La resa dei conti

Da: Amantidellastoria.wordpress.com

Da: Amantidellastoria.wordpress.com

Prologo.

Questa volta gli occhi non lacrimavano, la luce non  dava fastidio, ci vedeva bene. Aveva un conto da regolare,  mentre lì, al proprio posto nella falange, aspettava l’ordine di attacco. Un conto da regolare prima di tutto  con se stesso. E, poi,  con Leonida,  il suo re caduto sul campo.  Andò con il pensiero alle Termopili, rivide l’amico  Eurito , quasi cieco, incamminarsi verso la  morte, ripensò a quei  tre giorni di combattimenti continui, al sangue e alle grida di feriti e moribondi. E al disprezzo  con il quale era stato accolto, al ritorno,  nella sua città, Sparta. Ma il  Fato gli offriva ancora un’occasione: quella. La sua ultima occasione.  Aristodemo impugnò con forza  la lancia.
Sì ,  era  di nuovo  alle Termopili.

Verso Platea

La reputazione di Serse era andata a fondo  con le sue navi  a Salamina , ma il carattere non era cambiato. Mentre era ancora la Fàlero con i resti della flotta,  ricevette ambasciatori spartani: esigevano un risarcimento per l’assassinio di Leonida e per la profanazione del suo cadavere. Serse li ascoltò come se fossero marziani. Quando  gli ambasciatori finirono di parlare, indicò, non senza ironia,  Mardonio e disse loro: “ Chiedetelo a lui, il risarcimento”. Mardonio, come sappiamo, sarebbe rimasto in Grecia alla testa , secondo Erodoto, di trecentomila uomini.
Per ottenere la vittoria, si  era dato tre priorità: attaccare, attaccare, attaccare.
Non tutti , però, la vedevano così. I Tebani, ad esempio erano per l’attesa. E per fare circolare bustarelle. Compra qualcuno- ripetevano a Mardonio- e avrai partita vinta. I Greci si sfalderanno, l’alleanza non reggerà, gli antichi dissapori riaffioreranno. Lavorali ai fianchi, riempili di soldi  e torneranno tutti alle loro case, ai loro campi, ai loro affari; attaccali e fornirai loro un pretesto per restare uniti.
Parole sagge. E molto vicine al vero. Ma c’era gloria nell’attesa? C’era gloria nel vincere con gli “sproni e col gesso”?  E allora,  via verso l’Attica con l’imprendibile cavalleria. E poiché le vittorie sono tali solo quando sono accompagnate da un’eco mediatica( anche nell’Antichità, che cosa credete),  ecco pronto un imponente apparato: fuochi di segnalazione, stazioni di posta, cambio di cavalli. Perché Serse sapesse, perché tutti sapessero.
Sulle prime, tuttavia, Mardonio dà retta ai Tebani. Manda il re di Macedonia Alessandro figlio di Aminta( non è Alessandro Magno, è un altro) dagli Ateniesi con una proposta allettante: abbandonate la Lega e avrete il perdono di Serse, l’intera Attica e molto altro ancora, a vostra discrezione. Quando lo vengono a sapere, gli Spartani drizzano le antenne: gli Ateniesi hanno perso due raccolti, sono alla fame: vuoi vedere che accettano e ci piantano in asso? Urge intervenire. Si precipitano a Salamina ( gli Ateniesi si erano di nuovo rifugiati sull’isola) e promettono mari  e monti: opliti, viveri, asilo per le donne  e i bambini.
Se Mardonio nutre qualche speranza di concludere l’affare, resta presto deluso. Di fronte ad Alessandro e agli Spartani, convocati contemporaneamente, gli ateniesi parlano chiaro. Al primo rispondono: niente da fare, noi siamo Greci, ci sentiamo parte di un mondo e di una cultura comuni, non possiamo tradire. E, soprattutto, non possiamo far passare sotto silenzio il sacrilegio dei nostri templi violati. Ai secondi dicono: lasciate perdere le nostre donne  e i nostri bambini, sanno cavarsela da soli. Mandateci soldati, piuttosto: quelli ci servono. E ci servono come  e forse più del pane.
Gli Spartani tirano un grosso sospiro di sollievo, abbondano in promesse e se ne tornano in Laconia. Dal canto suo, Mardonio non aspetta un minuto di più e lancia i suoi contro Atene. Per la seconda volta la città deserta viene data alle fiamme. Completata l’opera, Mardonio se ne torna in Beozia dove, accampato presso il fiume Asopo, l’aspetta il grosso dell’esercito.

Mentre Atene brucia, a Sparta non si muove foglia. Gli Ateniesi si allarmano: questi si sentono protetti dal muro eretto lungo l’Istmo, si sentono garantiti dalla nostra fedeltà e non ci hanno neanche in nota. Del resto non è la prima volta. A Maratona non si fecero vedere perché impegnati- dissero- in cerimonie sacre: se sperano di ripetere di nuovo il giochetto, si sbagliano di grosso. Inviano un’ambasceria a Sparta e minacciano  di accettare le proposte dei Persiani.  Gli Spartani, capita l’antifona, mettono in marcia cinquemila opliti, ciascuno con sette iloti al seguito. E il mattino dopo, altri cinquemila- perieci questa volta- li seguono, in compagnia degli ambasciatori ateniesi.
Dunque, si sarebbe combattuto. E si sarebbe combattuto in Beozia: niente muri, sentimenti filo-persiani dappertutto, terreno adatto alla cavalleria . Per Mardonio  sarebbe stato un po’  come giocare in casa.

Menagramo e indovini.

Mentre l’esercito alleato si riunisce a Eleusi sotto il comando dello spartano Pausania, reggente pro tempore in attesa della maggiore età del figlio di Leonida, Plistarco, in Beozia Persiani e compagnia se la prendono comoda. Si esercitano con le armi, d’accordo, ma banchettano con pari energia, ostentando ottimismo, sicurezza e robusti appetiti.
Ma può mancare il menagramo di turno? Una sera a tavola, mentre tutt’intorno risuonano risa e sghignazzi, un persiano confida, fra le lacrime, al proprio ospite tebano: un dio mi ha visitato in sogno e mi ha fatto rivelazioni da brivido. Per fartela breve: vedi tutta questa gente? Fra poco non ci sarà più nessuno, moriranno tutti in battaglia. Avvisare Mardonio? E perché mai: è tempo perso. Possiamo noi andare contro la volontà degli dei?
Ignari della volontà divina, ma consapevoli della forza della cavalleria persiana, Pausania e soci arrivano nelle vicinanze dell’Asopo, si appoggiano ai contrafforti del monte Citerone e occupano una posizione leggermente elevata: se i cavalieri di Mardonio si fossero fatti sotto, avrebbero perso slancio per via della salita e, soprattutto,  rischiato l’osso del collo e i garretti dei cavalli a causa delle rocce affilatissime sparse ovunque.
Eppure Mardonio attacca. E con la cavalleria, per giunta. Perché lo fa? Per saggiare le forze del nemico? Per sloggiarlo da dove si trova? Per provocarlo e attirarlo in una trappola? Per chiudere la partita alla svelta? Perché così gli dei hanno deciso? Difficile saperlo. Di certo c’è questo: uno dei suoi migliori ufficiali, Masistio, cade sul campo, l’attacco viene respinto e gli Ateniesi si guadagnano la fama di leoni indomabili. Vanno volontariamente in aiuto dei Megaresi sotto pressione quando nessun altro vuole farlo; oppongono le proprie lance ai cavalieri persiani e li ricacciano al punto di partenza. Erodoto va in brodo di giuggiole quando ce lo racconta.
Farebbe meglio , però, a curare la cronaca cercando la chiarezza, perché, da questo punto in poi, non ci si capisce niente. O quasi. Dunque, respinto l’attacco di Masistio, Pausania abbandona la posizione occupata in precedenza e scende nella pianura. In cerca d’acqua? Probabile, visto che si accampa presso una sorgente detta Gargafia. Per portare i propri opliti su un terreno favorevole al dispiegamento della falange? Possibile. Ma allora perché, giunto in pianura, se ne sta con le mani in mano e completamente fermo per una decina di giorni? Perché non forza la situazione? Lo fa perché non è ancora pronto o perché gli indovini gli sfornano un responso negativo dietro l’altro? Perché  gli ripetono un giorno sì e l’altro pure che la vittoria toccherà a chi saprà mantenersi sulla difensiva?  Anche dall’altra parte si fa un ampio uso di indovini e anche dall’altra parte le conclusioni sono le medesime: non è il momento di attaccare, mantenersi sulla difensiva. Insomma, un raro caso di indovini bipartisan. Risultato: per giorni e giorni, fra un vaticinio e l’altro, non si muove una paglia.
Mardonio non ne può più. Chiama Artabazo- un tipo con la testa sulle spalle- e gli chiede consiglio. Che faccio? Attacco? Aspetto? Artabazo ci va giù spiano: “ Aspetta e compra qualcuno” . Toh, questa l’ho già sentita, pensa Mardonio, ma  come non l’ho seguita una volta, non la seguirò adesso. Indovini o non indovini, difensiva o non difensiva, adesso è ora di fare sul serio.
Alessandro di Macedonia lo viene a sapere e, nottetempo, si reca nel campo alleato. Parla con l’ateniese Aristide e gli dice più o meno questo: “ Mardonio attaccherà domani. Ricordatevi di chi vi ha passato l’informazione.” E se ne va. Come si può vedere, gli odierni  “responsabili” vantano illustri antenati.

A Platea.

Avuta l’informazione dal regale “ responsabile”, Pausania ha tutto il tempo per prepararsi. Mette all’ala destra i suoi, all’ala sinistra gli Ateniesi e al centro gli altri. E, a questo punto, nel racconto di Erodoto,  la luce diventa ancora più fioca.
I Greci, infatti, manovrano e contromanovrano, i contingenti si spostano da un’ala all’altra apparentemente senza senso alcuno. Prima gli Ateniesi si spostano all’ala destra, dritti in faccia ai Persiani; gli Spartani vanno all’ala sinistra, di fronte ai Tebani e agli altri Greci felloni; poi ritornano di nuovo sulle posizioni originarie e lo stesso fanno gli Ateniesi. C’è un senso in tutto questo manovrare? Gli storici militari lo trovano nella necessità di Pausania di ricompattare un esercito sfilacciato; Erodoto va giù più spiano e avanza – sacrilegio!- il sospetto che gli Spartani abbiano un po’ di tremarella. Non ci credete? Sentite qui: Pausania agli strateghi ateniesi: “ Voi conoscete i Persiani: vedetevela voi con loro.” E gli Ateniesi di rimando: “ Volevamo chiederlo, ma non osavamo. Adesso ce lo chiedete voi e ubbidiamo volentieri”.
Traduzione: “ Noi non siamo fifoni”.
Sia come sia, si manovra ma non si combatte. Sembra di essere su una piazza d’armi. Mardonio, allora, gioca la carta della provocazione. Manda nel campo greco un paio di araldi senza peli sulla lingua a avanzare sospetti sul coraggio degli invincibili Spartani e a proporre una sfida a singolar tenzone: Spartani contro Persiani e chi vince si prende tutto. I delegati spartani non capiscono se quei  tizi stiano parlando sul serio, se abbiano bevuto o se siano vittime di un colpo di sole. Si guardano l’un l’altro e  non rispondono. Vedendoli muti, gli araldi persiani se ne vanno. Con una convinzione: questi hanno una fifa maledetta.
Mardonio la vede più o meno allo stesso modo. E ci dà dentro. Muove di nuovo la cavalleria, tempesta di giavellotti e di frecce la falange greca, avvelena i pozzi, blocca il passo di Driocefale, la “via sacra” dalla quale transitano viveri e rinforzi. Brutto affare per Pausania: niente acqua, pochi viveri, una pioggia di proiettili. Meglio cambiare aria.

Ci avete capito poco? Aspettate di sentire il resto. A questo punto, secondo Erodoto, Pausania divide l’esercito in due tronconi: il primo lo indirizza verso una non meglio identificata “ isola” fra due torrenti( o fra due rami di uno stesso torrente); l’altro, meno numeroso, lo spedisce verso Driocefale: obiettivo: liberare il passo per dare via libera ai rifornimenti. Succede però questo: forti contingenti del primo troncone  non arrivano affatto all’ “isola” ( ammesso che sia mai esistita) e finiscono col prendere posizione- va a capire perché-  davanti al tempio di Era a Platea.
E non è finita. Quando arriva il loro turno di muoversi, infatti,  gli Spartani si mettono a litigare di brutto. Un loro ufficiale- un certo Amonfàreto- spartiate tutto d’un pezzo, non ne vuole sapere di abbandonare le posizioni. Per lui quella manovra  puzza troppo di ritirata. Non sia mai!
Armato della pazienza di un santo,  Pausania cerca di persuadere quella testa dura, ma invano. Alle prime luci dell’alba, i due discutono ancora. Gli Ateniesi, forzatamente fermi, chiedono lumi: che facciamo? Aspettiamo fino alle calende o ci muoviamo?  Pausania allora molla Amonfàreto al proprio destino, ordina agli Ateniesi di seguirlo verso Platea e si mette in cammino. Senza tirarsi il collo, per altro. E proteggendosi con i contrafforti del Citerone. Gli Ateniesi, invece, la protezione se la sognano: marciano in aperta pianura esposti a tutti i venti e a tutti gli attacchi. Il duro e puro Amonfareto per un po’ cincischia, poi si adegua: tutto sommato quella non è una ritirata, deve essersi detto, ma un  cammino verso posizioni migliori. E si affretta a  raggiungere Pausania.
Mardonio viene informato e conclude: quelli se ne vanno perché non sono ” coesi” e hanno paura. E così ci dà dentro di nuovo a tutta manetta. E con lui i suoi alleati. Mentre l’esercito persiano punta sugli Spartani, Tebani e soci danno addosso agli Ateniesi. Pausania è sui carboni ardenti: il nemico avanza, urge fare qualcosa. Ma quei maledetti indovini sono sempre lì a menare gramo e a cavare un responso negativo dietro l’altro. Pausania forza allora la situazione: si rivolge direttamente a Era- onorata da un tempio in quella zona- e ottiene il miracolo: si può, anzi si deve, attaccare.
A questo punto, stando a Erodoto, quarantamila opliti formano la falange e i Persiani  finiscono nel tritacarne. Tengono duro per un po’, poi quando Mardonio cade colpito da una pietra , si sbandano, ognuno per sé e dio per  tutti. Quella vecchia volpe di Artabazo, vista la mala parata, si guarda bene dall’impegnare i suoi quarantamila uomini in combattimento e se la svigna, destinazione Bisanzio. Dal canto loro, i Tebani si battono come leoni, ma nulla possono: devono cedere il campo agli Ateniesi e, dieci giorni dopo , aprire le porte  della città  ai vincitori.
Quanti erano i soldati di Mardonio? Trecentomila. E quanti sopravvivono al massacro? Tremila. Più i quarantamila di Artabazo. In tutto quarantatremila. Serse avrebbe ricevuto pessime notizie a Sardi e Erodoto un mucchio di informazioni da esagerare  e da scombinare a proprio piacimento.
Dopo la carneficina, viene il momento di tirare il fiato. Rimasto padrone del campo, Pausania si fa preparare un pranzo in puro stile persiano, pieno di leccornie, di condimenti, di piatti elaborati. Poi si fa preparare un “ brodo nero”, la ributtante sbobba a base di sangue di maiale tanto apprezzata dagli Spartani . Alla fine commenta: “ Valli a capire i barbari: hanno un tenore di vita straordinario e vengono fin qui per cercare di portarci via il nostro, tanto inferiore al loro.”
Già, valli a capire.

Epilogo.

Arrivò l’urto con il nemico.  La falange spartana  premette  e le prime linee persiane  si scompaginarono. Allora lui, Aristodemo, l’unico ancora in vita degli eroi delle Termopili, uscì dallo schieramento  e andò in cerca dei nemici. Abbatté  chi gli si fece incontro, uno due, dieci e poi fu circondato. Fuori dalla falange, un oplita era perduto. Aristodemo lo sapeva, ma continuava a combattere.  Finché anch’egli non cadde trafitto.  Aveva raggiunto Eurito, aveva raggiunto Leonida, aveva raggiunto Dienece e tutti gli altri.
Aveva pagato il suo debito.

 Appendice

Per terra e per mare.

Le battaglie decisive, in verità,  furono due : quella di Platea e quella di Micale. Quest’ultima  passa per una battaglia navale, ma , in pratica, fu  una battaglia di terra. I  Persiani, infatti, volendo evitare lo scontro in mare aperto, dove si sentivano inferiori ai Greci, portarono la  flotta sotto la protezione della guarnigione di Micale, traendo le navi in secca e erigendovi  tutt’intorno un muro difensivo. Il presidio persiano  era un vero e proprio esercito: sessantamila uomini, al comando  del satrapo Tigrane. Tuttavia , esso   non seppe evitare la manovra a tenaglia organizzata dal re spartano Leutichida, si sbandò sotto la pressione degli opliti e dovette cedere. Alla fine della battaglia, combattuta, secondo Erodoto, nel pomeriggio dello stesso giorno di Platea,  secondo altri storici almeno quindici giorni dopo, le navi in secca furono incendiate lì dove si trovavano e Serse rimase privo anche di ciò che restava della flotta.

I luoghi e le fasi della battaglia.

Mettere in chiaro lo svolgimento degli  avvenimenti narrati da Erodoto non è del tutto facile. La maggior parte di  chi ci ha provato concorda comunque sul fatto che  le mosse dei Greci furono  calcolate. In altre parole, stando a questa interpretazione,  lo spostamento degli opliti davanti al tempio di Era a Platea, non fu casuale né dovuto al desiderio  dei soldati di mettersi in salvo e di evitare le mortali frecce dei cavalieri e dei soldati  persiani: fu un movimento voluto.  Allo stessa stregua, la manovra  delle truppe spartane e tegeati non fu dovuta all’alterco con  Amonfareto , ma al  disegno preciso di  attirare i nemici in una trappola, su un terreno favorevole agli opliti. E così via.

Per saperne di più, leggete questo libro

Andrea Frediani, Le grandi battaglie dell’Antichità, Newton Compton, 2005

e consultate il sito web  Arsbellica, dal quale sono state tratte le due cartine riportate nell’articolo.

Coraggio e ambiguità.

A Maratona( 490 a.c.) gli Spartani, come è noto, arrivarono a cose fatte . Apposta, si insinuò. Si difesero , affermando di non essere potuti arrivare prima perché impegnati nelle feste Carnee,  sacre per loro. Ma il sospetto rimase.
E anche a Platea, gli Spartani , fino al combattimento finale, non fanno, nelle pagine di Erodoto,  una bella figura. Qualche esempio?  Pausania  cambia lo schieramento di partenza, per non  avere di fronte i Persiani;  Pausania  accampa ragioni  poco credibili  per giustificare il proprio comportamento( “Voi Ateniesi  sapete come combattono  i Persiani, noi no”); gli  Spartani rimangono muti dopo la proposta dell’araldo persiano( che abbiano paura?); gli Spartani si mettono  a litigare proprio nel momento più delicato; gli Spartani  si spostano protetti dalle alture del monte  Citerone, gli Ateniesi, al contrario,  devono muoversi in campo aperto e per la via più lunga; a Micale viene loro risparmiato, a differenza degli ateniesi, il combattimento durante la marcia di avvicinamento al nemico. E così via.
Prendiamo gli Ateniesi: tutto il contrario. Sono leali ( stanno dove li mettono e non fiatano); sono  consapevoli della posta in gioco ( la libertà della Grecia, ad ogni costo); sono coraggiosi( si offrono di affrontare Masistio quando nessuno vuole  farlo); sono  orgogliosi e determinati.
A dire il vero, quando passa in rassegna il comportamento dei Greci sul campo di Platea, Erodoto riconosce il valore dimostrato  in combattimento dagli Spartani. E ci sarebbe mancato altro! Tuttavia, le insinuazioni sistemate qua e là nel racconto, le mezze parole,  fanno pensare a un atteggiamento antispartano, se non proprio in Erodoto, sicuramente nei suoi ascoltatori. E il nostro non può certo ignorarli.

Dopo i Persiani , Tebe.

Dopo la vittoria, si fecero i conti  con Tebe, città filo-persiana.  Dieci giorni dopo Platea , gli opliti della lega erano davanti alle mura della città. Volevano la consegna degli uomini più in vista fra i sostenitori dei Persiani. “Facciamo così: i vincitori vogliono il nostro denaro: diamoglielo, di comune accordo, visto che di comune accordo abbiamo deciso di parteggiare per  Serse. Se non sono i soldi che vogliono, ma noi, ebbene noi ci consegneremo,  pronti a sostenere di fronte  a loro un pubblico dibattimento”. Queste furono le parole dei diretti interessati. Non tutti  alle parole, però,  fecero seguire i fatti. Uno dei più in vista, infatti, se la diede a gambe levate , abbandonando i propri figli.”Vèndicati su di loro” fu il consiglio dato a Pausania. “ E che colpa hanno mai questi ragazzi?”, rispose il reggente  e li mandò liberi. Non fece altrettanto con i notabili tebani, una volta avutili nelle sue mani   : li mise tutti a morte. I tempi , c’è poco da fare, erano quelli.

Un male antico  .

Leutchida re di Sparta , il trionfatore di Micale, fu  coinvolto  in una brutta storia di bustarelle. Mentre era  in missione in Tessaglia, probabilmente nel 476, si lasciò corrompere e intascò una forte somma. Fu colto in flagrante nel suo accampamento, seduto  su una borsa piena di danaro o con i soldi nella manica della veste ( keirìs) . Citato in giudizio, fuggì da Sparta e morì a Tegea, dove aveva trovato rifugio. La sua casa, a Sparta,venne abbattuta.

L’altare e la polvere.

Pausania conobbe, dopo Platea, un momento di vasta popolarità.  Durò poco. Forse per il proprio comportamento altezzoso e autoritario, forse per intrighi politici ,  forse per le rimostranze  degli Ateniesi, cadde presto in disgrazia. Privato del comando nelle fasi finali  della guerra persiana immediatamente  dopo Platea ( nel 478 aveva liberato le città ioniche in Asia Minore dal dominio persiano), lasciò Sparta e si impadronì di Bisanzio. Qui giocò  molto abilmente la carta di alcuni ostaggi appartenenti alla famiglia reale caduti nelle sue mani,  per avvicinarsi a Serse. Riconsegnò incolumi  gli ostaggi , accompagnandoli con una lettera nella quale si metteva a disposizione del re per aiutarlo a battere i Greci, Sparta compresa. Serse apprezzò molto l’offerta  di Pausania, lo riempì di lodi  e gli promise in sposa la propria figlia. Ricevuta la risposta del re ,  Pausania si montò la testa. Si vestiva alla persiana, si faceva accompagnare da lancieri persiani o egizi, mangiava cibi persiani , si comportava come un dignitario orientale , inavvicinabile e  inaccessibile ai più.
Sparta provò, inutilmente,  a richiamarlo in patria. Quando  gli Ateniesi lo sloggiarono con la forza  da Bisanzio,  Pausania si trasferì nella Troade e continuò a flirtare con i Persiani. Era troppo. Un araldo lo raggiunse un seconda volta con un messaggio degli Efori. Pausania, inspiegabilmente,  tornò. Era sicuro di potersela cavare. Dopo tutto era ancora il reggente di Sparta  in attesa della maggiore età di Plistarco, figlio di Leonida; dopo tutto non esistevano prove sicure e concrete delle accuse che  gli venivano mosse; dopo tutto era pur sempre il vincitore di Platea.  Tornato a Sparta, continuò a inviare  lettere a Serse.
Visto il calibro del personaggio, gli Efori  ci andarono con i piedi di piombo. Indagarono sul  suo passato , si occuparono del presente e delle voci che lo davano a capo di complotti di iloti e in combutta con i Persiani, ma volevano la prova decisiva:   la confessione dello stesso Pausania.  La ottennero con uno stratagemma. Il messaggero incaricato di portare  un’ennesima lettera  di Pausania a Serse, la consegnò  agli Efori. Poiché  nessuno dei messi precedenti  aveva fatto ritorno, Argilio ( così si chiamava il messaggero designato , fra l’altro amico intimo e fedelissimo di Pausania) si insospettì,   aprì la lettera e trovò la conferma dei propri sospetti: Pausania invitava i destinatari della lettera a uccidere il latore. Insomma, Argilio era stato condannato  a morte .
Allora , su consiglio degli Efori, Argilio  si recò supplice sul  Tènaro, si costruì una capanna  e, all’interno, eresse un muro divisorio,  ricavandone due ambienti. Pausania andò da lui  e volle sapere il motivo di quella supplica . Per tutta risposta, Argilio lo assalì a  male parole, rinfacciandogli  la sua malafede: che uomo era se ricompensava i fedeli servitori , gli amici addirittura, con la morte?  Pausania cercò di calmarlo, riconobbe i propri torti, gli assicurò l’incolumità e lo pregò di mettersi quanto prima in viaggio verso la corte del Gran Re. E,  intanto, nella stanza attigua, gli Efori ascoltavano.
Questa fu la prova decisiva. Ma il giorno stabilito per il suo arresto, Pausania, forse intuendo quello che stava per succedere, forse avvisato dal gesto di uno degli Efori, si rifugiò nel tempio di Atena  Calcieca ( “vestita di bronzo”), sfuggendo alla cattura. Quel tempio era un luogo sacro e al suo interno,  come all’interno di  tutti i luoghi sacri, non si poteva spargere sangue.  Gli Efori, allora, ordinarono di scoperchiare il tempio e di murarne gli ingressi. Il vincitore di Platea morì di  fame e di  sete.  L’oracolo di Delfi, interpellato, considerò la morte di Pausania un sacrilegio e intimò agli Efori di dedicare alla dea vestita di bronzo due corpi anziché uno. Vennero erette, così,  vicino al tempio, due statue di bronzo.

Da leggere:
Erodoto, Storie, Libro IX,  Bur, 1997-2009
Frediani, Andrea, Le grandi battaglie dell’Antichità, Newton Compton, 2005
Hanson, Victor Davis, L’arte occidentale della guerra: descrizione di una battaglia nella Grecia classica, Mondadori, 1990
Holland, Tom, Fuoco persiano: il primo grande scontro fra Oriente e Occidente, Il Saggiatore, 2003.

In questo sito:

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