L’espansione ultramarina

20/03/2011

Stai leggendo Storie del Potogallo: i momenti.

b) Il Portogallo fuori dal Portogallo.

Un azulejo raffigurante le scoperte ultramarine portoghesi. Da: http://www.vitorvieira.net/galeria/main.php?g2_itemId=270 --

 L’impero portoghese- il Portogallo fuori dal Portogallo – è, in origine, vastissimo e, in apparenza, fragilissimo. E’ un impero d’acqua, non di terra. In Asia e in Africa, le feitorias hanno alle proprie spalle un territorio ostile o inesplorato, la fascia di sicurezza è sottile e non sempre i forti e le fortezze garantiscono tranquillità. E’ un fitto insieme di puntini- alcuni piccoli, altri un po’ più grandi- sospesi fra  due immensità: quella degli oceani e quella della terraferma. Solo il mare è (relativamente) sicuro. E, come abbiamo visto, è il mare, con le sue flotte, le sue rotte e i suoi traffici ,  il vero centro dell’impero.
Poi,  a poco a poco, la tendenza si inverte. Crollato il mercato delle spezie, subìta l’aggressione olandese, inglese e musulmana, abolito- in teoria, più che in pratica- il mercato degli schiavi,  l’impero portoghese rifluisce verso la terraferma.
In Africa e in Asia, la penetrazione verso l’interno in cerca di terre ( e di oro)richiede tempo e denaro, uomini e capitali, soffre di alti e bassi,  conosce successi e sconfitte prima di assestarsi. E’ un movimento lento, molto “portoghese”, con poca violenza, molti matrimoni misti e un abile sfruttamento delle rivalità altrui,  ma, dal punto di vista culturale, a senso unico. Non c’è scambio: chi colonizza prende e chi  è colonizzato subisce. Subisce la visione del mondo e l’atteggiamento di superiorità – se non proprio il razzismo- dei nuovi arrivati, la religione (questa  un po’ meno, viste le difficoltà in cui si muovono i missionari dopo il primo approccio favorevole), la gestione fortemente centralizzata.  Nella seconda metà dell’Ottocento, l’impero portoghese non è più la sterminata distesa di puntini dei primi tempi: ha dimensioni –e pretese-  molto più ridotte. E’ ancorato alla terraferma ed è più difendibile. Sulla carta, almeno. E, come ai tempi delle spezie, continua a muovere denari.
Madera e le Azzorre – distanti dal Portogallo, ma in pratica province metropolitane- producono vino e  legname. Lo zucchero e le arance dolci destinate ad arrivare lontano [1], passano da qui; l’Angola fornisce al Brasile schiavi negri; il Mozambico e ciò che resta dell’India ( Goa, Diu, Cochim, Baçaim, e poco altro) si svegliano dal torpore e  intensificano i traffici reciproci; un lungimirante funzionario, Francisco de Sousa Coutinho, cerca di unire la parte occidentale dell’Africa portoghese con quella orientale; opportune misure amministrative volute per primo  dal solito marchese di Pombal ( libertà di commercio da e per l’Angola e il Mozambico, Juntas per  regolare e per stimolare gli scambi, incentivi al popolamento ecc.) favoriscono la crescita.
Le zone d’ombra, tuttavia, non mancano: Capo Verde, ad esempio, quasi disabitato e soggetto ai capricci del clima, ancorché scalo importante da e per l’Oltremare; la Guinea-Bissau, ancora arretrata , per molti versi trascurata e sotto perenne  minaccia francese; le isole minori ( Principe, Sao Tomé), potenzialmente ricche, ma sottoposte  a frequenti aggressioni; Macau ricevuto “in affitto”, ma di fatto cinese.

Goa: la chiesa di Nossa Senhora do Rosario, iniziata nel 1543.

Persino Goa, la sfavillante Goa, soffre. Soffre a causa del  suo clima, giudicato inadatto agli  europei; soffre per il suo ruolo “ politico”, sovradimensionato rispetto alle necessità di un impero fattosi, in Asia, sempre più piccolo.  Ma il trasloco da Goa  a Pangim, cominciato agli albori della decadenza imperiale, finirà quasi cento anni più tardi. Lasciare l’antica capitale costa, non in termini di soldi, ma di sentimenti. Non tocca il portafoglio, ma il cuore. E per domare il cuore, ai portoghesi di Goa occorre un secolo. Potenza del fascino della Dourada.

Fuori dal Portogallo, il cuore del Portogallo e dei portoghesi resta, dunque, in India, a Goa, sede di antichi splendori e di glorie mai dimenticate. Ma la testa- o, meglio, il portafoglio- è in Brasile.  Attinto da Pedro Alvares Cabral all’alba del Cinquecento, esplorato sulle prime  solo in parte , diviso in seguito in numerose unità amministrative- le capitanìe– sottoposte all’autorità di un governatore generale, ma di fatto ampiamente autonome, strappati agli indigeni vasti territori ( soprattutto nel Seicento), respinti i francesi ( a nord) e risolte le controversie con gli spagnoli ( a sud),  o Brasil, un tempo Terra di Vera Cruz, cresce e prospera a tal punto da essere trasformato in un vicereame.
La Corona se lo tiene  stretto e fa bene. Il Brasile è ricco, produce zucchero, tabacco, cacao , cotone. Le sue miniere trasudano oro ( particolarmente pregiato, l’ouro preto, l’oro nero,  più scuro di quello giallo), la popolazione è in costante crescita. Nella capitanìa– creata in occasione della corsa all’oro- di Minas Gerais ( Miniere Generali), attirati dalla possibilità di far soldi arrivano  a migliaia gli emboabas ,“ le galline  con le piume alle zampe”, gli immigrati portoghesi chiamati così con un termine tratto dalla lingua degli indigeni, perché soliti calzare, all’uso metropolitano, alti stivali. Il commercio con la madrepatria , l’unico consentito, prospera. E prospera anche il commercio degli schiavi. Grandi compagnie- ivi inclusa la stessa Corona-  detengono il monopolio dell’uno e dell’altro: pur di ottenere profitti non vanno tanto per il sottile, ma fanno crescere l’economia e, per via dei matrimoni misti, anche  la popolazione.

Ex voto brasiliano (sec. XVIII), raffigurante la cosiddetta

Ma è ancora un paese irrequieto. Gli emboabas sono malvisti, i Gesuiti sono quasi uno stato nello stato, fra i nobili terratenenti e la borghesia mercantile, non corre buon sangue; cominciano a circolare idee “ sovversive”; si parla di autonomia e di indipendenza. Il sottotenente (alferes)  Joaquim José da Silva Xavier(1746-1792), cavadenti a tempo perso e per questo soprannominato Tiradentes, proclama- pagando con la vita- l’indipendenza di Minas Gerais; a Bahìa una cospirazione repubblicana viene stroncata sul nascere. Sembra l’inizio di futuri sconquassi.
Poi, da oltreoceano, arrivano dom JoaoVI ( leggi) e l’intera corte in fuga dai francesi di Junot( 1807-08). E la situazione cambia. Viene liberalizzato il commercio, favorito lo sviluppo industriale( prima sempre tenuto a freno perché potenziale  fattore di concorrenza con la madrepatria da un lato  e di indipendenza economica e politica della colonia, dall’altro), incoraggiata una cultura da qualche tempo connotata in senso originale, migliorate la burocrazia e  l’amministrazione, creata una specie di banca centrale, istituito un ministero delle Finanze. Nel 1815 il Brasile diventa un regno, con istituzioni proprie. Spariscono le capitanìe e subentrano le “province”. Ciò che nei Codici faceva del Brasile una colonia, a poco a poco scompare per decreto e va in scena una situazione paradossale: il Portogallo metropolitano è, in questo momento,  una colonia della sua colonia.
A un certo punto, tramontato in Europa  l’astro di  Napoleone ritenuto da molti eterno o quasi, dom Joao deve scegliere. Lui vorrebbe restare in Brasile – e Carlota Joaquina, sua moglie ancora di più-  ma è anche un Braganza nato in Portogallo e depositario della storia del Portogallo. Non può restare. Cerca soluzioni di compromesso, prende tempo, ma alla fine ritorna.
Per ritrovarsi in  un Paese dove i liberali al governo cercano con tutti i mezzi di mantenere il Brasile allo stato coloniale, ridicolizzandone le aspirazioni e i costumi  e richiamando in patria l’infante Pedro col pretesto di completarne l’educazione. Nessuno ci sta. Non ci stanno i brasiliani, non ci sta dom Pedro. L’indipendenza del Brasile viene proclamata il 7 settembre del 1822. Tutto il resto- la ricerca, fallita, di una soluzione di compromesso( Joao VI imperatore dei due Paesi e dom Pedro re del Brasile)- conta poco.
Per il Brasile  e per il Portogallo è iniziata una nuova  era.


[1] Nel dialetto delle mie parti, le arance si chiamano ancora partugàl e i mandarini, mandarèn, parola quest’ultima di derivazione portoghese. Viene, infatti, da mandar, comandare e, in passato, indicava gli alti funzionari dell’impero cinese, i Mandarini, appunto. Poiché si riteneva che le arance dolci  venissero dalla Cina, furono chiamate con il nome dei funzionari di quell’impero.

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Bibliografia

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L’espansione ultramarina

20/03/2011

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a) il mare universale.

La lunga marcia verso tre continenti  comincia a due passi da casa ( Madeira, Azzorre, Canarie- queste ultime in seguito cedute alla Spagna- Marocco) e si conclude in Asia e in America meno di un secolo dopo. E’ una vittoria psicologica ( superamento del terrore e di pregiudizi), tecnologica( perfezionamento dell’arte marinara)  ed economica ( controllo del mercato delle spezie, soprattutto). E , come ogni storia, ha  i suoi protagonisti  e le sue comparse, i suoi atti di eroismo  e le sue abiezioni, i suoi slanci e le sue depressioni, i suoi vincitori e le sue vittime.
Dopo la conquista di Ceuta( 1415) e dopo il popolamento di Madeira e delle Azzorre, avviato e voluto dall’infante dom Henrique,  è l’Africa a farla da padrona. Oro e schiavi, legname e coloranti, avorio e grano sono merce ricercata.  Su impulso della Corona, si muovono dapprima i mercanti: ottengono benefici e agevolazioni, purché paghino al re il dovuto ( venti, venticinque per cento di quanto guadagnato) e si impegnino ad esplorare, ogni anno, tratti sempre più lunghi di costa.

Vasco da Gama arriva a Calicut, in India( 1498)

Si viaggia anche via terra. La meta è il regno del leggendario “ Prete Gianni”, potente re cristiano e  potenziale alleato nella lotta agli infedeli. Entrano in scena i protagonisti. Enrico il Navigatore organizza un centro di studi marittimi in Algarve, Gil Eanes doppia Capo Bojador, Diogo Cao risale il fiume  Congo, Bartolomeu Dias naviga al di là del Capo delle Tormente. Si fanno progetti, si investono quattrini. Dom Joao II imprime la svolta e pianifica la conquista del “Mare Oceano”; il suo successore, dom Manuel I  la porterà a termine e dom Joao III ne coglierà i frutti. Vasco da Gama muove le sua minuscola armada ( quattro navi) verso l’ India(1497); Pedro Alvares Cabral porta la propria – molto più poderosa- prima sulle coste del Brasile e poi  a cannoneggiare Calicut(1500); il governatore generale Alfonso de Albuquerque- l’Albuquerque terribil di Camoes-  si sbarazza con il ferro e col fuoco dei concorrenti musulmani e consegna al re di Portogallo un mare fechado, chiuso. Per tutta ricompensa, verrà silurato. Ha scritto di lui Pessoa:

Afonso de Albuquerque(1453-1515).

In  piedi, sulle terre conquistate
Abbassa gli occhi,  stanchi di vedere
il mondo, l’ingiustizia, la Fortuna.
Alla vita non pensa né alla morte,
Tanto potente da non voler quanto
Potrebbe. Se egli lo volesse , il mondo
Conquistato  sarebbe sotto il suo tallone
Dominato più di quanto non sia ora.
Tre imperi il destino gli consegna.
Egli li crea, come  pensando ad altro.

(Fernando Pessoa, Mensagem, Brasao, A outra asa do grifo- l’altra ala del grifone- Affonso de Albuquerque)

Azulejos Adamastor

Un azulejo raffigurante il gigante Adamastor, personificazione del Capo delle Tormente e, più in generale, di tutti i mostri del Mare Oceano. Adamastor è stato creato dalla fantasia di Luìz Vaz de Camoes( 1524-1580), cantore delle glorie patrie portoghesi e autore del poema I Lusiadi ( Os Lusiadas), pubblicato nel 1572. Da: http://www.trekearth.com/gallery/…/photo1251664.htm

Mare “chiuso” significa possesso del mare,  controllo delle rotte commerciali e sicurezza per chi le percorre. Una poderosa flotta da guerra tiene alla larga i malintenzionati e consente ai galeoni da trasporto di viaggiare in relativa sicurezza. Le stive traboccano di merci preziose per i tempi: cannella e zenzero, noce moscata e chiodi di garofano, pepe nero  e pepe rosso. Protetti da fortezze, i punti di raccolta costieri – le cosiddette feitorias–  ricevono in Asia le spezie, in Africa l’oro, l’avorio e gli schiavi in attesa di essere imbarcati.
Seguendo il regime dei venti, convogli stracarichi fanno la spola fra l’Oltremare e il territorio metropolitano. Sulle prime il re si accontenta del quinto vale a dire di una percentuale dovutagli in virtù del proprio rango; poi entra direttamente in affari, finanziando o affidando a terzi proprie spedizioni. Non c’è, per il momento, penetrazione in profondità a scopo di conquista: la vita ferve sulle coste o nelle loro immediate vicinanze, non si cercano terre, ma merci da convertire in denaro sonante.
Avventurieri e uomini di chiesa si trovano impegnati fianco a fianco i primi a fare soldi, i secondi a salvare anime. In Brasile, le bandeiras, gruppi armati di coloni, effettuano razzie  ed estemporanee spedizioni verso l’interno, prove generali  della colonizzazione che verrà; in Asia , frati e monaci predicano fratellanza e uguaglianza, affascinando buddisti e induisti; si costruiscono le prime chiese. In India, Goa la dourada (la dorata) cresce in fretta, prima angolo esotico del Portogallo continentale, poi sempre più città dai cento volti e dalle mille meraviglie. In Africa, i poderosi bastioni del forte di Sao Jorge da Mina intimidiscono qualsiasi malintenzionato lungo la rotta dell’oro e degli schiavi.

Una cartina con lubicazione del Forte di Sao Jorge, in Guinea, dalle caratteristiche torri ,conosciuto come Forte da Mina.

Una simile rivoluzione porta ricchezza. Ce n’è per tutti. Per i nobili, ricompensati con cariche civili o militari; per la borghesia mercantile, pronta a riempirsi le tasche ricavando dieci volte  tanto da quanto investito all’origine; per i marinai e i soldati, autorizzati a portarsi appresso a spese dello stato carichi di spezie con i quali integrare la paga; per la Corona, titolare di prerogative lucrose e, più tardi, di un ministero, la Casa da India, dotato di poteri di controllo amministrativo e politico sulle nuove terre e sui traffici.
La ricchezza porta cambiamento. La borghesia consolida il proprio ruolo, la nobiltà toglie la polvere dai propri blasoni, le baruffe sociali si calmano, le asprezze si stemperano. Ma il mare è infido e, sul mare,  non sempre tutto fila liscio. Tempeste e tormente causano frequenti naufragi ( tanto frequenti da produrre una letteratura “ di genere”); gli attacchi  dei corsari pungono come spilli, ma pungono; egiziani e turchi non sembrano avere intenzione di stare a guardare; gli indigeni a volte attaccano e massacrano coloni e  naufraghi. Dove il mare finisce e la terra comincia,  la luna di miele fra  Cristianesimo Induismo e Buddismo non dura  a lungo; la corruzione dilaga, il razzismo imperversa. Ma basta dare un’occhiata alla mappa ai piedi del Padrao dos Descrobimentos a Lisbona per trovare i portoghesi  alle porte dell’Australia, in Cina, in Giappone,  in America del Nord e per capire come nonostante i naufragi e le punture di spillo, le incomprensioni religiose e la corruzione,  il mare, quel mare , sia più che  mai fechado.
L’espansione ha i suoi limiti. Manca, in Portogallo, una classe media abbastanza numerosa da far crescere, come in Olanda, una mentalità veramente mercantile. A molti portoghesi, soprattutto nobili, il concetto di investire per guadagnare di più sembra provenire da Marte.  Preferiscono comprare terre o costruire palazzi.
Ne approfittano veneziani, genovesi, piacentini, tedeschi, fiamminghi : scuciono soldi, rischiano di tasca propria, si aggiudicano  commesse e, col passar del tempo, riducono i portoghesi al rango di semplici trasportatori. I signori del mare, gli orgogliosi  padroni  delle rotte navigano sempre con il vento in poppa, ma dipendono in gran parte dall’andamento del mercato e  da soldi altrui: finché le spezie ( e gli schiavi) si vendono e i capitali non mancano, tutto  a posto. Ma che fare se il mercato cominciasse a fare i capricci e  i rubinetti finanziari si chiudessero? Come reinventarsi un nuovo ruolo e una nuova funzione in Oltremare? Con quali capitali? Con quali obiettivi? Guardare avanti, progettare un futuro e non vivere soltanto un presente, ecco il vero problema del Portogallo all’epoca della sua massima espansione.

Neanche a farlo apposta, i tempi di vacche magre arrivano presto. Gli inglesi e gli olandesi  non danno requie. I secondi, soprattutto. Praticano la guerra da corsa come gli inglesi, ma si infiltrano anche  nelle “zone morte”( le zone senza guarnigioni o insediamenti) del dominio portoghese nel sud-est asiatico, usandole come trampolino di lancio per minacciare quelle “ vive”.
Viene scomodato anche il papa. Gli olandesi- argomentano i portoghesi- non hanno alcun diritto di insediarsi in quelle zone. Sono o non sono luterani e, quindi, eretici? Sua Santità ha affidato idealmente queste terre  a noi perché vi diffondessimo la vera religione, Sua Santità provveda. Poi, visto il silenzio di Roma, danno, invano,  la parola ai cannoni.

Con gli inizi del Seicento la situazione si aggrava. Non sono solo le rotte ad essere minacciate, ma le stesse feitorias e fortalezas   sulla terraferma. Le guerre della Restaurazione, poi, complicano maledettamente il quadro. Il Portogallo è debole, all’interno e all’esterno. Joao IV o Restaurador compie una specie di miracolo, riuscendo a conservare, in tutto quel marasma-grazie anche alle risorse del Brasile- i possedimenti portoghesi in Angola e in Mozambico.
Ma l’India -a parte Goa, Diu e poco altro- cambia di mano. E cambia anche la politica. Non più controllo soltanto delle rotte commerciali, ma, dove si può, controllo del territorio( iniziato, con alti e bassi e con molte cautele, alla “ portoghese”, almeno cinquant’anni prima), non più solo feitorias, ma prazos da Coroa, terre concesse in sfruttamento, quasi all’uso feudale, a nobili o a ricchi borghesi. L’Oltremare- con l’eccezione , forse, del Brasile-  si trasforma così in una sorta di fotocopia del territorio metropolitano e il Portogallo perde un’occasione per uscire dai propri schemi e per rinnovarsi.
Alla fine restano l’orgoglio e il rimpianto, o mar universal e a saudade, per citare  il celebre verso di Pessoa: l’orgoglio di aver compiuto un’impresa epica e quasi al limite dell’impossibile, il rimpianto per la gloria perduta. Riferendosi  a tutti quei navigatori non portoghesi – Os Colombos, i Colombo– entrati nell’immortalità e  di cui il navigatore genovese  è il simbolo,  Pessoa scrive:

Altri otterranno quel che non fu nostro.
Altri  raggiungeranno quel che  noi
nel nostro navigare raggiungemmo
o non trovammo – come  sorte volle. 

Ma a loro mancherà  quella Magia
che sa evocar l’Ignoto e ne fa Storia.
 Nulla di più sarà la loro gloria
di quel  chiarore che, riflesso , emana
da una luce che ad essi fu prestata.

(Fernando Pessoa, Mensagem, Mar Portuguez, Os Colombos)

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Bibliografia

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