderà in carezze ( alla regina) e in consigli ( agli Efori), mettendo le corna al re e causando guai a non finire ai suoi colleghi impegnati in Sicilia.
Proprio una bella decisione.

Un fiume in inverno

In Sicilia, Nicia e Lamaco, orfani di tanto collega, non combinano granché. Faticano a trovare alleati. Le città greche di Sicilia, infatti, nicchiano, si mantengono prudenti e diffidano dei nuovi arrivati. I Siracusani, dal canto loro, riprendono animo e morale. Gli invasori tanto temuti sembrano essere in confusione, pasticciano a Ibla, sembrano restii ad affondare il colpo. Perché, allora, non assumere l’iniziativa, marciare su Catania e impartire loro una lezione?
Gli animi si scaldano. Gruppi di cavalieri armati si spingono fino al campo ateniese, si fanno beffe dei difensori, li deridono per il passo falso di Ibla. Li scherniscono: che cosa siete venuti a fare fin quaggiù? Siete venuti per riportarvi con le armi i Leontini o per abitarvi insieme a noi e diventare nostri vicini?
È ora di agire, pensano Nicia e Lamaco. Hanno un piano. Attiriamoli qui a Catania e, mentre loro lasciano Siracusa, noi nottetempo ci avviciniamo alla città via mare, sbarchiamo, scegliamo dove combattere e li aspettiamo. Esuli siracusani suggeriscono: attestiamoci nei dintorni del tempio di Zeus Olimpico. Lì il terreno è sconnesso: sembra fatto apposta per mettere in difficoltà la loro imprendibile cavalleria.
Già, ma come far scattare la trappola? E qui Nicia- o chi per lui- ha il colpo di genio. Invia una sua spia a Siracusa. L’uomo è conosciuto. Dice di venire a nome dei filo-siracusani di Catania, fornisce le generalità di alcuni di loro e nessuno sospetta che faccia il doppio gioco. E continua: gli Ateniesi non trascorrono la notte al campo, ma in città. Volete sbarazzarvene? Bene, ecco come fare. Fissiamo un giorno preciso. In quel giorno, voi vi presenterete con l’esercito davanti alle mura. Appena vi vedremo, noi chiuderemo le porte impedendo agli Ateniesi di uscire dalla città. Anzi, faremo di più: ne incendieremo le navi. A questo punto, impossessarsi del loro campo sarà, per voi, una specie di passeggiata.
Di fonte a una storia del genere, un minimo di prudenza non guasterebbe. Ma i comandanti siracusani sono in fibrillazione, smaniano dalla voglia di dare una lezione agli Ateniesi boriosi, supponenti e – secondo loro- anche un tantino cacasotto e si lasciano convincere: fissano il giorno dell’attacco e congedano lo spione.
Il giorno stabilito, le avanguardie siracusane raggiungono Catania, trovano il campo nemico deserto e nessuna nave alla fonda nel porto. Gli Ateniesi si trovano già nei pressi del tempio di Zeus a due passi da Siracusa, occupano un terreno disseminato di alberi, punteggiato di muretti, delimitato da uno stagno e da una scarpata. Il terreno meno adatto alla cavalleria. Non solo: hanno eretto palizzate a protezione delle navi, allestito una postazione fortificata e tagliato il ponte sul fiume Anapo.
E nei pressi dell’ ”invisibile” Anapo, fra lampi e tuoni, va in scena lo scontro fra i due eserciti. I Siracusani, tornati di gran carriera da Catania, hanno coraggio, si battono bene, ma , alla fine, devono cedere alla superiore abilità tattica degli Ateniesi. I vincitori, però, non sfruttano la vittoria(col senno di poi, un errore grave). Anziché affondare il colpo, si fermano, raccolgono i propri caduti( una cinquantina, stando a Tucidide) , consentono ai vinti di recuperare i loro( duecentosessanta), erigono un trofeo, e, essendo ormai sopraggiunto l’inverno, se ne tornano a Catania.
Stagione morta? Non esattamente. Gli Ateniesi, ad esempio, partono in tromba contro Messina convinti di farne un solo boccone e ritornano ai quartieri invernali con le pive nel sacco. Prima di partire per Atene quel serpente di Alcibiade aveva svelato ai Messinesi i piani di Nicia e Lamaco. Contano su una quinta colonna, aveva detto loro: individuatela, sbarazzatevene e, quando gli Ateniesi verranno, non potranno farvi alcunché. E così accade. Nicia e Lamaco se ne stanno tredici giorni a mollo davanti a Messina aspettando, invano, che qualcuno apra loro le porte della città. Ma neppure i Siracusani se ne stanno con le mani in mano: piombano in forze su Catania mentre gli Ateniesi stanno svernando a Nasso( Naxos), devastano il territorio circostante e poi se ne vanno. Insomma, nonostante la cattiva stagione, le spade non restano nei foderi.
Il conflitto si sta pericolosamente allargando. E non solo sul piano militare. Ogni giorno di più, infatti, esso assume i connotati di uno scontro fra imperialismo e autonomia, fra sopraffazione e desiderio di libertà. Nicia ne è consapevole e forse rimpiange di non essersi opposto, a suo tempo, con la necessaria determinazione a quella follia. Ma adesso non può più tirarsi indietro. Chiede rinforzi ( cavalleria, soprattutto) e soldi, progetta di stringere alleanze in funzione antisiracusana, coltiva l’idea di avviare trattative segrete, fa immagazzinare provviste.
Dal canto suo Ermocrate fa autocritica davanti all’assemblea. Perché siamo stati sconfitti all’Anapo? Per mancanza di valore? No, siamo stati sconfitti perché difettiamo di esperienza e di addestramento, perché comandiamo in troppi e questo genera confusione. Ridisegniamo la struttura del comando, approfittiamo dell’inverno per addestrarci, stringiamo alleanze. Detto, fatto. Gli strateghi siracusani passano da quindici a tre, Sparta e Corinto vengono allertate, i punti di possibili sbarchi difesi da robuste palizzate, il territorio intorno alla città viene fortificato, l’esercito riorganizzato,.

La differenza, però, la fa “il fattore A”. Dove “A” sta per Alcibiade. Davanti agli Spartani riuniti in assemblea anzitutto si giustifica: perché sono qui, perché in passato vi ho combattuto e cose di questo genere. Elabora una definizione tutta sua di “patriota” e di patria, si arrampica spesso sugli specchi. Ma quando parla di politica è lucidissimo.
Esagerando un po’, afferma: “State attenti, siete in grave pericolo. Atene vuole– e io lo so per certo- conquistare l’intera Sicilia, mettere piede in Italia, ridimensionare Cartagine e, infine, stringere d’assedio, per terra e per mare, l’intero Peloponneso. Siracusa va sostenuta: se cade lei, cade l’intera isola. E se cade l’intera isola, il Mediterraneo diventa più che mai un mare ateniese. E se diventa un mare ateniese, voi siete perduti o quasi.
Che fare? Se fossi in voi manderei un contingente in Sicilia, gli darei un comandante esperto e fortificherei il villaggio di Decelea, in Attica. Decelea non è molto lontana da Atene, controlla una via di comunicazione vitale per gli Ateniesi. Mandate laggiù una guarnigione permanente, correte la campagna, bloccate gli accessi alle miniere d’argento del Laurio e li avrete in pugno.”
Sarà andata davvero in questo modo? Tucidide giura di sì. Ma, forse, gli Spartani erano già arrivati da soli a conclusioni analoghe. Ad ogni modo, su consiglio di Alcibiade o per decisione autonoma, i Lacedemoni preparano un contingente da inviare in Sicilia. Lo comanderà il generale Gilippo. Un bastardo emerito. In tutti i sensi[3].
E gli invasori non tarderanno ad accorgersene.

L’assedio

Mentre a Sparta si discute, in Sicilia si mettono a punto piani di battaglia. Nicia il Prudente alla fine rompe gli indugi e decide di assediare Siracusa. L’obiettivo è quello di isolare la città chiudendola in una morsa da terra e dal mare, impedirle di essere rifornita e costringerla a capitolare. Avrebbe dovuto farlo un anno prima: adesso potrebbe essere troppo tardi. Ha ricevuto un po’ di soldi e qualche rinforzo, ma non sta bene di salute. La sua nefrite cronica si è riacutizzata e gli causa non pochi problemi.
Come va a finire? Lo sappiamo tutti. Gli Ateniesi sottovalutano Gilippo e le sue quattro navi, incapaci, secondo loro, di costituire una vera e propria minaccia; non bloccano subito il Porto Grande, permettendo ad alcune imbarcazioni corinzie di attraccarvi; occupano le Epipole( la terrazza rocciosa sovrastante Siracusa), ma ne lasciano colpevolmente sguarnita la porta d’ ingresso( il passo dell’Eurialo); subiscono le incursioni di Gilippo- entrato proprio da lì- e delle sue truppe reclutate in loco; non portano a compimento alla svelta il doppio muro per isolare la città; vengono sloggiati dall’importante posizione di Labdalo, subito utilizzata da Gilippo per allestire un contromuro difensivo; perdono Lamaco in combattimento; ammassano viveri e materiale al Plemmirio, restando senza risorse quando la posizione cade in mano al nemico.
Ricevono rinforzi al comando di un pezzo da novanta, l’invitto generale Demostene, ma non riescono a ribaltare la situazione. Al contrario. Gli errori si susseguono agli errori. Nicia rinvia di un mese la ritirata a causa di un’eclissi interpretata come un presagio negativo dagli indovini( i Siracusani ne approfittano e Plutarco, secoli dopo, accuserà Nicia di superstizione); gli Ateniesi si fanno intrappolare la flotta all’interno del Porto Grande, dove le loro triremi a causa dello spazio ridotto e del sovraffollamento non riescono a manovrare agevolmente né a sfruttare la propria superiore velocità ; da assedianti si trasformano in assediati e, alla fine, affrontati da forze superiori preso il fiume Assinaro, vengono annientati.[4] 
Pochi riescono a fuggire e a riparare a Catania; Nicia e Demostene vengono giustiziati ( secondo Plutarco si tolgono la vita); la maggior parte degli Ateniesi prigionieri muore di fame, di sete e di stenti nelle Latomie; altri vengono ridotti in schiavitù. Qualcuno di loro, col tempo, sarà affrancato per meriti insoliti: insegnerà i versi delle tragedie di Euripide ai propri signori e padroni e riceverà come ricompensa la libertà.
O, almeno, così ce la vende Plutarco.

Epilogo

Nel negozio del barbiere entra uno straniero. I due cominciano a parlare e il nuovo venuto, come se stesse esponendo una cosa a tutti nota, accenna, con dovizia di particolari, al disastro ateniese in Sicilia.
Il barbiere non crede alle proprie orecchie. Si precipita dagli Arconti e li mette al corrente di quanto ha udito. In quei tempi orfani di Facebook e di Twitter, le notizie – quelle vere e quelle false- viaggiavano lentamente, a volte per mesi. Gli Arconti e il popolo ateniese ignorano quanto accaduto in Sicilia. E tuttavia, per loro, le parole di quello straniero sono un concentrato di falsità. E del resto, con gli Spartani accampati a meno di venti chilometri da Atene, aspettarsi qualche tiro mancino è lecito. Tipo diffondere ad arte la notizia di una sconfitta ateniese in Sicilia per distruggere il morale della popolazione. Lo straniero viene arrestato, torturato e rilasciato solo quando altri testimoni, arrivati nel frattempo in città, confermano la sua versione.
Atene subì un contraccolpo tremendo. Numerose città sue alleate le voltarono le spalle; la Ionia rientrò nell’orbita persiana; la sua credibilità crollò. In Sicilia perse vite umane, denaro, navi. Dovette rinunciare per sempre a qualsiasi velleità espansionistica nel Mediterraneo, lasciando campo libero a Cartagine. Avrebbe resistito ancora per nove anni, ma le sue speranze di vittoria erano tramontate per sempre sulle spiagge e sulle alture di quell’ “isola troppo lontana”. Anche se ancora non lo sapeva, Atene era finita e non si sarebbe mai più ripresa. Sarebbero rimasti, questo sì, il suo glorioso passato e , in molti dei suoi abitanti, la saudade per un’epoca straordinaria e irripetibile. Ma a che cosa poteva servirle un passato glorioso? Avrebbe fermato Sparta? Avrebbe fermato, secoli più tardi, le legioni romane? Quando , nell’87 a.c., gli Ateniesi si appellarono al loro glorioso passato per evitare di perdere la città, si sentirono rispondere da Lucio Cornelio Silla che lui non era arrivato fin lì in nome del popolo romano per ascoltare lezioni di storia.
E la Sicilia? Trasse vantaggio da quegli avvenimenti? Lecito dubitarne. Già all’indomani di quell’incredibile vittoria, si riaccesero le dispute e le divisioni fra città e città, i Cartaginesi si fecero aggressivi,   a Siracusa si impose l’ ”uomo forte”.
Ne valeva la pena?

Da leggere:

Giovanni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Il Mulino paperbacks, 2009
Andrea Frediani, Le grandi battaglie dell’antica Grecia, Newton Compton,2014
Victor Davis Hanson, Una guerra diversa da tutte le altre, Garzanti, 2009
Donald Kagan, La guerra del Peloponneso, Mondadori, 2006
J.F.Lazenby, The Peloponnesian War: a military study, Taylor & Francis, 2003
Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Franco Ferrari, Bur, 2009
Plutarco, Vite Parallele, Vita di Alcibiade, Vita di Nicia, UTET, 2010
Sergio Valzania, Sparta e Atene. Il Racconto di una guerra, Sellerio, 2017

Altri articoli sulla guerra del Peloponneso in questo sito:

Lo scudo di Brasida

Guerra del Peloponneso( 431-404 a.c.). Una tempesta porta quaranta triremi ateniesi a Pilo, in territorio nemico. La reazione spartana non è immediata. Gli Ateniesi si fortificano e aspettano.
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Guerra del Peloponneso (431-404 a.c.).A Sfacteria va in scena qualcosa che ha dell’incredibile agli occhi dell’intera Grecia: più di quattrocento opliti spartani, intrappolati sull’isola, anziché combattere fino alla morte, gettano gli scudi, alzano le mani e si arrendono. Leggi l’articolo.

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Due città contese, un atto di valore, le avvisaglie di una guerra devastante.
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” Con parole o con forza di lancia”

424 a.c. “La legge comune della Grecia” tradita a Delio dai vincitori tebani.
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[1] Le erme erano statue raffiguranti il dio Hermes( Mercurio, per i Romani). Il dio era considerato il protettore dei viandanti. Quell’atto profanatorio fu interpretato da molti come un aperto tentativo di boicottare la spedizione in Sicilia ( il viaggio, appunto)

[2] Come numerose città greche della Sicilia, anche Katane-Catania diffida dei nuovi arrivati. E, prudentemente, si dichiara neutrale. Ma gli Ateniesi la vogliono a tutti i costi. Perché non è lontana da Siracusa, perché dispone di un ottimo porto, perché ha tutte le caratteristiche per diventare una base operativa ideale. Per raggiungere il loro scopo, ricorrono all’inganno. Gli strateghi ateniesi chiedono e ottengono di entrare da soli in città e di esporre le loro ragioni davanti all’assemblea. Mentre Alcibiade sta parlando, un contingente di opliti ateniesi, approfittando della scarsa sorveglianza, forza un ingresso e irrompe all’interno della città. I filo-siracusani fuggono e l’assemblea è costretta a decretare l’alleanza con Atene.

[3] Gilippo era figlio di uno Spartiate, Cleandrida, cacciato da Sparta per aver accettato denaro ateniese. La madre era probabilmente un’Ilota, il che faceva di Gilippo un mothax (μόθαξ). Mothax in greco antico significa, più o meno, “ fratellastro”. I mothaches (μόθακες ) erano figli di uno Spartiate e di un’Ilota oppure figli di una famiglia spartiate diventata povera( e quindi incapace di sostenere, senza l’aiuto di un’altra famiglia, le spese dell’addestramento completo o della partecipazione ai sissizi del proprio rampollo ) o anche figli di Iloti o bambini orfani “ adottati” da famiglie nobili e cresciuti insieme ai figli naturali . Non facevano parte della schiera degli Homoioi, degli “Uguali”, vale a dire dell’aristocrazia al potere, anche se qualcuno veniva cooptato per meriti particolari. Formalmente erano considerati uomini liberi e prestavano servizio militare. Stando ad alcune fonti antiche, anche il più celebre Lisandro, il vincitore di Egospotami( 405 a.c.), era un mothax.
Gilippo fu l’artefice della vittoria sugli Ateniesi in Sicilia. Spregiudicato, coraggioso, astuto seppe mettere in pratica tattiche e strategie vincenti. Cercò di risparmiare la vita a Nicia e a Demostene, non tanto per magnanimità e nobiltà d’animo, quanto perché voleva portarli a Sparta per rimarcare il proprio trionfo. Quando gli fu affidata, anni dopo, una consistente somma di denaro, Gilippo, alla faccia del proverbiale disprezzo degli Spartani per le ricchezze, non seppe resistere alla tentazione e se ne impossessò. Scoperto, fu condannato a morte in contumacia. Non ritornò più a Sparta.

[4] Quella che segue è la ricostruzione, per sommi capi, dell’assedio di Siracusa. Nella cartina tratta da Wikipedia sono riportati i principali luoghi dello scontro. Per i particolari si rimanda a Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Libri VI-VII, Bur

L’inizio delle operazioni.

Con un colpo di mano tanto audace quanto fortunato, gli Ateniesi si impadroniscono delle Epipole, la terrazza rocciosa sovrastante Siracusa. Vi costruiscono una posizione fortificata (6, sulla cartina)  e cominciano a erigere un doppio muro per isolare la città dalla costa nordorientale fino al Porto Grande(2). La fornitura d’acqua viene interrotta. A Siracusa si diffondono paura e sconforto.
L’arrivo di Gilippo.
Gilippo, intanto, salpato dalla Laconia con quattro navi, giunge a Taranto. Non ha informazioni recenti, ignora se Siracusa sia già caduta o se resista ancora. Partito da Taranto e approdato in Calabria, apprende che la resistenza continua. Ripreso di nuovo il mare, sbarca a Imera ( oggi Termini Imerese), raccoglie truppe in loco e marcia immediatamente verso l’interno. Dal canto loro, i Siracusani, sfiduciati e demoralizzati, pensano di intavolare trattative di pace con gli Ateniesi. E forse finirebbe in questo modo se una nave corinzia, partita insieme ad altre imbarcazioni dopo la flottiglia di Gilippo, non portasse per bocca del proprio comandante, Gongilo, la notizia dell’arrivo dello stratego spartano.
Il contromuro
I Siracusani riprendono animo, radunano l’esercito e vanno incontro a Gilippo. Questi, con le truppe del luogo, risale le alture fino all’Eurialo(12), lo trova sguarnito, ne approfitta e, riunitosi all’esercito siracusano, marcia contro gli Ateniesi attestati sulle Epipole. Offre loro una soluzione: ritiratevi entro cinque giorni e noi sospenderemo le ostilità. Nicia non gli risponde nemmeno.
Gilippo, allora, passa all’offensiva. Con un’audace azione si impadronisce del Labdalo(7) , privando gli Ateniesi di un’importante base logistica e di una posizione strategica favorevole. Quindi mette parte dei suoi uomini a edificare un contromuro(9) perpendicolare al costruendo muro ateniese, in modo da sbarrargli la via verso la costa settentrionale.
La reazione ateniese
Nicia reagisce impadronendosi del promontorio del Plemmirio(11). Vi vengono eretti tre forti. La flotta, arrivata nel frattempo, si schiera lungo il Plemmirio bloccando di fatto l’ingresso al Porto Grande e bloccando la città anche dal mare. Siracusa è quasi isolata.
Ordina, quindi, di attaccare l’esercito nemico al fine di interrompere la costruzione del contromuro( l’unico ostacolo che si oppone all’isolamento completo della città). In un primo scontro combattuto nello spazio fra i due muri – spazio ristretto, all’interno del quale la cavalleria non può agire con efficacia- gli Ateniesi hanno la meglio. Nel corso di un secondo scontro, Gilippo manda la sua cavalleria ad attaccare l’ala sinistra nemica, costringendola a ritirarsi. Lamaco, uno dei due comandanti ateniesi cade in combattimento .
L’inverno dello scontento
Gilippo chiede aiuti a Sparta, raccoglie rinforzi fra le città siciliane ostili ad Atene. Promuovere la spedizione senza un’adeguata conoscenza della Sicilia, dei suoi orientamenti politici, del suo territorio e senza stringere alleanze preventive è stato un errore fatale. E gli Ateniesi cominciano ad accorgersene. Nicia comunica ad Atene: la situazione è grave. L’ambiente è ostile, arrivano truppe e navi da Sparta e da Corinto. Sarebbe opportuno ritirarsi. Atene per tutta risposta invia in Sicilia una seconda forza di spedizione al comando degli strateghi Eurimedonte e Demostene.
La prima battaglia del Porto Grande.
Nella primavera del 413 a.c., Gilippo, nel tentativo di forzare la situazione prima dell’arrivo dei rinforzi da Atene, progetta un attacco via mare alla flotta ateniese e, via terra, alla posizione fortificata dl Plemmirio. Contemporaneamente.
Le triremi siracusane e alleate sono state modificate per sostenere meglio l’urto avversario. La prora, ad esempio, è stata allargata e rinforzata. Le triremi di Gilippo possono così, cercare di speronare le navi nemiche di fronte, anziché di fianco come si era soliti fare. Il braccio di mare ristretto, inoltre, toglie agli Ateniesi il vantaggio della mobilità, ostacolando loro le consuete manovre di speronamento.
La battaglia dura tre giorni. Il primo giorno nessuna delle due parti riesce ad avere la meglio sull’altra. Il secondo giorno non si combatte. Il terzo giorno è quello decisivo. Su indicazione di un comandante corinzio, il mercato viene spostato dall’interno della città direttamente sulla spiaggia. I marinai e i combattenti siracusani, dopo un primo attacco respinto, hanno così il tempo di prendere il rancio e di imbarcarsi subito dopo averlo consumato e di condurre vittoriosamente un secondo attacco nello stesso giorno. Colti di sorpresa, stanchi e affamati, gli Ateniesi si vedono affondare sette navi (contro due dei Siracusani). Altre triremi sono catturate o danneggiate seriamente. Ma , alla fine, le navi siracusane si ritirano.
Riesce invece l’attacco via terra al Plemmirio. I difensori dei forti, distratti dalla battaglia navale, non si accorgono dell’arrivo dei nemici e, colti di sorpresa, vengono sopraffatti. È un brutto colpo per gli Ateniesi. Al Plemmirio, infatti, erano state stivate quasi tutte le provviste e le attrezzature per le navi ( alberature, sartiame, remi). Inoltre la loro flotta non può più contare sugli approdi del Plemmirio ed è come confinata e quasi bloccata all’interno del Porto Grande. Per procurarsi i rifornimenti, le navi devono aprirsi la strada combattendo.
L’attacco notturno.
Demostene sta navigando verso la Sicilia. Dispone di una forza imponente: sessantacinque navi, cinquemila opliti, numerose unità di frombolieri e di soldati armati di giavellotto. Sale il morale degli Ateniesi, precipita quello dei Siracusani. Una volta arrivato, Demostene capisce che la permanenza degli Ateniesi in Sicilia è legata a una rapida vittoria. Cerca di ottenerla con un attacco notturno sulle Epipole. All’inizio ha successo. Il contromuro viene raggiunto e parzialmente demolito. L’immediato contrattacco siracusano getta però lo scompiglio fra gli attaccanti. In mezzo a una confusione indescrivibile, gli Ateniesi si ritirano benché siano molto più numerosi degli avversari. Il morale ne risente.
L’eclissi.
Dopo l’attacco fallito, Demostene valuta la situazione. La forza di spedizione originaria è ridotta malissimo. I soldati sono deboli, molti sono ammalati, il morale è basso. Il suo consiglio è quello di togliersi di lì alla svelta. Nicia è restio a farlo. Non vuole passare per sconfitto. Risponde: sono in contatto con alcuni notabili di Siracusa per negoziare la pace. Demostene non è convinto e ribadisce: lasciamo Siracusa e spostiamoci altrove, se proprio vogliamo continuare la guerra in Sicilia. Alla fine Nicia cede. Ma, alla vigilia della partenza, si verifica un’eclissi di luna. Consultati in proposito, gli indovini consigliano di lasciare passare “tre volte nove giorni” prima di togliere il campo per annullare gli effetti negativi del prodigio. Nicia ne segue il consiglio e sospende la ritirata, facendo, in questo modo il gioco di Gilippo.
La seconda battaglia del Porto Grande.
Gilippo approfittando dell’indugio di Nicia ha tutto il tempo per preparare un nuovo attacco combinato, per terra e per mare, allo scopo di chiudere agli Ateniesi ogni via di fuga. Il primo giorno attacca il muro ateniese, impegnando i difensori in scontri ravvicinati. Poi, il giorno successivo, dà il via all’attacco navale. Gli Ateniesi hanno una decina di triremi in più rispetto ai siracusani( 86 contro 76). All’inizio riescono a sfruttare la loro superiorità numerica e iniziano una manovra di aggiramento dell’ala sinistra nemica. Eurimedonte, il comandante, però, sbaglia manovra e non riesce ad acquistare la velocità necessaria per speronare le navi nemiche sul fianco. Vincitori al centro, i Siracusani non inseguono il nemico sconfitto, ma si dirigono contro le navi di Eurimedonte, rimasto nel frattempo isolato. Le triremi ateniesi non hanno scampo e lo stesso Eurimedonte cade in combattimento. A questo punto, i Siracusani bloccano l’entrata del porto con una fila di imbarcazioni poste le une accanto alle altre, isolando gli Ateniesi all’interno del Porto Grande.
La fuga
Gli Ateniesi tentano di forzare il blocco navale, cercando di abbordare le navi nemiche e trasformando lo scontro in una battaglia di opliti. Il loro primo – e unico- tentativo fallisce. A nulla valgono le esortazioni di Nicia e Demostene perché si faccia un secondo tentativo. I marinai, stanchi e provati, si rifiutano di salire a bordo delle navi. A questo punto, non resta altro che tentare di fuggire via terra. Bisognerebbe partire immediatamente. E, invece, gli Ateniesi indugiano. Motivo? Permettere ai soldati di preparare gli zaini. I Siracusani ne approfittano immediatamente e bloccano i passi montani e i guadi dei fiumi.
Quella ateniese è ancora una forza consistente e temibile: 40.000 uomini. Ma sono uomini in gran parte malati, affamati, demoralizzati . Quando cercano di aprirsi la strada lungo un passo chiave sulla via della loro salvezza vengono respinti.
Ultimo atto
A questo punto Nicia e Demostene cambiano direzione e cercano di raggiungere non più Catania, ma Kamarina o Gela. Durante la marcia notturna, parte dell’esercito- quella al comando di Demostene – perde il contatto con Nicia, si disunisce e il giorno dopo viene intercettata dal nemico. Demostene cerca invano di provocare una battaglia campale. Dopo essere stati sottoposti per un giorno intero al lancio di giavellotti, frecce e proiettili di fionda, Demostene e i suoi uomini si arrendono a condizione.
Adesso tocca a Nicia. Intercettato dal nemico e venuto a conoscenza della sconfitta di Demostene, Nicia si offre di pagare le intere spese sostenute dai Siracusani durante la guerra se questi lasceranno tornare ad Atene lui e i suoi uomini. L’offerta viene respinta. Tormentati dalla sete, i soldati di Nicia arrivano sulle rive del fiume Assinaro( nei pressi dell’odierna Noto) . E qui va in scena l’ultimo atto: i resti di un’armata imponente vengono decimati dalla fanteria e dalla cavalleria di Gilippo. È il settembre del 413. Nel marzo precedente, il re spartano Agide II aveva occupato e fortificato Decelea.
La guerra del Peloponneso è entrata nella sua fase decisiva.

L’immagine sotto il titolo è tratta dal sito “Istituzione Biblioteche Bologna”, consultabile qui:

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