Canne prima di Canne.
La vigilia.
Annibale , dunque, è ancora a Gereonio, dove lo abbiamo lasciato e dove ha svernato. I due nuovi consoli, Lucio Paolo Emilio e Caio Terenzio Varrone arrivati nel frattempo, uniscono gli eserciti ( le loro legioni e quelle di Minucio) e si piazzano poco distante da lui, a Larino. Qui pongono il campo, anzi due: il primo, più piccolo, non è molto distante da quello cartaginese ; il secondo, molto più grande, accoglie il grosso delle forze romane. Il Senato e il popolo romano vogliono la battaglia decisiva: è il momento di darsi da fare.
Per i Cartaginesi la faccenda è seria: lì a Larino ci sono due eserciti consolari, affiancati da forti contingenti di alleati italici. Truppe fresche. E tante ( otto legioni, senza contare gli Italici) . Come la prende Annibale? In cuor suo, quasi quasi, ringrazia i Romani di essere arrivati. E di essere arrivati proprio in quel momento. Le provviste scarseggiano, c’è da mangiare solo per una decina di giorni, in cassa non c’è un soldo , il malumore, inutile dirlo, è grande. Se ci sarà da menar le mani, i suoi uomini non avranno tempo di pensare alla pancia e alle tasche vuote. Anzi, vorranno combattere e vincere, per riempirsi l’una e le altre.
La partita comincia. Con le solite mosse di apertura: scaramucce e imboscate. I Romani mettono a segno il primo colpo, togliendo di mezzo, stando a Livio, 1700 soldati cartaginesi , mandati in giro a razziare. I legionari li sorprendono e li attaccano di propria iniziativa. Stanno ancora inseguendo i superstiti quando giunge l’ordine di Paolo Emilio: fermarsi e tornare indietro. Varrone si scaglia contro il collega e lo prende a male parole, accusandolo di essersi lasciato sfuggire un’occasione unica per infliggere pesanti perdite al nemico.
Da quella prima schermaglia – costatagli cara, per altro- Annibale ricava informazioni preziose: i due consoli non si possono vedere, i due terzi dell’esercito romano sono reclute. Aggressive , coraggiose, ma poco esperte e, forse, anche poco addestrate. E, subito, mette in atto la contromossa. Ordina ai propri soldati di abbandonare l’accampamento, lasciando esposto e bene in vista quel poco ben di dio rimastogli: oro, argento, manufatti preziosi.
Tempo prima , per scrollarsi di dosso Quinto Fabio Massimo, aveva fatto tenere i fuochi accesi come se l’accampamento fosse presidiato: i Romani l’avevano bevuta e lui se l’era squagliata. Ora, per rendere più credibile la messinscena, ripropone il medesimo trucchetto. Non che ci creda molto, sia chiaro. Sa che i Romani non sono stupidi e sa che di sicuro avranno imparato la lezione, ma sa anche che , se non lo facesse, desterebbe, ritirandosi, non pochi sospetti. D’altronde non deve andare molto lontano. Quella è una zona collinare, adattissima alle imboscate. Manda sulle alture più vicine i propri soldati e aspetta. Quando i Romani arriveranno per saccheggiare il campo, i suoi scenderanno dalle cime e piomberanno sui nemici. Come al Trasimeno.
Viene l’alba, un’alba insolitamente silenziosa. Il campo cartaginese sembra un campo fantasma: non un grido, non un ordine, non il nitrito di un cavallo, non un uomo. Che diavolo sta succedendo, per Giove? Che sia un trucco? si chiedono, incredule e meravigliate le sentinelle. No, non lo è. Pare proprio che Annibale se ne sia andato in fretta e furia. Vengono informati i consoli, ai quali non viene taciuto il particolare dei fuochi accesi, chiaro stratagemma – per giunta caro ad Annibale – usato da chi voglia svignarsela alla chetichella e in tutta sicurezza.
Varrone si agita, urla, vorrebbe levare le insegne e inseguire subito il nemico. Sembra, dice Livio, un soldato qualunque, non un console. Paolo predica prudenza, ma si trova in minoranza. Ottiene, tuttavia, che un suo ufficiale, Marco Statilio, alla testa di un drappello di cavalieri lucani vada a dare un’occhiata. Così, tanto per stare sul sicuro. Statilio non tarda a rendersi conto che qualcosa non quadra. Gli oggetti preziosi sono stati lasciati bene in vista a bella posta, le tende sono aperte perché chi passa possa vederne l’interno, i fuochi non sono stati accesi dappertutto, ma solo nella zona più vicina al nemico. Statilio torna e riferisce.
Non appena i legionari sentono parlare di oggetti preziosi e di bottino, anziché preoccuparsi di una possibile imboscata, si agitano e vogliono muoversi. Da soli, se nessuno vorrà comandarli. Un comandante, tuttavia, lo trovano subito. Chi? Non c’è bisogno di dirlo: Varrone in persona. La trappola preparata da Annibale, dunque, è sul punto di scattare.
Per fortuna dei Romani, a togliere le castagne dal fuoco ci pensano alcuni pennuti inappetenti. Con le legioni, infatti, viaggiavano sempre dei comuni polli da cortile, resi, per l’occasione, sacri. Prima di attaccare battaglia si gettava loro del becchime: se avessero mangiato di buona voglia, allora si sarebbe vinto; in caso contrario, meglio soprassedere e aspettare tempi migliori.
Paolo manda a dire a Varrone che i polli sacri, quel giorno, non ne avevano voluto sapere di mangiare. E’ come se gli stesse dicendo “ Dammi retta, collega, ascolta almeno gli dei : ferma tutto e aspetta” . Varrone sarà anche impulsivo, testardo e, stando a Livio, anche ottuso, ma non è sacrilego. E, soprattutto, ha buona memoria. Flaminio non era stato forse sconfitto al Trasimeno- almeno così si diceva- per non aver tenuto nella giusta considerazione gli dei? E che dire di Claudio Pulcro? Durante la prima guerra contro i Cartaginesi non aveva forse attaccato battaglia nonostante i polli si fossero rifiutati di beccare le granaglie? Li aveva scaraventati in acqua, dicendo: “ Non vogliono mangiare? Che bevano, allora!” E come era andata a finire quella storia? Nell’unico modo possibile: Claudio le aveva buscate e buscate di brutto.
Con gli dei non si scherza, insomma. Varrone è colto da scrupoli e si rimangia la parola. Contrordine, soldati : si resta nell’accampamento. Bella figura davvero, dice il nostro Tito Livio. E che razza di comandante ci è toccato! Prima impartisce un ordine e, poi, subito dopo, lo annulla; prima smania e urla e poi , subito dopo, assume l’atteggiamento contrario. I soldati le colgono queste cose, eccome se le colgono. Se vuoi perdere autorevolezza con i tuoi sottoposti, sembra dire Livio, comportati come Varrone.
I legionari , comunque, non ne vogliono sapere di restare nell’accampamento. Ma come- pensano- abbiamo la possibilità di arraffare, senza colpo ferire, un ricco bottino e dobbiamo starcene qui, rintanati e del tutto inattivi? Rumoreggiano di nuovo e , di nuovo, la situazione si fa critica. Ma è destino che quel giorno gli dei abbiano scelto di stare con i Romani. Certamente per differirne la rovina, visto che gli dei, come è stato scritto da Tacito, provano gusto a prendersi gioco degli esseri umani. Nel campo romano arrivano due schiavi fuggiaschi. Catturati tempo prima dai Cartaginesi e trascinati in giro per mezza Italia, approfittando della confusione sono riusciti fortunosamente a svignarsela dal campo di Annibale. Le loro parole tagliano la testa al toro: quella di Annibale è tutta una finta: se le legioni avanzeranno è pronto un secondo Trasimeno.
I consoli sono costretti a fermarsi. E, fermandosi, mandano a carte quarantotto il piano cartaginese e , paradossalmente- massimo risultato con il minimo sforzo- rimettono Annibale nei guai. Come farà, ora, a nutrire i suoi uomini? Come li pagherà? Come arresterà il malcontento e la voglia di defezionare di alcuni dei suoi? Sentite che cosa scrive Livio: Annibale, visto andare in fumo il suo piano, non ne può più , è giù di corda, è sul punto di cedere e accarezza, come già aveva fatto qualche tempo prima, l’idea di tornarsene in Gallia in attesa di tempi migliori.
Verso Canne.
I tempi- e le condizioni- migliori Annibale, invece, non se li va a cercare in Gallia, ma molto più a sud, in quelle parti dell’Apulia dove il clima è mite, il grano matura prima e i magazzini sono pieni. Vuole mettere un po’ di strada fra sè e il nemico e, così, ancora una volta , nottetempo, fa ravvivare i fuochi e se la svigna alla chetichella. Ne è certo: scottati dalla precedente esperienza ( quella, per intenderci, rivelata in tutta la sua pericolosità dai polli prima, dagli schiavi fuggiaschi, poi), i Romani si sarebbero chiesti se anche quella messinscena non fosse tutto un inganno per attirarli in un’ennesima trappola e ci sarebbero andati coi piedi di piombo, regalandogli un po’ di respiro.
Non si sbaglia. Statilio viene mandato di nuovo in avanscoperta e ancora una volta fa un buon lavoro. Questa volta, però, non ci sono inganni: Annibale se n’é andato sul serio. L’ha visto egli stesso, da lontano, alla testa dell’esercito in marcia.
Scappa, pensano Varrone e la maggior parte degli ufficiali superiori, si è reso conto di quanto siamo forti, ci teme, è debole. Bisogna stargli dietro e non dargli tregua. Paolo Emilio, invece, predica calma e prudenza, ma la sua è la voce di chi predica nel deserto. Paolo non è un vigliacco o un attendista a tutti i costi: vuole combattere, ma senza regalare vantaggi ad Annibale . Lo ascoltano in pochi. Servilio Gemino, ex collega di Flaminio, è uno di questi. Servilio, per averlo constatato di persona, sa di che lana va vestito Annibale. Quello è una vecchia volpe, dalle mille risorse e dalle mille insidie, dice. Se gli diamo un vantaggio, anche minimo, siamo perduti. Andiamoci piano, stiamo attenti, non facciamoci prendere dalla fretta, osserviamo, valutiamo e aspettiamo. Il tempo è il nostro migliore alleato.
Niente da fare, a spuntarla è Varrone. Così, “ sotto l’incalzare del destino”( urgente fato) , le magnifiche legioni di Roma, si mettono in marcia “ per rendere Canne famosa” con il loro sangue ( “ ad nobilitandas clade Romana Cannas) .
A Canne.
L’attesa.
Annibale si sistema, dunque, nei pressi di Canne e si mette in favore di vento. Un vento- il Volturno, lo chiama Livio – particolarmente fastidioso perché, di solito, solleva e porta con sé nubi di polvere dai campi riarsi. I consoli non tardano a raggiungere il Cartaginese e, ancora una volta, come avevano fatto nei pressi di Larino, fanno costruire due accampamenti fortificati: anche qui, il primo è più piccolo, il secondo più grande. Il fiume Ofanto ( Aufidus) , scorre nei pressi e così i Romani non hanno problemi a rifornirsi d’acqua. Rispetto a quello grande, il campo più piccolo è posto sull’altra riva dell’Ofanto.
Annibale capisce che butta bene: quel luogo è adatto alla cavalleria e la sua è imbattibile. E lo sterminato esercito romano? Ci scherza su. Quando un suo ufficiale, un certo Giscone , alla vista del nemico, si meraviglia e sembra farsela sotto davanti a tanta potenza, se ne esce con una battuta. “ Sai che cosa desta meraviglia ? Il fatto che là, in quel campo, non c’è nessuno che si chiami Giscone come te ”. Chi lo sente ride. La battuta corre di bocca in bocca e i suoi soldati, prima un po’ giù di corda, nel vedere il loro comandante così sereno e di buonumore si rinfrancano. Annibale passa dalle battute ai fatti e provoca i Romani , schierando il suo esercito in formazione di battaglia e mandando avanti Maarbale e i suoi imprendibili Numidi.
Nel campo romano c’è tensione: i due consoli, tanto per cambiare, sono in disaccordo. Varrone vuole accettare battaglia, Paolo non ne vuole sapere( non lì e non ora, almeno) e ricorda la temerarietà di Flaminio, costata cara alle armi romane. L’altro ribatte indicando Quinto Fabio Massimo come esempio di fiacchezza e di codardia. “ E’ forse colpa mia se Annibale è padrone di mezza Italia, visto che nessuno ha avuto e ha il fegato di affrontarlo una volta per tutte? E’ colpa mia se i soldati hanno voglia di combattere e qualcuno, con il suo atteggiamento troppo prudente , rende spuntate le loro armi e inutile il loro coraggio?”, urla Varrone. Paolo Ribatte : “ Sarà mia forse la colpa se le legioni saranno distrutte in una battaglia sconsiderata? No di certo, ma io so qual è il mio dovere e , se si dovesse dare battaglia, non mi tirerò indietro, anche a costo della vita. Vogliano gli dei che, in combattimento, le spade siano più svelte delle lingue che, con tanta forza, ora sostengono la necessità di battersi!”.
Nel campo romano il giorno si consuma dunque in discussioni più che in decisioni. Annibale, invece, pensa all’azione e cambia tattica. Visto che i Romani, davanti alle sue provocazioni, fanno i pesci in barile , scioglie lo schieramento e manda la di là dell’Ofanto un drappello di Numidi a dar fastidio ai nemici intenti a fare provvista d’acqua. La sortita ha successo, i Romani battono in ritirata e i Numidi, non paghi, attaccano un posto di guardia, proprio davanti al vallo. Questo no, questo non possiamo accettarlo! Cavalieri barbari- poco numerosi per giunta- fanno quello che vogliono, ci prendono per i fondelli e minacciano il nostro accampamento! Varrone pretende il comando, ma Paolo- era il suo turno- non ne vuole sapere . E non si muove.
La battaglia.
Ma il giorno successivo tocca a Varrone. Al primo sorgere dell’alba, vengono alzate le insegne e ci si prepara a combattere. Consultare Paolo? A che pro? Per sentirsi ripetere nuovi inviti alla cautela e alla prudenza? Non ne vale la pena.
Il grosso dell’esercito romano passa così l’Ofanto e si porta sull’altra riva ( la destra?). C’è anche Paolo Emilio, naturalmente: non condivide la scelta del collega, ma non può, per questo, tradire se stesso e la propria lealtà alle istituzioni di Roma . Al di là del fiume le forze romane provenienti dai due accampamenti si ricongiungono e, a questo punto, l’esercito si schiera in ordine di battaglia. L’ala destra dello schieramento, quella più vicina al fiume, è assegnata ai cavalieri romani, l’ala sinistra ai cavalieri italici, il centro alle legioni, precedute dai lanciatori di giavellotto. Varrone comanda l’ala sinistra, Paolo Emilio la destra, Servilio il centro.
Annibale schiera davanti al nemico i suoi cinquantamila uomini ( quarantamila fanti e diecimila cavalieri, secondo Livio, più probabilmente, meno di quarantamila). In prima linea ci sono i frombolieri delle Baleari e i soldati armati alla leggera, poi il grosso dell’esercito. I cavalieri galli e ispanici si posizionano all’ala sinistra dello schieramento, di fronte all’ala destra romana; i Numidi prendono posto, con compiti di contenimento, all’ala destra( in faccia all’ala sinistra dei romani e, quindi, a Varrone); al centro viene schierata la fanteria, composta da mercenari galli e ispanici, affiancata , senza soluzione di continuità e da entrambi i lati , da reparti di veterani cartaginesi. L’ala sinistra è comandata da Asdrubale, l’ala destra da Maarbale, il centro dallo stesso Annibale e dal fratello Magone. Il campo sembra occupato da un unico esercito: i cartaginesi, con indosso le armature tolte ai nemici sconfitti nelle battaglie precedenti, potrebbero essere scambiati per soldati romani.
C’è chi è diverso, però. I Galli, nudi dalla cintola in su, alti da far paura, brandiscono minacciosi le loro lunghe spade da taglio senza punta; gli Ispanici, vestiti di candide tuniche di lino orlate di porpora, impugnano le loro, corte e affilatissime. Nessuno dei due contendenti ha il sole negli occhi, ma il vento, il fastidioso e impetuoso Volturno, manda verso i Romani nugoli di polvere. I legionari ne sono disturbati e ci vedono male.
Quel che successe è noto. La battaglia di Canne è stata studiata e ristudiata, imitata e ammirata, descritta e raccontata, ricostruita infinite volte e sezionata, infinite volte, nei particolari. Si è discusso e forse si discute ancora su quale riva dell’Ofanto ( o del Fortore…) – la destra o la sinistra- essa sia stata combattuta ; si è discusso e forse si discute ancora sul giorno in cui essa fu combattuta ( il 2 agosto? In giugno?) , sul numero dei caduti, sulla consistenza dei rispettivi eserciti. Insomma, quella battaglia non finì nella pianura di Canne in quel lontano 216 a.c.
Né rimase soltanto argomento per studiosi. Quando, alla vigilia della prima guerra mondiale, il conte Alfred von Schlieffen, capo di stato maggiore dell’esercito imperiale tedesco, preparò il suo piano di invasione della Francia pensò – ispirandosi alla battaglia di Canne- a una manovra di accerchiamento realizzata su vasta scala; a Stalingrado, nel ’42, Zukov e Vassilievskij si vantarono di aver riproposto, ai danni della Sesta armata di Paulus, la manovra di Annibale; ancora oggi, in quasi tutte le accademie militari del mondo, la battaglia di Canne è materia di studio.
Canne ha fatto scuola, dunque. E magari continuerà a fare scuola chissà per quanto tempo ancora. Molti ne hanno scritto, antichi e moderni. Il professor Giovanni Brizzi su Annibale sa tutto e forse anche qualcosa di più; Tito Livio, Polibio , Plutarco, Diodoro Siculo hanno detto la loro tanto tempo fa e non hanno ancora smesso di dirci qualcosa; Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, un paio d’anni fa ha inseguito per l’intera Penisola l’ombra di Annibale. Leggete quello che hanno scritto, ne vale la pena.
Riportiamoci a Canne. Annibale, al centro, schiera la sua fanteria ad arco convesso( a mezzaluna, dice Polibio), cioè con una “ gobba” sporgente verso il nemico. I suoi fanti migliori, i veterani africani, non li mette, come abbiamo visto, in mezzo alla gobba , ma ai lati , in posizione arretrata. I Romani avanzano e premono sul centro. Lì si trovano Annibale e Magone , lì si trova , secondo loro, il punto debole del nemico. I Galli seminudi e gli Ispanici dalle candide tuniche subiscono l’urto e arretrano. Lentamente , però, e senza scompaginarsi. A mano a mano che il centro cartaginese arretra, l’arco iniziale( la “ mezzaluna”) da convesso diventa concavo. I Romani continuando a premere al centro, si spingono in profondità venendo a contatto con i veterani africani posizionati, come abbiamo visto, ai lati dei Galli e della fanteria iberica. E , a questo punto, scatta la trappola . Gli Africani operano una conversione verso il centro, portandosi prima sui fianchi, poi alle spalle dei Romani. La cavalleria cartaginese- vittoriosa sulle ali- completa l’opera, chiudendo il cerchio.
Un doppio, magistrale accerchiamento: ecco, in estrema sintesi, quel che successe a Canne il 2 agosto del 216 a.c. Sopraffatti dalla loro stessa calca ( molti morirono soffocati), i legionari non furono in grado di reagire, di muoversi dentro quel cerchio mortale – sottile, ma sempre più stretto- e furono annientati.
A ciascuno il suo.
E i due consoli? Lucio Paolo Emilio comanda , come abbiamo visto, l’ala destra dello schieramento romano. Non è fortunato. Colpito quasi subito da un proiettile di fionda, viene ferito seriamente. In più, lì dove sono schierati i suoi, c’è poco spazio per manovrare e i cavalieri combattono praticamente da fermi. Benché ferito, Lucio Paolo Emilio non si tira indietro. A un certo punto, tuttavia commette un errore fatale: fa smontare i suoi e, così facendo, li consegna su un piatto d’argento ai nemici. A nulla valgono il coraggio e la determinazione dei legionari, a nulla l’incitamento e l’esempio di Paolo: la cavalleria cartaginese li spazza via.” E’ come se me li avessero consegnati legati mani e piedi”, commenterà Annibale.
Chi è in grado di farlo si mette alla disperata ricerca di una cavalcatura per togliersi alla svelta da quell’inferno. Pochi ci riescono e, fra questi, il tribuno militare Lentulo. Il tribuno salta in groppa all’animale e , mentre cerca di allontanarsi, vede il console. E’ accasciato sopra un sasso, solo, coperto di sangue. Gli si avvicina e gli offre il cavallo. Paolo rifiuta. Non pensa a se stesso, pensa a Roma: “ Vattene di qui alla svelta, tu che puoi ancora farlo. Va’ a Roma, avverti i senatori che facciano rafforzare le difese dell’Urbe prima dell’arrivo di Annibale. Cerca Quinto Fabio Massimo e digli che Lucio Paolo è vissuto e muore memore dei suoi insegnamenti”. E poi aggiunge: “ Per parte mia, preferisco morire oggi, qui, insieme a tanti valorosi soldati mandati inutilmente al macello. Eviterò, così, di essere accusato di aver pensato a me stesso e non a loro o, peggio, non sarò costretto ad accusare un collega per affermare la mia innocenza”. Queste nobili parole precedono di poco la fine. Arriva un drappello di Cartaginesi: i soldati non riconoscono il console e lo finiscono . Lentulo vorrebbe intervenire in sua difesa, ma il cavallo, spaventato, gli prende la mano e lo trascina altrove.
E Varrone? Non si hanno sue notizie durante la battaglia. A un certo punto lo vediamo arrivare, sano e salvo, a Venosa in compagnia di cinquanta cavalieri. Livio nel raccontarci l’episodio è perfido. Doppiamente perfido. Il console, scrive, si è tenuto alla larga dagli altri fuggitivi, evitando di attirare l’attenzione del nemico: per caso ( forte) o per calcolo deliberato( consilio)? E rincara la dose: a Canne appena cinquanta seguirono il console che fuggiva, gli altri, tutti gli altri, furono con il console che moriva.( Ad Cannas fugientem consulem vix quinquaginta secuti sunt, alterius morientis prope totus exercitus fuit ). Ci si mette anche Polibio: due righe e un aggettivo bastano a definire Varrone: ignobile. E Paolo? Basta leggere la sua esortazione alle truppe- nobile ed elevata- per capire la differenza fra i due.
Dunque, due uomini- e con essi due mondi- a confronto. Uno, Paolo, è nobile e fiero, l’altro, Varrone, arruffapopolo e sconsiderato; uno è coraggioso e leale, l’altro vile e sfuggente; uno pensa alla patria, l’altro a se stesso; uno sacrifica la propria vita, l’altro la salva in maniera poco chiara; uno personifica la virtus romana, l’altro il suo contrario. Di certo, se volevano dare addosso a qualcuno , Livio e Polibio non potevano essere più espliciti.
Canne dopo Canne.
Campo di battaglia, il giorno dopo.
Il campo di battaglia offre uno spettacolo terribile. Dappertutto ci sono morti e moribondi, uomini sfigurati da tremende ferite, soldati con i femori spezzati e i tendini recisi , cavalli agonizzanti. Lì, secondo Livio, giacciono, privi di vita, quarantottomila legionari romani ( settantamila secondo Polibio). E tanti personaggi illustri: i due questori dei consoli, ventinove tribuni militari- molti dei quali ex consoli o ex pretori- ottanta senatori, il console Servilio e l’ex magister equitum di Fabio Massimo, Minucio Rufo.
Fra tutti quei morti c’è un Numida ancora vivo. Respira a fatica. Ha le orecchie e il naso mozzati. Sopra di lui giace un soldato romano privo di vita: prima di spirare , quel soldato romano, rimasto senza le armi, ha cercato di ucciderlo a morsi!
Dopo una battaglia persa, non c’è niente di più terribile di una battaglia vinta.
Campo di Annibale, la sera del trionfo.
Nel campo di Annibale l’euforia è alle stelle. “Ora!” esclama Maarbale “ Ora! Mandami avanti, ti spianerò la strada per Roma. Fra qualche giorno potrai cenare sul Campidoglio”. Calma, risponde Annibale, calma. Non è ancora il momento. “E’ vero”, commenta Maarbale, deluso “ Gli dei non concedono mai tutto a un’unica persona: tu sai vincere , Annibale, ma non sai approfittare della vittoria”.
Frase famosa , quasi quanto quella del duca di Wellington, dopo Waterloo, sulla battaglia vinta. Ma perché Annibale, dopo Canne, non puntò dritto su Roma? E’ stato scritto: perché Roma era imprendibile, difesa com’era da solide mura( vero); perché avrebbe potuto mobilitare alla svelta altre legioni( vero); perché i Cartaginesi non avevano né i mezzi né le possibilità per condurre, con speranza di successo, un assedio prolungato ( vero). E’ stato anche scritto: Annibale non puntò su Roma, perché il suo scopo non era la distruzione della città eterna, ma il riconoscimento delle richieste cartaginesi. Insomma, il ripristino dello status quo ante: libertà di navigazione e di commercio, riconoscimento dell’influenza punica su determinate zone.
E, in effetti, dopo aver inviato il fratello Magone a Cartagine con un moggio di anelli presi ai caduti romani a Canne ( e Magone li rovescerà davanti ai senatori esterrefatti…. ), Annibale prova a sondare il terreno. Stabilisce il prezzo del riscatto dei prigionieri e ne manda alcuni a Roma. “ Ascoltatemi bene” dice loro” Cartagine non vuole nient’altro che il riconoscimento dei propri diritti”. Insomma, fa capire di essere disposto a trattare.
Accampamenti romani, la sera della sconfitta.
Negli accampamenti romani hanno trovato rifugio pochi soldati sfiduciati, molti senza armi, tutti senza ordini. Uniamo le forze, mandano a dire dal campo più grande, raggiungeteci e, insieme, cercheremo di arrivare a Canosa. I destinatari del messaggio- i soldati del campo più piccolo- hanno paura, non vogliono uscire. Lì, tutt’intorno a loro, ci sono solo nemici. Venite voi da noi, se proprio ci tenete, rispondono.
“E voi sareste soldati romani? Voi che, per paura di battervi, preferite cadere nelle mani del nemico ed essere da lui umiliati una volta di più? Avete dimenticato il console Paolo? Ha scelto una morte da valoroso, preferendola alla vergogna. Avete dimenticato i vostri commilitoni, caduti da eroi sul campo? Siete ancora legionari romani, per Giove! Prendete le armi e seguitemi. Ce la faremo”.
Chi parla è Sempronio Tauditano, tribuno militare, scampato al massacro e riparato nel campo più piccolo. Alcuni si lasciano convincere, impugnano le armi , compiono una sortita. Il nemico non se l’aspetta ed è colto di sorpresa. Quando si riorganizza, è tardi: Tauditano e i suoi sono ormai lontani e ce la fanno ad arrivare a Canosa. Dove, nel frattempo, si sono radunati anche altri soldati ( quattromila circa ), usciti dal campo più grande.
Chi non se ne va – o perché non ha il coraggio di andarsene o perché privo di forze- non ha scampo. Il giorno dopo Annibale arriva e, quasi senza colpo ferire, si impadronisce dei due accampamenti e di un ricco bottino.
Roma, i giorni seguenti la battaglia.
Roma è come se stesse vivendo un incubo : nessuno ce l’ha fatta, dicono le notizie, le legioni sono state annientate. Annibale non tarderà a presentarsi davanti alle nostre mura. Peggio che all’Allia: allora, sotto la pressione dei Galli, l’esercito se l’era squagliata, ma almeno era riuscito a mantenersi ( quasi) integro; dopo Canne , l’esercito non esiste più.
Si consultano, come in tutte le situazioni di estremo pericolo, i Libri Sibillini. E, subito dopo , si passa all’ azione. Prima si pensa agli dei: due coppie di giovani, una greca , l’altra gallica , vengono sepolte vive per placarne l’ira. Poi si cerca di fare il possibile sul piano militare e su quello dell’ordine pubblico: si rinforzano le difese, si arruolano anche gli schiavi, si tiene a bada la folla , si impone una sorta di lutto cittadino, anche per evitare disordini. Arriva una lettera di Varrone: è a Canosa , intento a raccogliere e a riorganizzare i superstiti. Alle porte di Roma, ad portas, dove la paura lo materializza a ogni ora del giorno, di Annibale nemmeno l’ombra.
Arrivano, invece, i prigionieri di Canne, inviati da Annibale per discutere il riscatto. Vengono ascoltati, ma, nonostante in Senato ci siano pareri discordi, l’offerta viene respinta. Perché non avete fatto come Sempronio Tauditano? Perché non vi siete uniti a lui? Il vostro non è un comportamento degno di un romano. E via di questo passo. Il senato non intende riscattare alcun prigioniero, perché, se lo facesse, riconoscerebbe la vittoria di Annibale, frutto dell’inganno e del disprezzo delle regole.
Ora è chiaro: Roma non può e non vuole trattare. Brutto guaio, per Annibale.
Canosa, prima dell’arrivo del console Varrone.
C’è una gara di solidarietà per aiutare i legionari scampati al massacro. A Canosa una nobile matrona di nome Busa, paga di tasca propria cibo e indumenti per gli scampati; a Venosa la popolazione si adopera per alleviare le sofferenze degli sconfitti. I reduci di Canne vengono rifocillati, rivestiti, alloggiati.
Qualcuno però, a Canosa, pensa di tagliare la corda. Un giovane tribuno militare, Publio Cornelio Scipione, non appena lo viene a sapere, si precipita nella tenda dove molti giovani di nobile famiglia parlano di andarsene per mare a chiedere asilo- chissà dove- a qualche re amico dei Romani. Sguaina la spada: “ Di qui, non si muove nessuno” intima “ Non me ne andrò io, non ve ne andrete voi. Nessuno, a cominciare da me, dovrà abbandonare Roma nel momento del pericolo. E questo giuro, qui, davanti agli dei. Chi non mi seguirà nel giuramento , sappia che questa spada sarà usata contro di lui.”
Nessuno fiata, nessuno pensa più di andarsene. Qualche anno dopo, quel giovane tribuno si fregerà dell’appellativo di “ Africano”.
Epilogo.
I legionari scampati al massacro di Canne portarono per sempre il marchio dell’infamia . Conosciuti con l’appellativo di legiones cannenses, furono spediti in Sicilia con compiti non operativi e colà rimasero, quasi dimenticati, per tutta la durata della guerra.
Il console Varrone, il principale responsabile del disastro di Canne secondo Livio, fu accolto benevolmente al suo ritorno a Roma e gli furono rese grazie “perché non aveva perso le speranze nella salvezza dello stato”( Quod de re publica non desperasset).
Annibale, dopo Canne, vagò, facendo proseliti, un po’ qui e un po’ là nell’Italia meridionale e puntò alla fine su Capua, con l’intento di farne un’anti – Roma. Non ci riuscì.
Si dice che una volta, quasi in incognito, avesse raggiunto Roma e , per rabbia o per scherno, avesse lanciato oltre le mura un giavellotto con la punta infuocata.
Se davvero andò così, quella fu l’unica arma cartaginese a conficcarsi sul suolo dell’Urbe.
Da leggere:
Massimo Bocchiola, Marco Sartori, Canne : descrizione di una battaglia, Mondadori, 2008
Giovanni Brizzi , Annibale : come un’autobiografia, Rusconi, 1994.
Giovanni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario : gli eserciti nel mondo classico. Il Mulino, 2002
Giovanni Brizzi, Scipione e Annibale : la guerra per salvare Roma, Laterza, 2009
Cornelio Nepote, Vite scelte: Milziade, Aristide, Annibale, Catone, Attico, Signorelli
Gaetano De Sanctis, L’ età delle guerre puniche, La Nuova Italia, 1970
David Anthony Durham, Annibale, Piemme, 2006.
Gustav Faber, Sulle orme di Annibale, Garzanti, 1988.
Gianni Granzotto, Annibale, Arnoldo Mondadori, 1991.
Tito Livio, Storia di Roma , Mondadori, 2007
Polibio, Le Storie, Mondadori, 1955
Paolo Rumiz, Annibale : un viaggio, Feltrinelli, 2008.
Su questo sito puoi leggere anche:
Il sangue e la nebbia 217 a.c.: Lago Trasimeno: le legioni del console Flaminio nella trappola di Annibale.
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Supermarius. Il crepuscolo della Repubblica Romana fra guerre, disordini sociali e corruzione.
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L’equivoco. Si va verso Canne fra buoi dalle corna infuocate , parole capite male e smania di combattere.
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Le cartine sono tratte da Wikipedia.
Guarda il filmato( tratto dalla nota trasmissione televisiva Ulisse, il piacere della scoperta). Ricorda: Annibale a Canne non aveva più elefanti: l’ultimo, il ” valoroso” ( definizione di Plinio il Vecchio) Surus, era morto l’anno prima.
Sotto il titolo: ” Morte di Lucio Paolo Emilio a Canne” dipinto di John Trumbull(1756-1843). Cit. da Wikipedia.