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b) Il Portogallo fuori dal Portogallo.
L’impero portoghese- il Portogallo fuori dal Portogallo – è, in origine, vastissimo e, in apparenza, fragilissimo. E’ un impero d’acqua, non di terra. In Asia e in Africa, le feitorias hanno alle proprie spalle un territorio ostile o inesplorato, la fascia di sicurezza è sottile e non sempre i forti e le fortezze garantiscono tranquillità. E’ un fitto insieme di puntini- alcuni piccoli, altri un po’ più grandi- sospesi fra due immensità: quella degli oceani e quella della terraferma. Solo il mare è (relativamente) sicuro. E, come abbiamo visto, è il mare, con le sue flotte, le sue rotte e i suoi traffici , il vero centro dell’impero.
Poi, a poco a poco, la tendenza si inverte. Crollato il mercato delle spezie, subìta l’aggressione olandese, inglese e musulmana, abolito- in teoria, più che in pratica- il mercato degli schiavi, l’impero portoghese rifluisce verso la terraferma.
In Africa e in Asia, la penetrazione verso l’interno in cerca di terre ( e di oro)richiede tempo e denaro, uomini e capitali, soffre di alti e bassi, conosce successi e sconfitte prima di assestarsi. E’ un movimento lento, molto “portoghese”, con poca violenza, molti matrimoni misti e un abile sfruttamento delle rivalità altrui, ma, dal punto di vista culturale, a senso unico. Non c’è scambio: chi colonizza prende e chi è colonizzato subisce. Subisce la visione del mondo e l’atteggiamento di superiorità – se non proprio il razzismo- dei nuovi arrivati, la religione (questa un po’ meno, viste le difficoltà in cui si muovono i missionari dopo il primo approccio favorevole), la gestione fortemente centralizzata. Nella seconda metà dell’Ottocento, l’impero portoghese non è più la sterminata distesa di puntini dei primi tempi: ha dimensioni –e pretese- molto più ridotte. E’ ancorato alla terraferma ed è più difendibile. Sulla carta, almeno. E, come ai tempi delle spezie, continua a muovere denari.
Madera e le Azzorre – distanti dal Portogallo, ma in pratica province metropolitane- producono vino e legname. Lo zucchero e le arance dolci destinate ad arrivare lontano [1], passano da qui; l’Angola fornisce al Brasile schiavi negri; il Mozambico e ciò che resta dell’India ( Goa, Diu, Cochim, Baçaim, e poco altro) si svegliano dal torpore e intensificano i traffici reciproci; un lungimirante funzionario, Francisco de Sousa Coutinho, cerca di unire la parte occidentale dell’Africa portoghese con quella orientale; opportune misure amministrative volute per primo dal solito marchese di Pombal ( libertà di commercio da e per l’Angola e il Mozambico, Juntas per regolare e per stimolare gli scambi, incentivi al popolamento ecc.) favoriscono la crescita.
Le zone d’ombra, tuttavia, non mancano: Capo Verde, ad esempio, quasi disabitato e soggetto ai capricci del clima, ancorché scalo importante da e per l’Oltremare; la Guinea-Bissau, ancora arretrata , per molti versi trascurata e sotto perenne minaccia francese; le isole minori ( Principe, Sao Tomé), potenzialmente ricche, ma sottoposte a frequenti aggressioni; Macau ricevuto “in affitto”, ma di fatto cinese.
Persino Goa, la sfavillante Goa, soffre. Soffre a causa del suo clima, giudicato inadatto agli europei; soffre per il suo ruolo “ politico”, sovradimensionato rispetto alle necessità di un impero fattosi, in Asia, sempre più piccolo. Ma il trasloco da Goa a Pangim, cominciato agli albori della decadenza imperiale, finirà quasi cento anni più tardi. Lasciare l’antica capitale costa, non in termini di soldi, ma di sentimenti. Non tocca il portafoglio, ma il cuore. E per domare il cuore, ai portoghesi di Goa occorre un secolo. Potenza del fascino della Dourada.
Fuori dal Portogallo, il cuore del Portogallo e dei portoghesi resta, dunque, in India, a Goa, sede di antichi splendori e di glorie mai dimenticate. Ma la testa- o, meglio, il portafoglio- è in Brasile. Attinto da Pedro Alvares Cabral all’alba del Cinquecento, esplorato sulle prime solo in parte , diviso in seguito in numerose unità amministrative- le capitanìe– sottoposte all’autorità di un governatore generale, ma di fatto ampiamente autonome, strappati agli indigeni vasti territori ( soprattutto nel Seicento), respinti i francesi ( a nord) e risolte le controversie con gli spagnoli ( a sud), o Brasil, un tempo Terra di Vera Cruz, cresce e prospera a tal punto da essere trasformato in un vicereame.
La Corona se lo tiene stretto e fa bene. Il Brasile è ricco, produce zucchero, tabacco, cacao , cotone. Le sue miniere trasudano oro ( particolarmente pregiato, l’ouro preto, l’oro nero, più scuro di quello giallo), la popolazione è in costante crescita. Nella capitanìa– creata in occasione della corsa all’oro- di Minas Gerais ( Miniere Generali), attirati dalla possibilità di far soldi arrivano a migliaia gli emboabas ,“ le galline con le piume alle zampe”, gli immigrati portoghesi chiamati così con un termine tratto dalla lingua degli indigeni, perché soliti calzare, all’uso metropolitano, alti stivali. Il commercio con la madrepatria , l’unico consentito, prospera. E prospera anche il commercio degli schiavi. Grandi compagnie- ivi inclusa la stessa Corona- detengono il monopolio dell’uno e dell’altro: pur di ottenere profitti non vanno tanto per il sottile, ma fanno crescere l’economia e, per via dei matrimoni misti, anche la popolazione.
Ma è ancora un paese irrequieto. Gli emboabas sono malvisti, i Gesuiti sono quasi uno stato nello stato, fra i nobili terratenenti e la borghesia mercantile, non corre buon sangue; cominciano a circolare idee “ sovversive”; si parla di autonomia e di indipendenza. Il sottotenente (alferes) Joaquim José da Silva Xavier(1746-1792), cavadenti a tempo perso e per questo soprannominato Tiradentes, proclama- pagando con la vita- l’indipendenza di Minas Gerais; a Bahìa una cospirazione repubblicana viene stroncata sul nascere. Sembra l’inizio di futuri sconquassi.
Poi, da oltreoceano, arrivano dom JoaoVI ( leggi) e l’intera corte in fuga dai francesi di Junot( 1807-08). E la situazione cambia. Viene liberalizzato il commercio, favorito lo sviluppo industriale( prima sempre tenuto a freno perché potenziale fattore di concorrenza con la madrepatria da un lato e di indipendenza economica e politica della colonia, dall’altro), incoraggiata una cultura da qualche tempo connotata in senso originale, migliorate la burocrazia e l’amministrazione, creata una specie di banca centrale, istituito un ministero delle Finanze. Nel 1815 il Brasile diventa un regno, con istituzioni proprie. Spariscono le capitanìe e subentrano le “province”. Ciò che nei Codici faceva del Brasile una colonia, a poco a poco scompare per decreto e va in scena una situazione paradossale: il Portogallo metropolitano è, in questo momento, una colonia della sua colonia.
A un certo punto, tramontato in Europa l’astro di Napoleone ritenuto da molti eterno o quasi, dom Joao deve scegliere. Lui vorrebbe restare in Brasile – e Carlota Joaquina, sua moglie ancora di più- ma è anche un Braganza nato in Portogallo e depositario della storia del Portogallo. Non può restare. Cerca soluzioni di compromesso, prende tempo, ma alla fine ritorna.
Per ritrovarsi in un Paese dove i liberali al governo cercano con tutti i mezzi di mantenere il Brasile allo stato coloniale, ridicolizzandone le aspirazioni e i costumi e richiamando in patria l’infante Pedro col pretesto di completarne l’educazione. Nessuno ci sta. Non ci stanno i brasiliani, non ci sta dom Pedro. L’indipendenza del Brasile viene proclamata il 7 settembre del 1822. Tutto il resto- la ricerca, fallita, di una soluzione di compromesso( Joao VI imperatore dei due Paesi e dom Pedro re del Brasile)- conta poco.
Per il Brasile e per il Portogallo è iniziata una nuova era.
[1] Nel dialetto delle mie parti, le arance si chiamano ancora partugàl e i mandarini, mandarèn, parola quest’ultima di derivazione portoghese. Viene, infatti, da mandar, comandare e, in passato, indicava gli alti funzionari dell’impero cinese, i Mandarini, appunto. Poiché si riteneva che le arance dolci venissero dalla Cina, furono chiamate con il nome dei funzionari di quell’impero.
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