I giorni della terra e dell’acqua

Prologo.

1960,  Giochi Olimpici di Roma. Un  soldato etiope scalzo  e imprendibile  vola, leggero come una farfalla,  lungo   i quarantadue chilometri e rotti della maratona. Si chiama Abebe Bikila .
Duemila e cinquecento anni prima- anno più, anno meno-   un altro soldato   di nome Filippide, come abbiamo imparato a scuola( o  Fidippide  o Eucle, come  dicono altri), scalzo come Abebe, aveva corso, tutto d’un fiato, la distanza   fra Maratona e Atene per annunciare ai suoi concittadini qualcosa che aveva dell’incredibile: a Maratona  un pugno di opliti greci , scalzi come lui, le aveva suonate- e suonate di brutto-  allo strapotente esercito persiano.  Com’era potuto accadere?

Fidippide annuncia la vittoria. Dipinto di Luc Olivier Merson, 1869

Città di Mileto, Ionia , 494 a.c. , autunno.

La città di Mileto aveva guidato la ribellione:  adesso era ora di finirla. Il giochetto era durato anche troppo. Indipendenza e “isonomia”- l’uguaglianza dei diritti- erano parole  vietate nell’immenso impero di Dario, il Re dei re. Le navi da guerra persiane, appoggiate dall’esercito di terra,  attendevano nelle acque prospicienti la città, attorno all’isola di Lade,  pronte  a scattare. Anche i Greci della Ionia  aspettavano, decisi a battersi sul mare.
Decisi a battersi? I Milesi, forse; forse pochi altri. Molti, però, pensavano di tagliare la corda e di mettersi in salvo. Non per viltà sia chiaro. Coraggio ce n’era in abbondanza a bordo delle navi greche, ma “il male greco”  era  duro da estirpare .  Chi me lo fa fare di rischiare la vita per  gli interessi dei milesi? Pensavano gli abitanti di Samo. E molti, lì, nella flotta, pensavano le stessa cosa: perché devo rovinarmi per difendere  gli interessi degli altri?.  Era, questo,  il peccato originale dei Greci, la loro principale  debolezza. Nei momenti cruciali, affiorava sempre.
Quando fu il momento, molti se la  squagliarono e  non ci fu partita. Le navi persiane, più numerose, ebbero la meglio e la flotta greca dovette cedere.  Poi fu la volta della città: i suoi abitanti, dopo un breve assedio,  furono fatti prigionieri e deportati in Persia. Fine della storia.
Fine della storia?

 Ritratto di una superpotenza.

La Persia era la superpotenza di quei tempi. Ricchissima,  con un esercito e una marina  da far paura a chiunque, si estendeva su un territorio  sterminato . I suoi re avevano più di una capitale, tanto era vasto il loro dominio. Governavano da autocrati: tutto il potere  e tutte le decisioni erano nelle loro mani.
In quegli anni  avevano soltanto due problemi: gli inafferrabili Sciti a nord dell’Istro – il Danubio- difficili da domare e alcune piccole città  sulla costa della  provincia  ionica del loro immenso impero. Città  greche queste ultime,  fondate, in origine, da povera gente costretta a lasciare, per necessità, la madrepatria .Queste città, col tempo, erano cresciute, avevano acquistato ricchezza e importanza, pagavano il tributo al satrapo di Sardi , ma non avevano dimenticato le montagne e le coste del loro Paese di provenienza, la religione , la lingua, le tradizioni. E, soprattutto, invidiavano  l’aria di  libertà respirata  a pieni  polmoni dai loro connazionali  in patria . Finirono così – anche se governate da tiranni o forse proprio per questo-    per agitarsi, reclamando maggiore  autonomia e  maggiore indipendenza. Reclamando uguaglianza di diritti , reclamando “ isonomia”.
La più importante di tutte, Mileto, diede il via alla ribellione, seguita presto da molte altre città. Due greci, un po’ avventurieri e un po’ demagoghi,  Aristagora e  Istieo, forse con l’appoggio di una parte della nobiltà persiana ostile al re di allora, Dario,  chiesero aiuto  ad  Atene e  a Sparta, le due città più potenti della madrepatria  e cavalcarono la protesta delle poleis  della Ionia.
Arrivò poco aiuto:  Atene ed Eretria insieme  inviarono 25 navi, Sparta fece finta di niente e, così,  tutto andò a rotoli . Aristagora e Istieo   fecero una brutta fine, il primo in Tracia, l’altro in Ionia , e la repressione persiana riportò le cose al punto di prima.
Solo in  apparenza, però.  Dario, il Re dei re, non calcò la mano, ma neppure  si accontentò: voleva l’atto di sottomissione da parte delle città greche del continente, per evitare guai analoghi in futuro e per ristabilire la propria autorità e il proprio prestigio compromessi durante quella vicenda.  Se non avesse agito in questo modo, come avrebbe potuto  tenere a freno le eventuali  aspirazioni di autonomia dei suoi innumerevoli popoli? Voleva anche  garantirsi  i confini occidentali del suo impero, mettere piede in Europa  o , con una vittoria  decisiva e prestigiosa,  emulare i suoi illustri avi, Ciro e Cambise.  Ma questo è un altro discorso.

Gli Ateniesi? Chi sono gli Ateniesi?

 Non l’aveva presa bene, Dario, la notizia dell’incendio della capitale di una delle sue satrapie, Sardi. Le fiamme erano partite da una casa incendiata accidentalmente ( ?) da un soldato greco e si erano, ben  presto,  propagate per tutta la città. “Chi è stato?” chiese Dario. “Gli Ioni e gli Ateniesi”,  gli fu risposto. “Gli Ateniesi? Chi sono gli Ateniesi?”. Inviperito, fece scagliare  una freccia contro il cielo, maledisse quegli sconosciuti, chiese al dio Ahura Mazda  di dargli la giusta  vendetta,  chiamò il suo cameriere personale e gli ordinò di ripetergli ogni sera: “ O Re dei re , ricordati degli Ateniesi”.
Repressa la ribellione, se ne ricordò. Scelse due collaboratori fidati, Artafrenes, figlio dell’omonimo  satrapo di Sardi, e Dati, “di stirpe meda”, come dice Erodoto,  consegnò loro un’armata poderosa per quei tempi  e li spedì oltre l’Ellesponto a chiedere, sulla punta delle lance, il segno della sottomissione:  la terra e l’acqua. Disse loro questo: “ Risparmiate chi accetta, fate prigioniero chi  rifiuta”. Per chi fosse stato  fatto prigioniero, si sarebbero aperte , secondo il costume persiano, le strade della deportazione  in luoghi inospitali e  lontani.

Mare Egeo , 490 a.c. agosto, flotta  persiana in navigazione verso l’Eubea.

 La flotta prese la via più lunga: si diresse verso le isole ed evitò di girare intorno all’Athos, dove  un paio di anni prima, le navi  di  un’armata imponente in navigazione  verso Atene  erano state danneggiate,  tutte o quasi,  da una tremenda tempesta.( Per inciso, quelle navi erano comandate dal generale  Mardonio, un tipo abbonato  alla sfortuna , come vedremo più avanti).  Presa  Nasso, nelle Cicladi, la  flotta puntò dritta su Delo.
I luoghi sacri a Apollo e a Artemide, le case, i villaggi erano deserti. I Deli, prudentemente, si erano rifugiati sull’isola di Tino. Quando lo seppero, Dati e Artafrenes inviarono loro un araldo.” Tornate alle vostre case”, disse, “Non vi sarà fatto alcun male. Anche noi adoriamo il sole  e la luna  e renderemo loro onore come si deve”. Sull’altare di Apollo( il sole) e di Artemide( la luna),  i Persiani bruciarono una fortuna in incenso ( trecento talenti, dice Erodoto)   e poi tolsero il disturbo. Appena si furono allontanati, un terremoto violentissimo fece tremare l’isola . Mai si ricordava , a memoria d’uomo, una cosa simile. Che gli dei preannunciassero sciagure senza fine?
I Persiani, lasciata Delo, si diressero  verso  la città di Eretria, intenzionati, questa volta , a non bruciare  incenso. Eretria aveva aiutato la ribellione, aveva fornito cinque navi agli Ioni: doveva pagarla.
Gli abitanti, preoccupati, chiesero aiuto ad Atene, ma  la situazione, a Eretria, era ingarbugliata.  Alcuni erano per resistere, altri per sottomettersi,  cedendo  terra e acqua al Persiano. Gli Ateniesi fiutarono l’aria e, prudentemente, scelsero di non impegnare propri soldati- quattromila cleruchi-   già sul luogo.  I Persiani sbarcarono, fecero scendere dalle navi i cavalli e assalirono gli Eretriesi. Dopo sei giorni di assedio e di attacchi continui, la città  si consegnò – o fu consegnata-  ai Persiani. Aveva opposto resistenza: Dati e Artafrenes, ligi agli  ordini del re, ridussero in schiavitù gli abitanti. Furono spediti in Persia, in una regione dove sgorgava un olio nero e puzzolente, facilmente infiammabile.  Un postaccio, per quei tempi.

Il sogno di Ippia

Al seguito dei Persiani c’era anche Ippia  figlio di Pisistrato,  già  tiranno di Atene. Desiderava  ritornare da trionfatore nella città dalla quale era stato cacciato tempo prima. Faceva strani sogni, Ippia, e una sera  sognò di giacere con la propria madre. Il dottor Freud era di là da venire e così l’ex tiranno interpretò il sogno alla propria maniera.”  Ci sono!”, esclamò, “Ho capito: prenderò possesso di Atene, riavrò il potere e non me ne andrò più “.
Ippia era anziano e soffriva di  piorrea. Aveva i denti ballerini, insomma.  Sbarcò coi Persiani a Maratona e , appena sbarcato, un forte sternuto gli fece cadere un dente.  Lo cercò a lungo: invano. Ahimè, disse, adesso sì che l’ho capito il sogno! Che l’ho capito davvero. Conquisterò un bel niente. La terra che  mi spetta è tutta qui,  intorno al mio dente!”
Parola di Erodoto.

Pianura di Maratona, 490 a.c, settembre.

Presa Eretria, i Persiani  rimasero fermi per qualche giorno. Poi, direttisi verso l’Attica, scelsero come luogo per accamparsi la piana di Maratona,  non lontana da  Atene. Perché? Intanto perché, mostrandosi in tutta la loro potenza, contavano- anzi erano quasi sicuri-  di provocare in Atene una sollevazione interna   e poi perché  cercavano un luogo  dove fosse possibile sfruttare,  in caso di combattimento,  la forza della  propria  cavalleria. Fu  Ippia  figlio di Pisistrato, già tiranno di Atene, sognatore deluso, ma  conoscitore dei luoghi,  a indicare loro la piana.
Gli Ateniesi, messi alle strette e bisognosi di aiuto, bussarono alla porta degli Spartani. “ Arriveremo”, fu la risposta, “Ma solo alla fine del periodo sacro per noi , cioè fra qualche  giorno.” . Aspetta e spera.
Arrivarono, invece, mille cittadini di Platea, armati di tutto punto e decisi  a battersi, subito, a fianco degli Ateniesi. Li legavano a loro  vincoli di amicizia, per via dell’aiuto ricevuto, anni prima, durante una  disputa – ancora e sempre il  “ male greco”!- con i Tebani.

Atene, 490 a.c., settembre.

Milziade era uno degli strateghi ateniesi. Non era uno stinco di santo, meglio metterlo in chiaro subito. Aveva avuto i suoi problemi, i suoi processi ,  le sue disavventure. Ne combinerà di cotte e di crude anche dopo. Ma conosceva i Persiani.
Ad  Atene  Milziade, benché non fosse visitato da sogni più o meno premonitori come Ippia,   sudava  ugualmente freddo. L’attesa si prolungava troppo:  vuoi vedere che rinunciamo a questa occasione e ce ne stiamo qui, buoni buoni, lasciando campo al Persiano? Molti dei  suoi colleghi,  strateghi come lui, infatti, tentennavano. Troppo numerosi i nemici, troppo forti per essere affrontati in campo aperto. Meglio lasciar perdere. E invece no, bisognava attaccare. Lui sapeva come combattevano i Persiani, li aveva visti all’opera in Tracia e altrove e sapeva come batterli. O, almeno, credeva di saperlo.
Gli strateghi, cioè i comandanti sul campo,  erano dieci: ogni stratego, un voto. Su quella questione, attaccare non attaccare,  erano pari: cinque a cinque. Ma qualcuno avrebbe potuto cambiare idea e sposare il partito della prudenza. Bisognava forzare la situazione prima che fosse troppo tardi. Il tempo non giocava  certo a favore di Milziade.
Il tempo no, ma Callimaco, l’undicesimo, forse  sì. Callimaco era l’arconte polemarco aggregato all’esercito- una specie di comandante in capo –    e , naturalmente,  in virtù della sua carica , aveva diritto di  voto. “ Amico mio” gli disse a tu per tu  Milziade, “Il destino della Grecia dipende da te. Se non combattiamo, spariremo come Ateniesi, spariremo  come Greci e saremo assimilati al Persiano;  se combattiamo e vinciamo, non solo conserveremo la nostra libertà, ma  diventeremo i più forti e i più potenti fra i Greci”. Callimaco  si convinse  e  si espresse a favore dell’attacco: sei a cinque. Era fatta. L’esercito uscì da Atene e si schierò  di fronte al nemico.
Gli strateghi, per legge, si alternavano nel comando. Dopo il voto, ognuno di  loro  offrì il proprio turno a Milziade. Ma Milziade pur sentendosi lusingato, aspettò ad attaccare battaglia. Lo fece quando, per legge, sarebbe comunque  toccato  a lui.

Pianura di Maratona, 490 a.c, 21 settembre. Campo di battaglia.

E’ strano: i Persiani  scelsero  Maratona per  giocare  la partita in casa, contando sui propri  cavalieri, ma  la cavalleria, quel giorno,  non si fece neanche vedere. O, se arrivò,  arrivò tardi, che è lo stesso. Probabilmente era stata imbarcata, pronta per essere spedita alla volta di Atene, dove i Persiani contavano  su una quinta colonna.   Quella di Maratona fu,  dunque,  una battaglia di fanti durata “  a lungo” come dice Erodoto e, cioè, un po’ più  del normale. Le battaglie fra opliti, nell’antichità, come avremo modo di accennare  a proposito dei fatti delle Termopili, duravano poco o pochissimo nella fase di sfondamento; duravano molto di più nella fase di inseguimento. Aristofane riassume, sulla scena, nelle parole di un veterano di Maratona, il senso di quella battaglia  in particolare e della battaglia fra opliti in generale: “Inseguivamo”.
Dunque, quando venne il momento di battersi, Milziade schierò il suo esercito in modo non convenzionale. Dovendo coprire l’intera estensione del fronte persiano, fu quasi una scelta obbligata.  Al centro, di fronte al  nemico, dispose i suoi opliti  su un numero ridotto di  file( probabilmente  quattro), mentre raddoppiò le file  alle ali : a destra, al posto d’onore,  gli  Ateniesi;   a sinistra i Plateesi .  Insomma, il centro era debole,  le ali forti.
A un segnale convenuto, i Greci avanzarono correndo verso i nemici. Secondo Erodoto, si fecero la bellezza di  otto stadi – millecinquecento metri circa-  tutti di corsa. Un po’ troppi per un oplita  greco, armato di tutto punto e  appesantito dalla panoplia.  Probabilmente le cose andarono diversamente.
Nel gioco del rugby, quando viene decretata  una  mischia, gli atleti, da una parte e dall’altra, prendono una breve ricorsa per accentuare l’impatto. Una cosa  del genere deve essere accaduta quel giorno  a Maratona, anche se, probabilmente, da un parte sola.  I Greci avanzarono a passo sostenuto e  fecero di corsa  solo gli ultimi metri che li separavano dal  nemico. E, quasi certamente,  i  Persiani, colti di sorpresa, subirono la carica. O, forse,- chi lo sa?- corsero anch’essi  in avanti , per non venire caricati da fermi. Chi subisce una carica da fermo, infatti,  è come se fosse caricato due volte.
Dunque i Greci affrontarono i nemici  correndo. E forse anche  i Persiani fecero lo stesso.  Comunque , superato il primo momento di sbandamento, al centro  dove le linee della falange greca  erano più sottili, i Persiani ebbero la meglio e avanzarono; sulle ali, dove le linee nemiche erano più folte, ebbero vita dura. Anzi, durissima.

Pianura di Canne, Italia, 216 a.c. , 2  agosto. Campo di battaglia.

Annibale ha schierato un centro volutamente debole, rivolto, ad arco convesso, contro il nemico e ha irrobustito le ali. I Romani  ci cascano: attaccano al centro, dove credono i nemici  più deboli e avanzano.  I Galli e gli Ispanici, lì davanti, non reggono la pressione e arretrano. Con ordine, con calma, sotto la guida di Annibale in persona,  ma arretrano. Quel semicerchio, convesso in origine,  si fa sempre più concavo. I  legionari  si infilano in quel varco,  sempre più in profondità. La vittoria sembra loro  a portata di mano e invece si stanno cacciando in una trappola mortale, in un imbuto dal quale non usciranno più.
Già, perché  sulle ali, là dove Annibale ha sistemato i suoi veterani, i Romani stanno vedendo i sorci verdi. Non sfondano, anzi vengono, poco alla volta, ricacciati indietro. Intasando il centro, già terribilmente affollato di suo. Una maledetta trappola,  orchestrata in modo magistrale, non c’è che dire. E a un segnale convenuto, entrambe le ali  convergono verso il  centro e la cavalleria, l’imprendibile cavalleria cartaginese, piomba alle spalle dei Romani e chiude  il cerchio. All’interno, sopraffatti dal loro stesso numero , impossibilitati a manovrare a causa della calca, i migliori soldati di Roma vengono annientati.

Pianura di Maratona, 490 a.c., 21 settembre . Campo di battaglia.

 Anche a Maratona i Persiani ci cascano come pivelli. Premono sul centro e quelle poche file di opliti non reggono. Arretrano. Lentamente, senza scompaginarsi, ma arretrano. E i Persiani , imbaldanziti, premono sempre di più  e finiscono dritti nella trappola.  Sulle ali, dove sono più numerosi,  i Greci hanno la meglio, ma , anziché inseguire subito  i nemici in fuga, come si faceva di solito nelle battaglie dell’antichità , operano una conversione e tentano  di chiudere il  cerchio. Manovra voluta o  manovra  casuale?
I Persiani,  comunque, vista la mala parata , smettono di combattere e se la danno a gambe levate , cercando il mare  e le navi. I Greci piombano su di loro e danno inizio al  massacro. Inseguendo i vinti, i vincitori giungono vicinissimi alle  navi: cercano di impadronirsene o di incendiarle , ma non ce la fanno. Nelle loro mani ne restano solo sette;  il resto della flotta  prende il largo in direzione  di Atene. Uno scudo, levato alto a riflettere i raggi del sole, li chiama verso la città. Un segnale convenuto? Un tradimento? Fu un membro della potente famiglia ateniese  degli Alcmeonidi ad alzare lo scudo? Qualcuno, dopo Maratona,  fece correre questa voce dandole credito: Erodoto, però, lo esclude.

C’è da tornare ad Atene e c’è da farlo in fretta. Gli opliti ateniesi ingaggiano un duello a distanza con le navi nemiche, già oltre il Sunio. Si muovono con “ tutta la velocità consentita dalle loro gambe” e ce la fanno in meno di otto ore. Arrivati per primi ad Atene, prendono posizione, bene in vista, all’inizio  della città e aspettano. I Persiani arrivano , trovano una  città in armi , anziché una città  sguarnita e indifesa, non se la sentono di attaccare, voltano le prore e se ne  tornano a casa. Fine della storia.

Fine della storia?

 

Epilogo.

 Fidia, il divino  scultore, guardò l’ enorme  blocco di marmo; poi si mise la lavoro. Quel  marmo era marmo persiano. Aveva viaggiato al seguito dell’armata nemica , destinato a trasformarsi , secondo  Dati e Artafrenes, dopo la caduta  di Atene,  in un  monumento perenne alla gloria di Dario. Divenne,  sotto lo scalpello di Fidia, la statua di Nemesi: la dea  greca della giusta vendetta.


Continua…. 

Appendice

 

La battaglia.

 In questa cartina, tratta dal sito web arsbellica  è descritto lo svolgimento della battaglia. Le ali dello schieramento ateniese ( colore azzurro)contano quasi il doppio di opliti rispetto al centro. I Persiani ( colore arancione)esercitano la massima pressione sul centro, ma si espongono alla manovra di accerchiamento da parte delle ali dello schieramento greco. Per non finire in trappola, i Persiani si ritirano e cercano di raggiungere le navi.

Attori e spettatori.

 Sul campo, a Maratona, dice Erodoto,  i Persiani schierarono 30.000 uomini ed ebbero 6400 caduti; gli Ateniesi  11.000 e  solo 192 caduti,  fra i quali anche l’arconte polemarco Callìmaco.   Gli Spartani, finito il periodo sacro, arrivarono a cose fatte  in Attica,  vollero vedere i cadaveri dei nemici, si complimentarono con gli Ateniesi e se  ne tornarono in Laconia.

Le dimensioni di un complotto.
Erodoto parla, a un certo punto, di notabili persiani messi a morte. Istieo aveva inviato loro  delle lettere. I servizi segreti di Dario le intercettarono, ma fecero in modo che fossero recapitate ugualmente  ai destinatari. Che, subito dopo averle ricevute , furono arrestati e giustiziati. Dunque, il complotto, in Ionia, era più vasto del previsto e toccava la corte stessa. Istieo se la cavò- anche se giudicò più prudente  lasciare Susa- perché  godeva del favore di Dario. Era stato lui  a consigliare al re  di non tagliare il ponte sull’Istro( il Danubio), al tempo della spedizione contro gli Sciti( 512 a.c.). Ridotto a mal partito, Dario riuscì a cavarsela grazie proprio  a quel ponte. Non se lo dimenticò.

 Caso o intenzione?

La battaglia di Maratona – è stato affermato- andò come andò più per caso che per un piano preparato e studiato in precedenza. Difficile darlo per certo, difficile smentirlo. Quell’attacco di corsa, però, su distanze mai verificatesi prima  e sul quale insiste Erodoto,  non fu certo un evento casuale.  E ha un suo significato. Ci dice, per esempio , proprio perché insolito,  che  qualcosa gli strateghi greci avevano studiato e pensato.   Di correre per  giocare d’anticipo sulla tattica persiana di far piovere migliaia di frecce e di giavellotti sul nemico in avanzata, ad esempio. O di correre per sfondare rapidamente , ritardando o rendendo nullo l’ eventuale intervento della cavalleria. L’accerchiamento dei Persiani ad opera degli opliti ateniesi,  infine, forse fu determinato più dalle circostanze che da un piano vero  e proprio. Ma anche saper interpretare  correttamente le circostanze, come quasi sicuramente  fece Milziade quel giorno, non è da tutti. Innegabili, comunque, le somiglianze con la battaglia di Canne, combattuta circa duecentocinquanta anni dopo.

L’altare  e la polvere.

 Milziade( 550-488 a.c) il vincitore di Maratona, era figlio di Cimone, più volte trionfatore   olimpico( corsa con i cavalli),  fatto uccidere dai figli di  Pisistrato. Aveva governato in odore di tirannia  la regione del Chersoneso tracico,  aveva sposato la  figlia del re dei Traci,   era scampato a stento  ai pirati fenici( suo figlio, catturato da quegli stessi pirati, fu portato al cospetto di Dario ed ottenne da lui, anziché la morte, onori ,  rispetto e averi); era stato accusato, una volta tornato in patria, di avere instaurato la tirannia nel Chersoneso, ma era stato  assolto e nominato stratego per volontà del popolo.
Dopo Maratona, condusse  alcune imprese poco chiare. Sfruttò la popolarità acquisita  per farsi assegnare una flotta con la quale mosse alla volta dell’isola di Paro. Ufficialmente per punire gli abitanti dell’isola, considerati filo-persiani; in realtà, dice Erodoto, per vendicarsi di un’offesa personale. I Parii , per niente intimoriti dalla fama di Milziade,  resistettero. Durante questa campagna  Milziade  cadde malamente procurandosi, in circostanze quasi sacrileghe( stava violando un tempio..),  una ferita – chi dice una frattura  al femore, chi una lesione  alla coscia. Andata  in suppurazione, quella ferita  lo porterà alla morte. Prima di morire, tuttavia, fu messo sotto processo ad Atene  per l’impresa di Paro: fu assolto, ma fu condannato a pagare una multa. Morì prima di pagarla : fu suo figlio Cimone  a estinguere il debito del padre  verso la giustizia.
Un’altra versione vuole Milziade morto in carcere.

La morte di Milziade. Dipinto di Jaen-Francois- Peyron(1744-1814). Parigi Museo del Louvre.

La lancia e l’arco.

Probabilmente , a Maratona, fra le file persiane  c’erano degli opliti. Forse  greci, sicuramente mercenari. I  Persiani, in genere, se si esclude il corpo scelto degli Immortali,  non indossavano  corazza e  combattevano facendo affidamento  su tre fattori: il numero, la cavalleria e gli arcieri.
Rispetto ai Greci, i Persiani , durante l’intero periodo delle guerre che da loro prendono il nome ,  furono sempre in superiorità numerica e sempre le buscarono di brutto. La temuta  cavalleria persiana  a Maratona non si fece vedere . Probabilmente, come si è detto,   era stata imbarcata per essere spedita via mare ad Atene  e non ebbe il tempo di intervenire.
Gli arcieri, infine. Erano abili,  niente da dire. Abili, terribilmente precisi  e protetti da una barriera di scudi. Ma la falange, avanzando disposta a testuggine, era in grado di limitarne gli effetti. Questo successe alle Termopili. A  Maratona, però, le cose andarono diversamente: anziché assumere una formazione chiusa e compatta, gli opliti greci  accelerarono il passo- corsero probabilmente- cercando di battere gli arcieri sul tempo o, comunque, di ridurne la frequenza di lancio.
Erodoto conferma la presenza di opliti fra le file persiane a Maratona. Un  guerriero barbuto e gigantesco  assale gli Ateniesi, uccidendone alcuni e rendendo cieco, senza neppure sfiorarlo, il testimone  della visione. Chi  o che cosa è   quel gigantesco combattente , per  Erodoto? E’ la personificazione  della potenza  di  tutti gli opliti  greci ostili ad Atene presenti sul campo di Maratona quel 21 settembre del 490 a.c. oppure  un Immortale, cioè un componente di quel gruppo scelto destinato alla guardia personale del Re dei re?  Le fonti antiche, tra le quali lo stesso Erodoto,  non parlano, però, esplicitamente  di Immortali presenti a Maratona.  Per quanto riguarda gli Immortali, si rimanda alla descrizione della battaglia delle Termopili.

Ritratto ( in poche  righe ) di un tiranno.

Sigmund  Freud analizzerà, quando parlerà del complesso di Edipo, anche il sogno di Ippia raccontato da Erodoto.  Figlio di Pisistrato , Ippia fu tiranno di Atene dal 528 circa al 510, prima con il fratello Ipparco, poi , alla morte- violenta-   di quest’ultimo, da solo. Di orientamento filo-persiano, fu cacciato per iniziativa degli Alcmeonidi, potente famiglia ateniese, aiutati dagli Spartani. Lasciata Atene, si rifugiò nel Sigeo, in Asia, dove fu tributario del re di Persia.  Seguì , come abbiamo visto, l’esercito persiano nella campagna contro gli Ateniesi e cadde probabilmente a Maratona.

Una regione inquieta.

La Ionia si estendeva lungo le coste occidentali dell’Asia Minore ed era abitata, fin dall’undicesimo secolo a.c.,  da popolazioni greche di origine ionica, arrivate qui, secondo la leggenda, dall’Attica al seguito dei figli del mitico re Codro, Neleo e Androclo, in realtà da più parti.
La ribellione della Ionia ebbe  inizio intorno al 500 a.c.  e fu caratterizzata da  un andamento altalenante. Gli inizi furono  favorevoli ai ribelli, giunti addirittura,  come abbiamo visto, a incendiare l’importante città di Sardi , ma si concluse, nel 494,  con la repressione persiana. Sorte drammatica toccò agli abitanti di Chio, valorosissimi combattenti durante la battaglia di Lade ( la battaglia navale precedente la caduta di Mileto). Dopo aver  affondato  molte imbarcazioni  nemiche, abbandonarono il campo di battaglia e si diressero a Micale, dove  trassero in secco le navi e proseguirono a piedi verso l’interno, nel territorio di Efeso. Gli Efesini li scambiarono per predoni e li massacrarono tutti

 La gloria  delle armi, la gloria della poesia.

A Maratona, fra gli opliti ateniesi  c’era un personaggio d’eccezione: Eschilo(525 o 524- 456 o 455 a.c). Il grande tragediografo, quel giorno, oplita fra gli opliti,  si lanciò, come tutti,  di corsa contro i Persiani  e   si batté  con valore, riportando anche diverse ferite,  per fortuna sua e nostra, non gravi. Combatterà  di nuovo  a Salamina e, forse, anche a Platea. Sulla sua tomba, volle fossero  incise queste parole:

Qui giace Eschilo figlio di Euforione, ateniese;
questo monumento lo copre; morì nella fertile Gela,
ma la gloria del suo valore la radura di Maratona può raccontare
e il Medo dalla lunghe chiome, che ben la conosce. 

Insomma, Eschilo ci teneva di più ad essere ricordato come soldato  che come autore di versi splendidi e immortali.

A Maratona combatté anche un  fratello del poeta, Cinegiro. Quando, inseguendo i nemici  in rotta, Ateniesi e Plateesi raggiunsero le navi persiane, Cinegiro si aggrappò alla murata di una di esse, cercando , insieme ad altri, di trascinarla via. Quando ebbe entrambe le mani recise di netto da un colpo di spada, continuò a farlo con…..i denti. Almeno così racconta Erodoto. Ma anche altre fonti parlano del coraggio di Cinegiro durante la battaglia di Maratona.

Da leggere:

Erodoto, Storie, libro VI
Frediani , Andrea,  Le grandi battaglie dell’antica Grecia, Newton Compton, 2005
Holland, Tom, Fuoco persiano: il primo grande scontro fra Oriente e Occidente, Il Saggiatore, 2007
Murray, Oswyn, La Grecia delle origini, Il Mulino, 1983
Plutarco, Vita di Milziade,  Utet.

In questo sito:
 
La lepre e la giumenta.
Alla vigilia delle Termopili, gli avvisi degli dei al Re dei re….
Leggi l’articolo.

Il muro di legno.
La mattanza di Salamina, 480, a.c.
Leggi l’articolo.

La resa dei conti.
Il più grande esercito greco dai tempi della guerra di Troia e trecentomila persiani si affrontano nella pianura davanti a  Platea, in Beozia.
Leggi l’articolo.

Per qualche dàrico in più.
401 a.c: comincia la ” discesa” verso il mare di diecimila opliti greci pagati un dàrico e mezzo al mese…
Leggi l’articolo

 

E anche:
 

Il sole di Vergìna.
Il sole di VerginaFilippo II di Macedonia unisce la Grecia e guarda alla Persia.
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Lo scudo di Brasida

Guerra del Peloponneso( 431-404 a.c.). Una tempesta porta quaranta triremi ateniesi a Pilo, in territorio nemico. La reazione spartana non è immediata. Gli Ateniesi si fortificano e aspettano.
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La freccia di Sfacteria

Guerra del Peloponneso (431-404 a.c.).A Sfacteria va in scena qualcosa che ha dell’incredibile agli occhi dell’intera Grecia: più di quattrocento opliti spartani, intrappolati sull’isola, anziché combattere fino alla morte, gettano gli scudi, alzano le mani e si arrendono. Leggi l’articolo.

 

I fiumi della capra

A Egospotami ( “ I fiumi della capra”), con un audace colpo di mano, il navarco spartano Lisandro coglie la tanto sospirata vittoria decisiva sugli Ateniesi.
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Le ali della farfalla.

Due città contese, un atto di valore, le avvisaglie di una guerra devastante.
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” Con parole o con forza di lancia”

424 a.c. “La legge comune della Grecia” tradita a Delio dai vincitori tebani.
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Un’isola troppo lontana

Guerra del Peloponneso: la spedizione ateniese in Sicilia: cronaca di un disastro annunciato. Leggi l’articolo

 

I dipinti che compaiono nell’articolo sono tratti dal seguente sito web:http://www.summagallicana.it/…/Milziade%20il%20Giovane.htm

Indirizzo completo del sito dal quale è stata tratta la cartina:  http://www.arsbellica.it/pagine/antica/…/Maratona.html

 

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