Il gatto e la balena

16/01/2014

Angelita di Anzio

Prologo

Il bombardamento durò a lungo. Violento, devastante e incessante come al solito. Niente fu risparmiato. Non gli ospedali da campo, non le “ tane di volpe” dove gli uomini vivevano rannicchiati, non le linee avanzate. Quando i cannoni smisero di sparare, il sergente Sidney Gillian, Prima divisione corazzata, si gettò in ginocchio, levò gli occhi al cielo e pregò. “ Dio, aiutaci!” disse “ Ma vieni di persona. Non mandare tuo figlio: non è un posto per bambini, questo.”

Il caporale Christopher S. Hayes, Royal Scots Fusiliers, Secondo battaglione, Compagnia A, toccò le spiagge dello sbarco poco dopo le due del mattino. Si era quasi alla fine di gennaio. Non faceva molto freddo. Un breve ma violento bombardamento aveva sconvolto il litorale e l’entroterra poco prima dello sbarco . Una volta a terra, gli Scots avanzarono nel buio fra mucchi di rovine, i nervi tesi, il dito sul grilletto dei  loro Enfield. Del nemico nessuna traccia. Sul fare dell’alba arrivò un ufficiale e indicò l’obiettivo, illuminando con la sua torcia elettrica un punto sulla mappa militare: un bosco in direzione della località di Carroceto. Qui gli Scots avrebbero dovuto riunirsi e procedere verso l’interno.
La pattuglia si era appena messa in  movimento verso il nuovo obiettivo, quando Hayes udì qualcosa. Era una specie di lamento, un singhiozzo soffocato e ripetuto. Il verso di un animale ferito? Il rantolo di un moribondo? Non veniva da molto lontano.  Avanzando con la massima cautela, il fucile spianato, Hayes andò a vedere.
Non era un posto per bambini quello. Eppure in quel posto un bambino c’era. Anzi, una bambina. Avrà avuto cinque o sei anni. I suoi occhi azzurri erano pieni di lacrime. Singhiozzava. Sul suo vestitino nero  era ricamato un nome: Angelina Rossi.
Il caporale Hayes la prese in braccio e fece ritorno dai compagni.

Il gatto selvaggio.

La campagna d’Italia divideva, non univa gli Alleati. Gli americani ne avrebbero volentieri fatto a meno, i britannici non volevano rinunciarvi. I primi puntavano tutto su  Overlord , i secondi scommettevano sul cedimento del “ventre molle” dell’Asse; i primi guardavano alla Normandia,  i secondi  alla sella di Lubiana; i primi volevano entrare in Germania dalla porta principale, i secondi da quella di servizio.
Churchill la vedeva così: la Gran Bretagna doveva continuare a governare i mari, Mediterraneo compreso. E doveva fare il possibile per mettere un piede nei Balcani e in Austria prima dei sovietici. La via più breve per ottenere questi obiettivi era, secondo lui, quella che portava a Roma. Brigò, trattò, fece la voce grossa, mise in campo tutta la sua arte oratoria e la sua capacità di convincimento, approfittò della partenza di Eisenhower verso Overlord per aumentare l’influenza britannica all’interno del comando alleato nel Mediterraneo e, anche se in parte,  la spuntò. Gli americani cedettero, ma ad alcune condizioni. La più importante: combatteremo in Italia, ma solo per tenere lontano dalla Normandia il maggior numero possibile di soldati tedeschi. Traduzione: scordatevi Lubiana e mettetevi bene in testa questo: il “ventre molle” dell’Asse non diventerà mai il fronte principale.

Di “molle” l’Italia aveva poco. Almeno in quei giorni.  Il Paese del sole per antonomasia era flagellato dalle piogge, spazzato dal vento, allagato da fiumi in piena. Il fango rallentava l’avanzata, una geografia impossibile bloccava i carri armati. E si era solo in autunno. Figurarsi in inverno. In più i tedeschi non se n’erano affatto andati dall’Italia centro- meridionale. Anzi. Combattevano e avrebbero combattuto metro per metro, prima di ritirarsi dietro la Linea Gotica. Avevano combattuto dietro la  Linea Bernhardt, per superare la quale gli Alleati avevano pagato un altissimo tributo di sangue; avrebbero combattuto dietro la formidabile Linea Gustav imperniata sulla cittadina di Cassino e sulle alture circostanti. Arrivare a Roma sarebbe costato sangue e tempo. Bisognava trovare alla svelta una soluzione. Più il tempo passava, infatti, più Lubiana si allontanava.

A uno sbarco sul litorale laziale per bypassare la Linea Gustav si era pensato già nell’autunno del 1943. L’idea originaria di sbarcare una sola divisione a Anzio per appoggiare l’avanzata della Quinta armata oltre Cassino e verso Roma era stata subito scartata. Mancava la condizione fondamentale, vale a dire il superamento della linea Gustav. Qui, infatti, l’esausta Quinta armata del generale Mark W. Clark  non faceva progressi.
Lo stallo, tuttavia, si sarebbe potuto superare attuando un’operazione coordinata per impegnare i tedeschi su tre fronti: Montgomery avrebbe dovuto attaccare nella zona di Pescara, Clark nelle valli del Liri e del Sacco verso Frosinone e una forza anfibia, supportata da truppe paracadutate, sbarcata a sud di Roma, avrebbe dovuto puntare verso i Colli Albani. Obiettivo: costringere i tedeschi a disperdere le proprie forze, indebolirne le difese  e mettere in crisi le loro linee di comunicazione. Se i tedeschi avessero richiamato truppe dalla Linea Gustav per fronteggiare lo sbarco, Clark avrebbe potuto sfondare a Cassino; se non lo avessero fatto, la forza da sbarco avrebbe potuto puntare su Roma, minacciando i tedeschi di accerchiamento; se, infine, i tedeschi avessero scelto di combattere sia a Cassino sia nella zona dello sbarco avrebbero dovuto per forza di cose richiamare truppe da altri fronti, alleggerendoli. O, almeno, così si ragionava nel Quartier Generale alleato.
L’idea era stata di Alexander , comandante in capo delle operazioni in Italia. Clark prima l’aveva accettata,  poi, intorno al 20 dicembre,  l’aveva lasciata cadere. Montgomery era bloccato nella valle del Sangro, mancavano mezzi da sbarco a sufficienza, la linea Gustav non era stata neppure scalfita, Frosinone era più lontano della luna, l’intera operazione aveva tutta l’aria di essere  una stramaledetta trappola. A che pro sbarcare altri uomini  ora?
Ma Clark e compagnia non avevano fatto i conti con Churchill. Dal Marocco dove si stava curando una brutta polmonite, il grintoso sir Winston resuscitò il piano, lo impose ai riluttanti alleati col nome in codice di Shingle, riuscì addirittura a farsi assegnare  gli indispensabili mezzi da sbarco ( impresa non da poco con Overlord in fase di preparazione) e si apprestò a liberare sulle spiagge del Lazio un feroce “gatto selvaggio”. Secondo lui, i generali pensavano troppo  ai rifornimenti e al rancio per le truppe: adesso dovevano dare la parola alle armi, sfruttare quell’occasione e darci dentro. Quando conobbe tutti i dettagli dell’operazione, con l’abituale ironia, si rivolse ad Alexander dicendogli: “ Dopo tutti quei camion, generale, veda di mettere a terra anche qualche soldato di fanteria. Per fare la guardia ai camion, se non altro”.

La patria di Nerone.

Nella baia di Napoli e nel porto di Castellamare c’è un gran via vai di imbarcazioni, di uomini e di mezzi all’ombra di un Vesuvio insolitamente irrequieto. Nei giorni precedenti , a Salerno,  erano stati effettuati sbarchi di prova, testata l’affidabilità di uomini e di equipaggi. Non tutto era filato liscio, ma ormai non si poteva più tornare indietro. Il 21 gennaio, alle cinque del mattino, cinquantamila uomini e più di cinquemila veicoli caricati sui mezzi da sbarco e sulle navi prendono il largo, direzione Capri. Perché Capri? Per evitare le mine disseminate in mare e per gettare fumo negli occhi ai tedeschi circa la vera destinazione di quel viaggio. A dire la verità, di ingannare il nemico non ci sarebbe neppure bisogno. Kesselring ha ricevuto una comunicazione dall’OKW, l’Alto Comando della Wehrmacht: non ci sono sbarchi alleati all’orizzonte. Almeno nei mesi invernali.  È una cantonata colossale, ma gli Alleati ne ignorano l’esistenza.
Davanti a tutti navigano i cacciamine; sui fianchi incrociatori e cacciatorpediniere per tenere alla larga eventuali sommergibili. A bordo gli uomini ingannano il tempo e cercano di tenere sotto controllo l’ansia e l’inquietudine giocando a carte, verificando le armi, scrivendo  o leggendo. Sopraggiunge l’oscurità. Le navi cambiano bruscamente rotta e si dirigono verso est. Il mare è calmo, la notte tranquilla. Un bombardiere B24 di ritorno da una missione su Pisa sorvola il convoglio. Gli uomini dell’equipaggio hanno pochi dubbi sulla destinazione di tutte quelle navi: il sud della Francia. Il mattino seguente, decollato per un’altra missione, lo stesso B24 si imbatte di nuovo nella flotta. Le navi sono all’ancora davanti a una cittadina del litorale laziale. Il pilota chiede di quale città si tratti. Il navigatore risponde: una città risalente ai tempi dell’Impero Romano. Dubito abbia qualche valore militare.
Quella cittadina risalente ai tempi dell’Impero Romano, luogo natale dell’imperatore Nerone,  è la città di Anzio.

Omissioni e interrogativi.

Il maggior generale John P. Lucas, americano, comanda quella forza imponente. Non è messo molto bene. Ha ordini vaghi, tempo contato, brutti presentimenti. È pessimista. Secondo lui – e anche secondo Clark, a dire il vero – due divisioni non bastano per condurre a buon fine quell’operazione: ce ne vorrebbero almeno il doppio. È stato scottato dall’esperienza di Salerno dove i tedeschi avevano contrattaccato quasi subito, quando le teste di ponte a terra non erano state ancora consolidate. Non vuole incorrere nel medesimo errore.
E anche  Clark non vuole farlo. Quindi, ecco gli ordini: prima di tutto consolidare la testa di sbarco. Poi “ dirigersi verso i Colli Albani”
[1].  Sì, ma quando? Appena consolidata la linea? Qualche giorno dopo lo sbarco, quando sarà arrivato tutto l’armamento pesante? Devo o non devo avanzare subito su Roma? Questo l’ordine di Clark non lo dice. E Lucas prima ancora di sbarcare capisce di avere fra le mani una patata bollente. Perché – si chiede – gli obiettivi originariamente previsti(  “ Stabilire e mettere in sicurezza una testa di sbarco; raggiungere e occupare i Colli Albani; tenersi pronto a marciare su Roma”) sono stati modificati? Perché non sono stato neppure invitato quando si è discusso il piano? Perché non sono stati  indicati con precisione i tempi e le fasi dell’intera operazione? Che sia un’omissione voluta? Che si sia voluta attribuire a me e solo a me la responsabilità di decidere che cosa fare subito dopo lo sbarco, in modo da individuare un capro espiatorio se qualcosa dovesse andare storto?
E che dire dei rifornimenti? Una volta a terra le truppe potranno essere rifornite con continuità? I mezzi da sbarco potranno farlo per un paio di settimane, poi dovranno raggiungere l’Inghilterra e mettersi a disposizione di Overlord. Sarà la Quinta armata di Clark a rifornirci? E se non passa la Linea Gustav e viene bloccata a Cassino, come la mettiamo? No, troppe cose non vanno in questo piano. Ne ho parlato con Patton. Mi ha risposto: Shingle? Una boiata colossale. Secondo me è anche peggio. Questa operazione sembra la fotocopia perfetta di Gallipoli. E, per di più, con lo stesso dilettante alla guida.

Albert “Il sorridente” .

Se Churchill nell’opinione di Lucas è un dilettante, il feldmaresciallo Albert Kesselring, sul piano strettamente militare, non lo è per niente.  Intendiamoci, sull’operato di Kesselring pesano e peseranno per sempre il massacro delle Fosse Ardeatine e le altre stragi operate dai nazifascisti in Italia in ottemperanza al suo Bandenbefehl. Nessuno li ha dimenticati, nessuno li dimenticherà. Non c’è né può esserci giustificazione alcuna. Né sul piano militare né su quello politico. Sono e restano crimini orrendi. E vanno tenuti presenti anche quando si parla del Kesselring stratega, perché comunque l’uomo era quello anche quando muoveva le sue truppe sui campi di battaglia.
Albert Kesselring era un ufficiale di artiglieria passato alla Luftwaffe. Aveva imparato a pilotare un aereo da guerra quando aveva già superato abbondantemente i quarant’anni, aveva fatto una rapida carriera, si era distinto  durante la campagna di Francia del 1940 e aveva comandato la Luftflotte 2 durante la battaglia d’Inghilterra. Era stato lui a sollecitare il bombardamento di Londra e delle altre città inglesi nel tentativo, disse, di eliminare quei “cinquanta Spitfire” che ancora restavano ai britannici. A causa di un problema neurologico, le sue labbra restavano semiaperte in una specie di sorriso. Era un inguaribile ottimista. Per questi motivi si era guadagnato il soprannome di “Albert il sorridente”(Smiling Albert). Aveva avuto la responsabilità del settore del Mediterraneo ai tempi dell’operazione Torch e dello sbarco in Sicilia. Ora comandava le forze tedesche in Italia.
Dunque, gli Alleati, ancorché a fatica,  risalivano la Penisola. Che fare? Abbandonare l’Italia centro-meridionale e aspettarli dietro la Linea Gotica ? O combattere cercando di rallentarne l’avanzata? Rommel, comandante del gruppo armate B ( Italia del Nord) era per la prima soluzione; Kesselring, comandante del settore del Mediterraneo, per la seconda. Quando Rommel fu spedito in Normandia a cercare di rimettere in sesto il Vallo Atlantico, Kesselring ebbe mano libera in  Italia. Promise a Hitler di ritardare il più possibile l’occupazione alleata di Roma e allestì due formidabili linee difensive –la Gustav e la Bernhardt –  oltre ad altre linee per così dire “ minori” allo scopo di dare sempre e dovunque“ filo da torcere” agli alleati.  Hitler, naturalmente, approvò. Anche se Kesselring non gli piaceva granché.
Ma c’era anche dell’altro. Kesselring si aspettava una serie di sbarchi da parte degli Alleati a supporto delle forze già impegnate nella Penisola. Così individuò alcune possibili settori dove questi sbarchi avrebbero potuto essere effettuati  e operò in modo da “coprire” ciascuna di queste zone con una forza di pronto intervento rapido. Non per ributtare immediatamente gli Alleati in mare, ma solo per ritardare la formazione delle teste di sbarco quel tanto che fosse bastato per organizzare un contrattacco su vasta scala. Il litorale laziale , in particolare la zona di Anzio e di Nettuno,  era, nella geografia di Kesselring, uno di questi  “punti sensibili”.
Dunque il feldmaresciallo tedesco riteneva possibile uno sbarco alleato a sud di Roma, ma, come abbiamo visto, complice la cantonata dell’OKW,  non lo riteneva probabile in tempi brevi. Non in inverno, almeno.                     

***

Dalla lettera del caporale Christopher C. Hayes, Royal Scots Fusiliers, al sindaco di Anzio.  15 febbraio 1961.

Signori,

so che mi scuserete se vi scrivo e se vi scrivo  in inglese [… ]Sono uno di quei soldati che sbarcarono a Anzio. Facevo parte del Reggimento dei Fucilieri Scozzesi di Sua Maestà Britannica.. Il nostro Comando era alla fabbrica di sughero. Quello che mi interessa sapere riguarda una bambina di cinque anni, Angelita Rossi. La trovammo che piangeva sulla spiaggia . Chiedemmo in giro se ci fossero genitori,  parenti o qualcuno a cui fosse stata affidata, ma nessuno ne sapeva niente. Arrivammo così alla conclusione che sia i genitori sia i parenti erano morti, come molti altri civili,  sotto i colpi del nostro  bombardamento iniziale. Ci prendemmo cura di lei non facendole mancare niente[…] 

                                                           ***

La sindrome di Salerno.

La zona dello sbarco è formata da una fascia pianeggiante, sovrastata dai Colli Albani. I Colli sono in realtà vulcani estinti, nei cui crateri si sono formati i laghi di Albano e di Nemi. Sul fianco orientale le zone pianeggianti sono fiancheggiate dal Canale Mussolini, oltre il quale si estendono le Pianure Pontine, in gran parte bonificate. Prima di sfociare nel Tirreno a sud di Nettuno, il Canale si divide in due diramazioni: la prima piega a nordest in direzione di Cisterna e dei Colli Albani, l’altra verso la località di Padiglione. La pianura è punteggiata di villaggi e da case coloniche isolate ed è attraversata da numerosi fossi e canali di irrigazione.
A nord di Anzio, il centro abitato più importante è la città di Aprilia, fondata nel 1937. Ad Aprilia ci sono un cinema, una scuola, una farmacia e diversi negozi. Qui, la locale sede del partito fascista è sovrastata da un’alta torre campanaria, assai simile alla ciminiera di una fabbrica. Per questa ragione, la città verrà soprannominata The Factory, la Fabbrica, dai soldati alleati. Le cittadine di Anzio e di Nettuno, molto vicine fra loro, formano, nel 1944, un unico comune: Nettunia.
Qualche chilometro a ovest di Aprilia, sulla via che da Anzio porta a Roma – la Via Anziate– si trova la località di Carroceto. La Via Anziate è fiancheggiata da un tratto della ferrovia Roma Napoli diretta alla stazione di Campoleone. A ovest, nella zona del torrente Moletta, il paesaggio si fa più tormentato a causa di ripidi burroni rocciosi. A nord di Anzio e a sud di Aprilia, infine, si stendono i fitti boschi di Padiglione, nei quali gli alberi di alto fusto- in gran parte querce- sono circondati da un sottobosco molto fitto e spesso impenetrabile.
La Via Anziate si congiunge con la più importante Via Appia ( Strada n. 7) nei pressi della località di Albano. Le altre strade della zona-poche- sono per  lo più piste sterrate o pavimentate alla bell’e meglio. Muoversi lungo di esse è difficile in condizioni normali, impossibile in tempo di guerra. L’artiglieria, infatti, posizionata sulle alture circostanti, può colpire con facilità qualsiasi cosa si muova . In estate fa caldo; in inverno piove spesso. Insomma come ha scritto lo storico delle Guardie Irlandesi ( Irish Guards) si tratta di una zona dalla quale per secoli gli uomini di buon senso si sono tenuti alla larga.

Alle due del mattino del 22 gennaio, i primi mezzi da sbarco raggiungono le spiagge di Anzio e di Nettuno. Praticamente non c’è resistenza. I tedeschi sono stati colti completamente di sorpresa. I rangers del colonnello Darby mettono in sicurezza il porto di Anzio; i paracaduti del 509.mo battaglione occupano Nettuno; nel settore meridionale, la Terza divisione raggiunge rapidamente e facilmente i propri obiettivi; nei settori centrale e settentrionale, i britannici non sono da meno; l’aeronautica alleata compie più di mille missioni su obiettivi strategici e tattici intorno alla testa di sbarco.
Le spiagge cominciano ad affollarsi di uomini, di autocarri, di cannoni, di bulldozer. Nel giro di qualche ora vengono messi a terra più di trentamila uomini e più di  tremila veicoli. Sembra di assistere a un’esercitazione, non a un’azione di guerra. Un colonnello britannico con un ombrello sul braccio osserva tutto quell’ordinato via vai con la stessa espressione- per usare le parole di Carlo D’Este-  di un missionario giunto nei mari del sud e sorpreso di non aver trovato cannibali[2]. Due genieri a bordo della loro jeep  si spingono fin quasi nei dintorni di Roma. Le perdite sono irrisorie ( tredici caduti, un centinaio di feriti, una cinquantina di dispersi). Le strade, le importanti strade numero 6 (Casilina) e numero 7 (Appia) sono pressoché sgombre. Un colpo di fortuna insperato.
E completamente sprecato. Farà notare in seguito il generale Siegfried Westphal capo di stato maggiore di Kesselring: fra Anzio e Roma, al momento dello sbarco,  non c’erano difese degne di questo nome. Dunque, non ci sono difese, la strada è libera.  Lucas però non ne approfitta. Anziché sfruttare l’effetto sorpresa e buttarsi in avanti, si ferma e comincia a consolidare la testa di sbarco. Una mossa obbligata? Un errore fatale?  Un eccesso di prudenza?  La “ sindrome di Salerno”? Fra gli storici c’è chi difende la mossa di Lucas e chi lo biasima per aver sprecato tempo e, soprattutto, un’occasione unica. Il generale Ronald Penney, comandante della Prima divisione britannica, per niente tenero nei confronti di Lucas, tuttavia dirà: se fossimo avanzati subito, avremmo soggiornato diciotto ore a Roma e diciotto mesi in un campo di prigionia tedesco.
E che dire della conformazione del terreno? La zona antistante i Colli Albani, come abbiamo visto, era attraversata da una miriade di fossi, torrenti, canali. C’era fango dappertutto. I carri armati sarebbero potuti avanzare speditamente su quel terreno? I Colli Albani, poi, da questo punto di vista, erano anche peggio. E se ci fosse stato Patton al posto di Lucas? Ha detto un reduce di Anzio: sarebbe successa la stessa cosa. Qualche miglio più avanti.
Sia come sia, un fatto è certo: nel momento in cui Lucas si ferma, il gatto selvaggio lanciato sul litorale laziale si trasforma , secondo la celebre definizione di Churchill, in una balena spiaggiata.[3]
Kesselring, infatti, manda immediatamente alcune unità della Quarta divisione paracadutisti e della divisione corazzata Hermann Goering  a bloccare le strade verso i Colli Albani; chiede ed ottiene, nel giro di ventiquattro ore, rinforzi dalla Francia, dalla Jugoslavia e dalla Germania. Da Berlino Hitler strepita: l’ “ascesso” di Anzio deve essere estirpato a qualsiasi costo. Kesselring, però, è pessimista. Nei primi momenti almeno. Gli Alleati hanno colto un successo  pieno; il grosso delle loro truppe è ormai a terra; difficile fermarli.  Ma a mano a mano che i rinforzi arrivano e l’inerzia di Lucas si fa palese, “Albert il sorridente” torna ottimista.
Gli Alleati perdono tempo e segnano il passo. Conquistano, è vero, Aprilia ( La Fabbrica, The Factory, come è stata soprannominata), superano il Canale Mussolini, ma vengono fermati davanti a Cisterna e sulla strada per Campoleone. Non sono offensive in grande stile, sono puntate di assaggio, ricognizioni più o meno “in forze” condotte allo scopo di consolidare le posizioni e aspettare notizie da Cassino. Ma  mentre gli Alleati “consolidano” le posizioni, quarantamila soldati tedeschi raggiungono il settore di Anzio , altre cinque divisioni vi si stanno dirigendo, il generale Eberhard von Makensen, comandante della Quattordicesima Armata di stanza a Verona, ha preso il comando delle operazioni, a Cassino Clark è bloccato.

Il 30 gennaio Lucas decide di essersi “ consolidato” a sufficienza e lancia un’offensiva in grande stile. Obiettivi: Cisterna e Campoleone, le porte di accesso ai Colli Albani. È un disastro. I rangers di Darby cadono in un’imboscata e vengono letteralmente spazzati  via (di due battaglioni torneranno alla base solo sei uomini); la Terza divisione dopo qualche successo iniziale è costretta a fermarsi; Cisterna non viene raggiunta. A Campoleone – dove opera la Prima divisione di sir Penney—le cose vanno un po’ meglio. I britannici riescono a creare un saliente di circa sei chilometri di profondità. Ma per quanto tempo potranno tenerlo?
Parte la caccia ai colpevoli. Lucas è sotto tiro. Prima dello sbarco, Clark gli aveva detto di essere prudente, di non rischiare ( Don’t stick out your neck). Ora lo vede indeciso, irresoluto, incerto. Alexander sembra pensarla allo stesso modo. Fioccano gli interrogativi. Perché Lucas ha ritardato l’avanzata, procrastinando di ventiquattro ore l’offensiva verso Cisterna e Campoleone, originariamente prevista per il 29 gennaio? Perché ha perso così tanto tempo sulle spiagge? Carlo D’Este annota: avesse attaccato il 29, Lucas avrebbe trovato scarsa resistenza, i tedeschi erano pochi. Il 30 sono già anche troppi. Kesselring e Makensen, infatti, hanno fatto affluire rinforzi nel settore di Cisterna e di Campoleone, chiudendo tutti i buchi.
Dopo il fallimento dell’offensiva, Lucas intuisce di avere la sorte segnata. “ Per essersi attenuto agli ordini”, come annoterà sul proprio diario.

Non si attacca più ora, ci si difende soltanto. La linea allestita da Lucas va dal torrente Moletta al Canale Mussolini. I tedeschi sono superiori di numero e ci danno dentro. A più riprese, per l’intero mese di febbraio,  cercano di estirpare l’”ascesso” di Anzio e di ributtare in mare gli Alleati. Ci vanno vicino. Riprendono la Fabbrica e Carroceto, eliminano il saliente britannico, spaccano in due lo schieramento alleato e arrivano a un passo dal circondare l’intera testa di sbarco. Ma commettono anche numerosi errori. Quello più grave: attaccano su un fronte troppo ampio con il risultato di non avere in nessun punto del fronte la forza e le forze per sfondare. Incontrano  anche una resistenza accanita. Alle Cave, a sud di Aprilia, ad esempio, si combatte una battaglia in condizioni  “selvagge, disumane, da uomini delle caverne”, in cui si è costretti a bere l’acqua dei ruscelli sporca del sangue del nemico, in cui non sono rari gli scontri all’arma bianca.  Alla fine, l’aviazione con le sue numerose missioni e il tiro devastante dei cannoni navali  bloccano l’avanzata di Makensen. Il 23 febbraio Lucas paga per tutti e viene sostituito dal generale Lucian Truscott.  Morirà qualche anno dopo. Di crepacuore.

                                                           ***

Intervista rilasciata dal caporale Christopher Hayes al tabloid inglese Weekend, nel settembre del 1964.

Alcuni giorni dopo lasciammo i boschi per raggiungere la stazione ferroviaria di Carroceto Qui, in una piazza lungo la strada asfaltata c’era un veicolo della Croce Rossa. Vicino al veicolo c’erano parecchi feriti. Pensammo che lì la bambina sarebbe stata al sicuro. E così, con la tristezza nel cuore, affidammo Angelita a un’infermiera americana che stava prestando le prime cure ai feriti. Io la vedo ancora, seduta sul veicolo, gli occhi pieni di lacrime salutarci mentre ci incamminavamo verso sud. All’improvviso ci fu una terribile esplosione dietro di noi. Tornai indietro. L’intera piazza dove c’era il veicolo della Croce Rossa era stata centrata da una bomba… Angelita era stata sbalzata fuori dal veicolo. La raccolsi e la strinsi a me, ma era già morta. 

Dalla lettera del caporale Hayes, Royal Scots Fusiliers, al sindaco di Anzio. 15 febbraio 1961.

Disgraziatamente, durante un violento bombardamento … [ Angelita]… si trovava in una trincea insieme a tre soldati britannici e a un’infermiera della Croce Rossa Americana. La  bomba di un 88 tedesco colpì la trincea. Tutti furono uccisi.

                                                           ***

 L’assedio.

Lo stallo è generale: a Cassino non si fanno progressi, a Anzio si è fermi. Roma sembra essere più lontana della luna. Da parte sua, Truscott  non ha la bacchetta magica né può fare miracoli. Il 29 febbraio stoppa un attacco in direzione di Nettuno, anticipando la mossa di Makensen. Ma di più non può fare. I suoi sono esausti, provati nel fisico e nel morale. Ma sono esausti anche i tedeschi. Hanno subito perdite spaventose. Solo nell’attacco della fine di febbraio hanno perso più di tremila uomini. Entrambi gli schieramenti allora si fermano per  rifiatare e per riorganizzarsi.
Ma non smettono di sparare. La testa di sbarco è praticamente assediata, muoversi di giorno equivale a suicidarsi. Anzio Annie e Anzio Express,  due potenti cannoni da 280 millimetri piazzati su rotaie, colpiscono da lontano e non risparmiano niente e nessuno. Le micidiali bombe butterfly scagliano in ogni direzione migliaia di shrapnel. Gli ospedali da campo diventano “ mezzi acri d’inferno”. Chi è ferito in modo leggero rifiuta di essere ricoverato, non per eroismo – o almeno non solo per quello—ma per non finire sotto le bombe tedesche. Le retrovie non esistono. L’intera testa di sbarco è, allo stesso tempo, un’immensa retrovia e un’immensa prima linea. La parola d’ordine diventa “ scavare”. Di notte, curvi, i soldati alleati si muovono per il campo con quella caratteristica andatura conosciuta in seguito come Anzio Gait, “il passo di Anzio”. E scavano.  Scavano minuscole “tane di volpe”( foxholes) dove si rintanano  e aspettano il bombardamento, impotenti o quasi. Scavano trincee, allestiscono sbarramenti di filo spinato, affrontano attacchi notturni alla baionetta, sono sotto la continua minaccia dei cecchini. Hanno paura. Tutti hanno paura.
Quando piove le “tane di volpe” si riempiono d’acqua e l’unico modo per cercare di svuotarle  è usare l’elmetto come un secchio. Sembra di essere tornati ai tempi della Grande Guerra. I casi di “ piede da trincea” non si contano;  molti soldati non reggono lo stress; i pidocchi non danno tregua; le artiglierie – quella terrestre e quella aerea—dettano i tempi della battaglia. La Luftwaffe impiega bombe radiocomandate e affonda un paio di incrociatori e una nave ospedale; l’aviazione alleata compie una missione dietro l’altra e tenta a più riprese di far fuori Anzio Annie e Anzio Express,  ma invano. Appena vedono comparire gli aerei, i serventi ritirano i due cannoni all’interno di   grotte inattaccabili dall’aria. Quando gli aeroplani se ne sono andati, i cannoni vengono riportati in posizione e il bombardamento ricomincia.
Ha scritto Milton Briggs, un sopravvissuto : descrivere Anzio? E come si può descrivere l’inferno?
È una brutta, bruttissima situazione. E non solo sul campo di battaglia. I tedeschi gridano alla barbarie quando i Mitchell e i B27 alleati radono al suolo l’Abbazia di Montecassino; i rangers catturati a Cisterna vengono fatti sfilare per le vie di Roma in segno di disprezzo: tutte qui le truppe d’élite alleate? Quando il colonnello Darby – loro comandante- lo viene a sapere non sa trattenere la propria indignazione, la propria rabbia, il proprio dolore.
Arrivano altri soldati, numerose unità vengono avvicendate, il flusso dei rifornimenti non si ferma. Gli autocarri vengono imbarcati già carichi a Napoli, sbarcati a Anzio e inviati direttamente dove serve. Sui moli sono pronti gli autocarri vuoti del viaggio precedente. I Landing Ship Tank (LST) li imbarcano e tornano a Napoli per scaricarli e per imbarcare altri autocarri già carichi. Poi ripartono alla volta di Anzio, scaricano gli autocarri pieni , imbarcano quelli vuoti e tornano indietro. E così via.  Il sistema era stato messo in funzione già dalla fine di gennaio, nonostante fosse vietato dai regolamenti. E mantenuto anche in seguito per la testardaggine – e il buon senso- di alcuni comandanti di reggimento o di battaglione.
Gli alti papaveri si fanno vedere raramente al fronte. Arrivano, fanno una breve apparizione e poi se ne vanno con i loro risentimenti, le loro ambizioni, i loro sogni di gloria, il loro desiderio di notorietà. Clark vuole passare alla storia come il liberatore di Roma e non ne fa mistero.Lo ripete in continuazione. Perché? Per ambizione personale? Perché siano riconosciuti i giusti meriti ai suoi soldati?
Di certo c’è questo: uno staff di cinquanta persone cura le sue pubbliche relazioni.  Quando, nei loro articoli, i giornalisti nominano la Quinta Armata devono sempre aggiungere “del tenente generale Mark W. Clark.” Qualcuno maligna: se Clausewitz fosse ancora vivo e vedesse Clark riscriverebbe così la sua celebre massima:  “la guerra è la continuazione della pubblicità con altri mezzi”. Attenzione, però: Clark è coraggioso, deciso, amatissimo dai soldati. Ha il dente avvelenato con gli inglesi: si prendono tutti i meriti, a volte ingiustamente. Per lui Alexander è un “ peanut”, un buono a nulla, o un feather-duster, un piumino per spolverare; Penney un comandante di divisione con spiccate attitudini da telefonista.  E via di questo passo.
Lucas, infine: finché resta in comando, in giro lo si vede poco. Nei soldati e negli ufficiali aumenta l’impressione che  non sappia quello che fa o, peggio, che non  creda in quello che fa.

Decisione fatale.

Passano i giorni, le settimane,  i mesi. Si vive rannicchiati nelle “tane di volpe”, si mangia il cibo freddo delle razioni C, si è sempre sul chi vive, giorno e notte. A volte, in prima linea dove gli uomini sono a contatto gli uni con gli altri, si giunge a un tacito accordo: io non sparo a te, tu non spari a me. Il flusso dei rinforzi è continuo. Ora a Anzio ci sono quasi centocinquantamila soldati alleati. Truscott li ha riorganizzati, rianimati, rimotivati. Le difese sono state consolidate, si lavora a un piano per rompere l’assedio e per chiudere la Decima armata tedesca, stanziata sulla Linea Gustav,  in una gigantesca sacca.
Alexander, infatti, dopo tanti tentativi falliti, ha deciso di farla finita con Cassino e ha ammassato nella zona una forza imponente. Il 18 maggio i polacchi del generale Wladislaw Anders raggiungono le rovine dell’abbazia e vi issano la loro bandiera. I tedeschi della Decima armata si ritirano. Ma non si ritirano in disordine. Combattono metro per metro arretrando verso la Linea Caesar( o Linea C), allestita da Kesselring dalla foce del Tevere fino a Pescara passando per Valmontone. Bisogna assolutamente chiudere loro ogni via di fuga. Per Truscott è arrivata l’ora di muoversi.
In quale direzione? Le opzioni sono due. La prima, denominata Buffalo, prevede un’offensiva in direzione di Cisterna e attraverso i Colli Albani con l’obiettivo di tagliare l’importante Via Casilina a Valmontone. La seconda, denominata Turtle, Tartaruga, prevede un attacco a sinistra dei Colli Albani in direzione di Campoleone e Albano. Obiettivo: Roma.
Alexander opta per Buffalo, Clark guarda a Roma ed è di parere opposto. Fa presente a Alexander: Truscott non ha le forze sufficienti per chiudere la sacca a Valmontone. Alexander abbozza: ok, risponde, se Buffalo dovesse incontrare difficoltà, allora procederemo con Turtle. A Clark questo basta e avanza. Ordina a Truscott di tenersi pronto a mettere in pratica entrambe le opzioni.
Sappiamo come andò a finire. Usciti dalla testa di sbarco a costo di gravi  perdite e diretti verso Valmontone, gli uomini di Truscott vennero fermati mentre erano a un passo dalla Via numero 6. Clark ordinò al suo subordinato di compiere una deviazione e di dirigersi verso Roma. La Decima armata sfuggì all’accerchiamento. Altri lunghi mesi di guerra attendevano i GI , i militari tedeschi e  la popolazione italiana.
Clark entrò a Roma il 4 giugno. Improvvisò una conferenza stampa e non consentì ai britannici di parteciparvi. La conquista di Roma era un affare esclusivamente americano. Più esattamente, un affare della Quinta Armata “del tenente generale Mark W. Clark”.  Tuttavia, non fece in tempo a godersi il successo e la notorietà ai quali tanto teneva. Un paio di giorni dopo, Roma fu relegata nelle pagine interne di tutti i giornali: era cominciato lo sbarco in Normandia.

Epilogo.

Secondo il caporale Hayes, Royal Scots Fusiliers, Angelina Rossi –per gli uomini della pattuglia, Angelita–  morì il 31 gennaio 1944.
Oggi a Anzio, Angelita sembra fluttuare nell’aria sorretta da un volo di gabbiani. Per Carlo D’Este la sua storia è, molto probabilmente,  una leggenda priva di fondamento.  Il Secondo battaglione degli Scots non faceva parte della Prima divisione- l’unica  divisione britannica impiegata a Anzio il giorno dello sbarco-  ma della Quinta; il capitano W.E. Pettigrew, secondo Hayes ufficiale comandante della Compagnia A e dal quale gli Scots ottennero il permesso di prendersi cura della bambina, in gennaio non era in servizio a Anzio, ma lungo il Garigliano( fronte di Cassino) dove fu ferito e da dove fu rimpatriato; le versioni fornite da Hayes circa la morte di Angelita, come abbiamo visto,  sono diverse e in contrasto le une con le altre.
Ma , esistita o no, storia o leggenda, Angelita di Anzio resta e resterà per sempre  il simbolo di tutti i bambini innocenti vittime di tutte le guerre.

                                                           ***

Dalla lettera del caporale Christopher S. Hayes, Royal Scots Fusliers al sindaco di Anzio. 15 febbraio 1961.

Mi piacerebbe visitare di nuovo Anzio e Nettuno e magari trovare la tomba di Angelita e quelle degli altri civili e soldati che morirono a Anzio. Ma ora sono sposato e ho cinque figli. Non posso permettermi di viaggiare, ma mi farebbe piacere ricevere foto della zona e qualsiasi altra informazione vorrete mandarmi. Sono certo che, oggi, lì tutto è cambiato.
Speriamo che il mondo non conosca mai più un’altra Anzio.

                                                           ***

 Da leggere:

Rick Atkinson, Il giorno della battaglia. Gli Alleati in Italia 1943-44, Mondadori, 2008
Felice Borsato, La strada per Roma, Settimo Sigillo, 2009
Silvano Casaldi, Gli uomini dello sbarco, Herald, 2006
Carlo D’Este, Fatal decision. Anzio and the battle for Rome, Harper Perennial
Franco Martinelli, Rossella Petrini, Lo sbarco di Anzio: una popolazione civile in guerra, Aracne, 2007
Marco Patucchi,  Intervista a Harry Schindler, ultimo superstite dello sbarco di Anzio, La Repubblica, Robinson, 15 gennaio 2022
Paolo Senise, Lo sbarco ad Anzio e Nettuno, Mursia, 1994
Gilbert Alan Shepperd, La Campagna d’Italia : 1943-45, Garzanti, 1970

Da vedere:

Lo sbarco di Anzio, di Duilio Colletti, 1968

Nel web:

http://www.elbasun.com/L_angolo_della_lettura/racconti/Aldo_Cirri/19.htm

bandiera ingleseThe cat and the whale 1 ( Automatic English translation)

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Ditelo ai vostri uomini. 1943: lo sbarco alleato in Sicilia fra cadaveri alla deriva, opinioni contrastanti , fazzoletti gialli e generali “ d’acciaio”.
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Il cappello a cilindro.
Salerno 1943: la “valanga” alleata si abbatte sulla costa campana.
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QUI  altri articoli relativi alla seconda guerra mondiale( e non solo).

Questi gli schieramenti.

Gli Alleati subirono circa 43.000 perdite(7.000 morti, 36.000 feriti o dispersi). Fra i caduti di Anzio ci fu anche il tenente Eric Fletcher Waters, Royal Fusiliers, padre del famoso cantante dei Pink Floyd Roger Waters.  i tedeschi ebbero circa 40.000 perdite( 5.000 morti 30.500 feriti o dispersi, 4.500 prigionieri).
Le vittime fra la popolazione civile – in gran parte sfollata o evacuata a Napoli — furono numerose.

 

Le citazioni riportate in questo articolo sono tratte dal libro di Carlo D’Este, Fatal decision.

Dopo Anzio.

Dunque Shingle fallì e Lucas si prese tutta – o quasi tutta- la colpa. Non osò abbastanza, perse l’attimo favorevole, indugiò troppo: queste le accuse. Ma fu davvero tutta colpa sua? Churchill, ad esempio,  fu esente da colpe? Volle a tutti i costi Shingle, ma non volle vederne i difetti. Lo scopo dello sbarco era quello di indebolire i tedeschi e di costringerli a muovere truppe da Cassino a Anzio? Giusto, giustissimo.  Ma si sarebbe allora dovuto impiegare una forza molto più consistente delle due divisioni di fanteria originariamente impiegate. Una forza in grado non solo di avanzare, ma anche di respingere un contrattacco tedesco. Insomma, Shingle fu per dirla con Kesselring, una “ mezza misura”, destinata, in quanto tale, al fallimento.
Con le forze a sua disposizione nella fase iniziale di Shingle, Lucas, infatti, poteva fare ben poco. Se anche fosse avanzato immediatamente, non avrebbe potuto tenere contemporaneamente sia i Colli Albani, sia le proprie linee di rifornimento. Poteva contare, non dimentichiamolo, solo su due divisioni di fanteria e su alcuni battaglioni di ranger o di parà. Servivano carri armati, artiglieria. E i carri  furono disponibili solo verso la fine di gennaio, quando fu sbarcata la Prima divisione corazzata del generale Ernest Harmon.  Il gatto selvaggio, insomma, aveva gli artigli spuntati fin dall’inizio. Inutile –  e ingiusto- tirare in ballo, in seguito, la balena spiaggiata.
Carri o non carri, Lucas avrebbe dovuto comunque dirigersi verso i Colli Albani? A caldo quasi tutti dissero: certamente. Doveva farlo. Poi, finita la guerra, si cominciò a ragionare. Per Truscott  una rapida avanzata verso i Colli , in quelle condizioni, sarebbe stata una vera e propria pazzia ( sheer madness);  per il generale Harmon essa avrebbe significato la prigionia certa; per il generale Templer la distruzione delle linee di comunicazione, completamente sguarnite sui fianchi; per il generale Penney, 18 mesi nei campi di prigionia tedeschi.  E i primi tre, si badi bene, erano generali dello stesso stampo di Patton, aggressivi e determinati. Harmon, addirittura, era stato uno dei più accaniti sostenitori, in fase di preparazione del piano, di un’avanzata immediata  verso l’interno.
E Clark? Dopo la guerra scrisse: avanzare verso i Colli Albani? Impossibile. Se fossimo avanzati , saremmo stati sicuramente sconfitti. Puntare immediatamente su Roma sarebbe stata una mossa avventata. Senti da che pulpito, verrebbe da dire.
Anche Marshall volle dire la sua. Non senza una malcelata, ancorché amara, soddisfazione( a lui, infatti, la campagna d’Italia garbava poco): non avevamo abbastanza uomini per avanzare verso i Colli Albani e, contemporaneamente, per tenere Anzio. Fine della storia.
Era davvero necessaria l’operazione Shingle?  Per anni si è ritenuto di sì.  Kesselring pare abbia detto: senza Shingle, non avreste vinto in Normandia. E molti gli hanno  creduto. Avete visto? Anzio non è stato un sacrificio inutile, eccetera, eccetera. Poi si cominciò a udire qualche voce fuori dal coro.  Alcuni avvocati del diavolo( gli storici John Ellis, Dominick Graham e Shelford Bidwell) per esempio, si chiedono:  Shingle serviva ad alleggerire il fronte di Cassino. Ma lì, a Cassino, come furono impiegate le truppe? Alexander e Clark le seppero utilizzare al meglio?
La risposta è no. Si intestardirono ad attaccare i punti più forti dello schieramento tedesco con forze inadeguate allo scopo. Dunque, secondo Ellis e compagnia, se a Cassino Alexander e Clark avessero impiegato meglio le forze a loro disposizione, se , per esempio, avessero cercato di aggirare le posizioni tedesche, di Shingle non ci sarebbe stato  bisogno. E poi, si chiede un altro storico, Samuel Eliot  Morison, perché dividere la Quinta Armata e toglierle forze necessarie per scardinare  la Gustav?  E aggiunge: uno sbarco a Gaeta o a Terracina sarebbe servito di più. Ma sia l’una sia l’altra località erano troppo distanti da Roma e dai Colli Albani per i gusti di Churchill.
Anche Kesselring non fu immune da critiche. Fin dall’inizio, Rommel aveva considerato una perdita di tempo e un inutile spreco di uomini e di mezzi la difesa dell’Italia centro-meridionale. Ritiriamoci dietro la Linea Gotica e aspettiamo lì gli Alleati, aveva, invano, sostenuto. Ma ci furono anche altre critiche, a lavori ancora in corso. La principale( colonnello Alexis von Roenne, capo dell’Intelligence dell’OKW): dobbiamo concentrare le nostre forze là dove gli Alleati impiegheranno il grosso delle loro per il colpo finale. In Italia? Nemmeno per idea. Dobbiamo concentrarle in Francia. Perderemo l’Italia? Se li fermiamo in Francia, la perdita dell’Italia non ci danneggerà più di tanto. A differenza di Hitler, il colonnello Roemme aveva probabilmente letto Federico il Grande: non si può difendere tutto, perché difendere tutto significa difendere niente.
La  conquista di Roma, infine. Clark la mise in pratica, Alexander lasciò fare. Colpa grave quest’ultima. Ma Alexander era fatto così: preferiva le soluzioni accomodanti alle decisioni scomode. Perché Clark emanò l’ordine fatale convertendo un bisonte (Buffalo) in una tartaruga( Turtle)? Secondo Alexander non c’era ragione di farlo: a Clark era stato promesso , una volta distrutta la Decima armata, un ingresso trionfale a Roma. Ma evidentemente, l’allampanato generale americano non si fidava o voleva stare sul sicuro. La conquista di Roma avrebbe fatto rimbalzare il suo nome su tutti i giornali e in tutti i cinegiornali del tempo. Il mondo intero avrebbe parlato di lui e della sua Quinta armata. Chiosa Alexander: fu questo, presumo, a spingerlo a cambiare la direzione della propria avanzata.
Il paradosso comunque è questo: se Truscott avesse preso Valmontone – l’obiettivo dell’operazione Buffalo –  e il controllo della Via Casilina anziché deviare verso Albano, Clark sarebbe entrato a Roma  con qualche giorno di anticipo e si sarebbe goduto qualche momento in più di gloria e di popolarità prima di Overlord.

 


[1] In inglese l’ordine di Clark suona così: “Fifth Army will launch attacks in the Anzio area (a) to seize and secure a beachhead in the vicinity of Anzio; (b) advance on the Colli Laziali” ( La Quinta Armata attaccherà nella zona di Anzio per a) stabilire e rendere sicura una testa di sbarco nelle immediate vicinanze di Anzio e b) avanzare verso i Colli Laziali) . Nel testo inglese, come si può vedere, viene usata la preposizione “on” per definire l’azione intorno ai Colli Albani. Che cosa avrebbe dovuto fare Lucas? Avanzare e conquistare i Colli? Avanzare  verso i Colli?

[2] Carlo D’Este, Fatal decision, Harper -Perennial

[3] I had hoped that we were hurling a wildcat onto the shore, but all we got was a stranded whale” ( Avevo sperato che avremmo lanciato un gatto selvaggio sulle spiagge [di Anzio], ma  tutto quello che ottenemmo fu una balena arenata)

 


Gli abeti rossi

03/11/2013

Katyn Wajda

Prologo

Da qualche giorno i controlli nel campo di Kozelsk( Kozielsk secondo la grafia polacca) si sono fatti meno asfissianti. Si mangia meglio, le guardie sembrano quasi cordiali. “ Tornerete a casa”, si sente dire. Un ufficiale dell’NKVD “ perde” una mappa con l’indicazione del percorso ferroviario da Kozielsk alla Polonia, subito raccolta dai prigionieri. Allora è vero? Gli internati sono presi da una profonda  agitazione, chiedono, vogliono sapere. L’ansia si somma alla speranza e l’eccitazione è al massimo. Comincia l’evacuazione del campo. I prigionieri vengono divisi in gruppi, le guardie chiacchierano con loro, qualcuna sorride. Si compilano elenchi, si fanno i primi appelli, le  partenze si succedono alle partenze. Chi non parte insieme gli altri e viene trattenuto al campo non sa farsene una ragione.

L’inizio.

L’esercito polacco vanta gloriose tradizioni. E non pochi successi. Nel 1920, ad esempio,il generale Jòsef Pilsudski aveva giocato un bruttissimo scherzo all’Armata Rossa. L’aveva prima bloccata davanti a Varsavia, poi l’aveva contrattaccata costringendola a ritirarsi. “Il miracolo della Vistola”  non era rimasto senza conseguenze: Lenin era stato costretto a firmare a Riga una pace umiliante; Stalin aveva perso la faccia davanti al mondo intero, facendo affluire le riserve nel posto sbagliato e servendo la vittoria a Pilsudski su un piatto d’argento. Lo avrebbe mai dimenticato?
Ma nel settembre del 1939, i polacchi hanno solo il valore e l’orgoglio da opporre alle divisioni corazzate della Wehrmacht e al muro umano delle divisioni di fanteria sovietiche. Vanno alla carica, sciabole contro cannoni, in sella ai loro magnifici cavalli come una volta avevano fatto i loro antenati agli ordini del re Giovanni Sobieski. È una partita persa in partenza e loro lo sanno. Come possono sperare di avere successo contro la tecnologia e la forza del numero? Ma lo fanno ugualmente. Cariche suicide? Una questione d’onore, piuttosto. Non abbiamo i vostri cannoni, non abbiamo i vostri carri armati, non abbiamo tanti uomini come voi. Ma non ci arrendiamo, non cediamo, lottiamo fino all’ultimo per la nostra patria e per il nostro onore.
A guidare quelle cariche ci sono chimici e storici, insegnanti e biologi, ingegneri e architetti. La laurea dà loro diritto, in tempo di pace, a un grado di ufficiale della Riserva. Chiamati a indossare l’uniforme e a combattere in uno dei momenti più difficili della loro storia, quei giovani laureati si battono con coraggio e valore: molti di essi  cadono sul campo, moltissimi  vengono fatti prigionieri. I sovietici non sanno come gestirli. Il generale Kulik comandante della forza d’invasione, trattiene gli ufficiali ma spedisce a casa i soldati. “ Non saprei dove metterli e come sorvegliarli”, scrive a Mosca.
Per quegli ufficiali si aprono i cancelli dei campi di prigionia. Un altro mondo, in tutti i sensi. Per “ rieducarli” i sovietici proiettano film celebrativi, distribuiscono copie dei discorsi di Stalin, stringono le maglie della sorveglianza, raccolgono informazioni servendosi di infiltrati e di spie, compilano fascicoli dettagliati, imbastiscono accuse pesanti. Per gli ufficiali polacchi prigionieri pregare è un delitto, rispondere in polacco a un ordine impartito in russo è insubordinazione, minacciare uno sciopero della fame, sovversione. Non possono scrivere a casa se non raramente; non possono ricevere pacchi, biancheria di ricambio, camicie pulite.  È la dura legge del codice penale sovietico. Altri codici, altre leggi non contano in quell’universo rovesciato. Un ingenuo ufficiale sovietico di un campo di prigionia scrive a Mosca: qui da me i prigionieri tirano in ballo continuamente la Convenzione di Ginevra: mandatemene una copia, per “ conoscenza”. Compagno comandante, è la risposta di Mosca, lascia perdere la Convenzione di Ginevra e pensa ad eseguire alla lettera gli ordini dell’ NKVD.
La situazione è drammatica. Drammatica e, per certi versi, paradossale. Perché quegli ufficiali e quei soldati non sono  prigionieri di guerra. Da un punto di vista strettamente giuridico almeno. E non lo sono perché la guerra fra i due Paesi non è mai stata dichiarata. Stalin ha mandato l’Armata Rossa a “ portare aiuto al popolo polacco” senza alcuna dichiarazione di guerra; la Convenzione di Ginevra, poi, è carta straccia perché l’URSS non l’ha mai firmata. E allora che cosa sono, chi sono quei chimici e quei biologi quegli insegnanti e quegli storici in uniforme? Per la legge sovietica sono internati; per l’ideologia sovietica, nemici di classe. Per ora nessuno parla di eliminarli: vengono impiegati come manodopera forzata, costruiscono strade e scavano trincee. Ma in futuro?
L’orgoglio polacco però non viene meno. Alcuni ufficiali prigionieri alzano la voce, chiedono un trattamento più umano, vogliono conoscere di che cosa li si accusa. Tutti sono refrattari a qualsiasi tentativo di “ rieducazione”. Curano i propri stivali come una reliquia, ne preservano le suole proteggendole con rozzi zoccoli di legno. Gesti futili? Al contrario. Quegli stivali non sono calzature qualsiasi. Sono il simbolo dell’appartenenza alla gloriosa cavalleria polacca. Finché restano lucidi e integri essi rappresentano l’appartenenza a un’élite e, nello stesso tempo, una sfida a chi  tiene prigioniero chi li calza.

Poi, improvvisa, la drammatica svolta: quei prigionieri vanno eliminati con una procedura “ speciale” e i loro familiari devono essere deportati. Perché? Berija scrive: perché se restano in vita, si batteranno contro di noi. Anzi, non ne vedono l’ora. Stalin approva e la mattanza comincia.
Perché approva? Perché non ha dimenticato “il miracolo della Vistola” e cova vendetta? Perché i campi di prigionia devono essere liberati per far posto ai prigionieri finlandesi o a quelli dei Paesi Baltici? Balla megagalattica quest’ultima. Come si fa a parlare di prigionieri finlandesi se in Finlandia l’Armata Rossa le sta buscando di santa ragione? Il motivo è un altro. I polacchi prigionieri vanno eliminati perché non ne vogliono sapere di essere “ rieducati”; vanno eliminati perché sono una potenziale minaccia alla costruzione del socialismo in Polonia e , più in generale, all’edificazione della società perfetta vagheggiata dal marxismo-leninismo. Quegli ufficiali prigionieri –tutti o quasi tutti laureati-  sono in potenza la futura classe dirigente della Polonia; appartengono, per loro natura, a una classe estranea al proletariato e, per questa ragione, devono essere fatti fuori.
I sovietici non sono gli unici a pensarla in questo modo, sia chiaro. Quando sente parlare di intellettuali, Hitler va in bestia. Anche lui aspira a costruire la società perfetta, il Reich millenario dei nuovi padroni del mondo. Di un mondo in cui non c’è posto-o c’è un posto molto ridotto- per le razze inferiori. Nei Paesi conquistati dai nazisti, dunque, l’intellighenzia deve essere spazzata via e il resto della popolazione  tenuto a un livello di istruzione prossimo allo zero. Tanto, per fare da schiavi ai nuovi padroni l’istruzione non serve. Lo scopo di Hitler e di Stalin è dunque il medesimo, anche se diversi sono i potenziali nemici della società perfetta da essi vagheggiata: le classi ostili al proletariato per Stalin, le razze inferiori per Hitler.
A Katyn furono rinvenuti i cadaveri di circa quattromila cinquecento militari polacchi, di un prete cattolico e di una donna ufficiale pilota. Tanti? Pochi? Tanti, se presi in sé e per sé, pochi se paragonati alle decine di migliaia di prigionieri polacchi fucilati dai sovietici a Karkov a Smolénsk , a Minsk e dai nazisti a Danzica a Torum e altrove. Katyn fu genocidio? Scrive Zalawski: le purghe sovietiche del ‘37-‘38 furono genocidio; l’Olocausto fu genocidio, lo sterminio sistematico dei prigionieri di guerra sovietici fu genocidio: Katyn fu qualcosa di diverso: fu“ classicidio”, “ pulizia di classe” ( Class Cleansing).

 Sussurri e grida.

Il 22 giugno 1941, all’alba , le divisioni tedesche scatenano Barbarossa  in Unione Sovietica. In agosto, Stalin libera i prigionieri polacchi detenuti nei campi di prigionia e autorizza i loro familiari a tornare dai luoghi dove erano stati deportati. Dal  Kazakistan e dalla Siberia ritornano in molti; dai campi di prigionia in pochissimi.  Mancano soprattutto gli ufficiali. Il generale Wladislaw Anders sta organizzando un esercito polacco in esilio e ha bisogno di ufficiali. Chiede: dove sono finiti quelli detenuti nei campi di prigionia? Risposta: non ne sappiamo niente. Il capitano Joseph Chapsky , esponente dell’antica nobiltà polacca, riemerso dall’inferno di Gryazovests, compie ricerche, fa domande, raccoglie testimonianze e quando chiede spiegazioni o informazioni riceve sempre la stessa risposta: i prigionieri polacchi? Non ne sappiamo niente. I familiari degli ufficiali prigionieri , a loro volta, si fanno sentire: non ne sappiamo niente è , ancora una volta, la risposta di Mosca.
Ma le voci corrono. Eccome se corrono. I sussurri diventano grida, si parla di ufficiali assassinati, di migliaia di cadaveri sepolti in fosse comuni.  Anders e Sikorski, il capo del governo polacco in esilio a Londra, affrontano a muso duro lo stesso Stalin. Che ne è di quegli ufficiali? Dove sono? La risposta è un puro concentrato di cinismo: secondo me sono fuggiti e ora si trovano in Manciuria o chissà diavolo dove. Ma li troveremo. Alza la cornetta del telefono, chiama Berija e gli ordina  di trovarli ad ogni costo.
Ma se si illude di aver messo le cose a posto con quella messinscena si sbaglia. Si sbaglia di grosso. I familiari degli scomparsi in… Manciuria insistono, chiedono, preparano appelli, vogliono sapere. Sikorski va a Londra da Churchill e gli dice chiaro e tondo: ho informazioni certe: i russi hanno assassinato migliaia di nostri ufficiali prigionieri. Sir Winston in quanto a cinismo non è da meno di Stalin: se sono morti, dice, non c’è niente che possiamo fare per riportarli in vita. Traduzione: siamo tutti sulla stessa barca. Il nostro compito è quello di far fuori Hitler non di irritare i sovietici. Sbarazziamoci di Hitler e poi guardiamo nei nostri armadi.
E il 13 aprile del 1943, quegli armadi si spalancano di colpo. I tedeschi comunicano urbi et orbi di aver trovato alla fine di febbraio  a Katyn, in Bielorussia, sepolti in fosse comuni, i cadaveri di migliaia di militari polacchi giustiziati con un colpo di pistola alla nuca. E aggiungono: sono stati i sovietici, questa è la firma dell’ NKVD. I sovietici non ci stanno e rimandano la palla al mittente: non siamo stati noi, sono stati i nazisti.
In breve tempo la faccenda si allarga. Sui giornali polacchi compaiono i primi nomi dei caduti; in tutta la Polonia i cappellani militari e i sacerdoti cattolici celebrano messe di suffragio; Churchill sente più di un brivido corrergli lungo la schiena ; Stalin, infuriato e furioso, taglia i ponti con il governo polacco in esilio e poco tempo dopo Sikorski muore in un misterioso incidente aereo. Le fosse di Katyn si sono tramutate di colpo in un affare politico  maledettamente serio.
Ma qual è la verità? Chi è stato? Hanno ragione i tedeschi nell’incolpare i russi o i russi nell’incolpare i tedeschi?  Per stabilire la verità i primi nominano una commissione internazionale di cui non fanno parte medici tedeschi; i secondi , dopo aver riconquistato la Bielorussia nel 1944, incaricano il professor Burdenko e altri illustri medici di guardarci dentro. La commissione internazionale arriva alle seguente conclusione: gli eccidi di Katyn sono stati commessi nella primavera del 1940; per la commissione Burdenko invece , sono stati commessi nel 1941.  Questione di capitale importanza, quella della data. Se l’anno della morte è il 1940, sono stati i sovietici o, comunque, non possono essere stati i tedeschi; se l’anno, invece, è il 1941, sono stati i tedeschi o, comunque, possono essere stati loro.
La commissione internazionale afferma: ci chiedete perché, secondo noi, gli ufficiali e i soldati polacchi di Katyn sono morti nel 1940 e non dopo? Perché sui crani dei cadaveri abbiamo riscontrato la presenza di una sostanza organica particolare, una sostanza che comincia a formarsi non prima di tre anni dopo il decesso. E che dire degli abeti rossi piantati sulle fosse? Ne abbiamo controllato i tronchi, abbiamo interpellato un botanico esperto. Risposta: sono alberi non più vecchi di tre anni. Qualcuno, evidentemente, li ha piantati dopo le esecuzioni, per far crescere sui cadaveri una foresta e tenere lontani occhi indiscreti e pericolose curiosità. Conclusioni di parte?
Sembrerebbe proprio di no. Contemporaneamente alla commissione internazionale, infatti, un’altra commissione agisce a Katyn con il permesso tedesco. È interamente formata da polacchi, lavora sotto l’egida della Croce Rossa ed è infiltrata da membri della Resistenza alla caccia di nomi e cognomi di eventuali criminali di guerra nazisti. Ebbene, anche questa commissione arriva alle stesse conclusioni della commissione internazionale: i tedeschi non c’entrano. Lo comunica in via riservata a Londra e Londra, zitta zitta, fa sparire il rapporto in un ben celato cassetto.  E per la stessa ragione finisce in un cassetto anche la relazione di sir Owen O’Malley, ambasciatore britannico presso il governo polacco in esilio. Churchill è preoccupato: guai a fare infuriare Stalin proprio adesso, continuando “a girare intorno” a quelle tombe nei pressi di Smolénsk e alle “betulle” di Katyn. L’Armata Rossa ci sta dando dentro, i tedeschi sono in  difficoltà:  se allenta la presa sono guai seri. Già ne abbiamo avuto una dimostrazione durante la sollevazione di Varsavia: Stalin non ha mosso un dito, la città è stata rasa al suolo e duecentocinquantamila persone hanno perso la vita.
Anche dall’altra parte dell’oceano la musica è più o meno la stessa. Un fidato collaboratore di Roosevelt, George Earle, convinto della colpevolezza sovietica viene spedito a contemplare l’oceano nelle isole Samoa. Il rapporto del colonnello John Van Vliet, prigioniero di guerra, aggregato dai tedeschi come testimone alla commissione internazionale, sparisce anch’esso in un cassetto.  Dunque Churchill sa, Roosevelt sa, ma nessuno si muove. Meglio non parlarne, è la parola d’ordine. E i soldati e gli ufficiali di Katyn muoiono per la seconda volta.

E i sovietici? Loro vogliono, ancor prima di cominciare,  “accertare la fucilazione compiuta dai nazifascisti degli ufficiali polacchi prigionieri di guerra nel bosco di Katyn”. In altre parole, loro, ancor prima di cominciare, un colpevole ce l’hanno. E si muovono di conseguenza. Chiamano un bel po’ di giornalisti e presentano la loro versione. Questa: i prigionieri polacchi erano qui per costruire una strada. Arrivano i tedeschi  e nessuno di noi bada più a loro. Va ancora bene se riusciamo a badare a noi stessi. I tedeschi li catturano, li giustiziano con un colpo di arma da fuoco alla nuca ( le pallottole sono pallottole tedesche), li seppelliscono in una fossa comune. Poi, a distanza di tempo, ritornano, riesumano i cadaveri, falsificano i documenti, rimettono i corpi nella fossa e dicono che siamo stati noi. Addosso ai cadaveri abbiamo trovato documenti datati 1941; ci sono dei testimoni oculari; abbiamo identificato l’unità tedesca incaricata delle esecuzioni, conosciamo il nome del suo comandante, il tenente Ahrens. Non ci possono essere dubbi: il massacro è stato compiuto nel 1941, fra agosto e settembre.
Settembre? Ne siete proprio sicuri? chiede uno dei giornalisti invitati. Si indossano le uniformi pesanti in settembre? Già perché le uniformi di quei poveri disgraziati sembrano uniformi invernali. O no? Imperturbabile, Burdenko replica: ci siamo sbagliati, volevamo dire fra agosto e dicembre. Però, guarda caso, le deposizioni dei “ testimoni” non vengono adeguate. Sul rapporto della commissione le deposizioni restano ferme a settembre e non se ne trova una che faccia riferimento a dicembre. Contraddizione evidente. Non per la giovane Kathline Harriman, aspirante giornalista, figlia dell’ambasciatore americano a Mosca: per lei la versione di Burdenko  è ok. Qualche anno dopo, fattasi un po’ più esperta e meno ingenua, la sconfesserà.

I silenzi.

A guerra in corso, dunque, su Katyn scende  il silenzio. Per ragioni di ordine “superiore”, si dirà poi. Eppure la verità era lì, a portata di mano. E neanche tanto nascosta, secondo Zawodny. I prigionieri costruivano una strada e furono catturati dai tedeschi? E allora costava così tanto dirlo chiaro e tondo ai familiari delle vittime, ai generali Anders e Sikorski, al conte Chapski? Perché tirare in ballo la Manciuria o ripetere il solito ritornello: “ Non ne sappiamo niente”? Lasciamo stare gli abeti rossi piantati sulle fosse, ma come spiegare le ferite da baionetta a quattro punte riscontrate su molti cadaveri? Nel 1940 solo l’Armata Rossa usava quel tipo di baionetta. E che dire dei giornali di propaganda –tutti sovietici e tutti datati 1940-  trovati nelle tasche delle uniformi di alcuni ufficiali assassinati? Ce li hanno messi i tedeschi dopo aver riesumato i cadaveri? E come hanno fatto a sapere quali giornali circolavano, in quei tempi, nei campi di prigionia? E se anche l’avessero saputo, come hanno fatto a procurarseli? E i diari dei prigionieri? L’ultimo si ferma all’aprile del 1940. E perché i familiari delle vittime non hanno ricevuto nemmeno una comunicazione scritta datata 1941? Una sola lettera, anche due semplici righe, sarebbero state sufficienti per scagionare i sovietici. E perché questi ultimi non presentano un documento, una lista, una fattura che so per una fornitura di viveri destinata ai prigionieri dei campi incriminati?  Avrebbero potuto esibire il documento e dire: ecco, vedete, nel 1941 quei prigionieri erano ancora vivi , questa fattura lo prova senza ombra di dubbio.
E ci sono anche altri particolari. Gli zoccoli di legno, ad esempio. Sì, proprio loro, gli zoccoli con i quali gli ufficiali tentavano di preservare dall’usura le suole dei propri stivali  e, con essi, il proprio onore di soldati. Ne furono trovati parecchi nelle fosse. E allora una domanda sorge legittima: avrebbero potuto quei prigionieri con quelle zeppe sotto le suole godere della libertà di movimento necessaria per svolgere lavori pesanti quali la costruzione di una strada? Fate voi. Ma ammettiamo pure che non li avessero usati durante il lavoro: gli stivali avrebbero retto o non si sarebbero sfondati in quattro e quattr’otto? Eppure gli stivali trovati nelle fosse sono integri e nessuno di essi ha la suola consumata.
E c’è anche un altro particolare. Un po’ macabro, in verità. Nelle fosse i cadaveri erano impilati l’uno sull’altro e saldati l’uno all’altro per effetto del processo di decomposizione. Per rimuoverli fu necessario ricorrere a uncini, a pale e persino a picconi. Una volta eseguito il lavoro, sul cadavere dello strato inferiore rimaneva l’impronta del cadavere appena rimosso. Domanda: se i tedeschi avessero riaperto le fosse, riesumato i cadaveri per falsificare le prove, come sostiene Burdenko, sarebbero stati capaci, una volta staccatili, di ricollocare i cadaveri uno sull’altro facendo combaciare esattamente l’impronta lasciata dal processo di decomposizione? Ma ammettiamo per un momento ( la precisione tedesca è proverbiale…) che ci fossero riusciti. In questo caso, i cadaveri avrebbero potuto saldarsi a prova di piccone in poche settimane? E poi, perché la commissione Burdenko parla di nove documenti datati 1941 e non li presenta? Insomma e per dirla tutta, allora le urgenze erano altre e mancava il tempo per approfondire la questione.
Dopo la guerra, tutta un’altra storia direte voi. Mica tanto. A Norimberga, gli americani se ne lavano le mani. I sovietici arrivano al processo esibendo due testimoni decisivi, due pezzi da novanta secondo loro: i professori Markov, bulgaro  e Hajdek , cecoslovacco. Hanno fatto parte della commissione internazionale voluta dai tedeschi nel 1943, quindi  chi meglio di loro può spiegare come sono andate davvero le cose? Davanti al giudice, i due sconfessano le conclusioni della commissione. Affermano: abbiamo ricevuto continue pressioni dai tedeschi perché li dichiarassimo innocenti. Un altro componente la commissione,  il medico italiano Vincenzo Palmieri, napoletano, intervistato in merito dichiarerà: pressioni? Non me ne sono accorto. Ci seguiva, molto discretamente, un maggiore della Wehrmacht in seguito fucilato per aver partecipato al complotto di von Stauffenberg. Markov? Se Napoli fosse stata liberata dai sovietici anch’io probabilmente sarei stato costretto a ritrattare.
Durante il processo un ufficiale tedesco si presenta spontaneamente a testimoniare. Si chiama Friedrich Ahrens. Ha il grado di colonnello, nel 1941 era tenente. E secondo la commissione Burdenko comandava lui l’unità incaricata delle esecuzioni a Katyn. Documenti alla mano, il colonnello dimostra di essere stato in servizio altrove all’epoca dei fatti. E lo stesso fanno i suoi superiori di allora. Anche il reparto accusato di aver materialmente eseguito le fucilazioni non era a Katyn nel 1941. Tutto documentato.
La trappola sovietica non scatta. Il giudice di Norimberga fa la tara alle dichiarazioni di Markov e di Hajdek, tiene nel debito conto la testimonianza di Ahrens e sentenzia: probabilmente non sono stati i tedeschi. E allora chi è stato? chiedono tutti. Risposta: non spetta a noi appurarlo. Non abbiamo alcun mandato per continuare le indagini: per noi la cosa finisce qui. Pilato allo stato puro.
Qualche anno dopo, Katyn si riprende la scena. L’Europa è politicamente in fermento,  la guerra di Corea è in corso, i comunisti non sono più alleati ma nemici.  In Italia si chiede la testa di Palmieri, reo di aver offeso, attribuendo il massacro di Katyn ai sovietici,  “ le gloriose truppe di Stalingrado”; in Svizzera i comunisti accusano – ingiustamente- il  neurologo svizzero Nivelle ( altro componente la commissione internazionale) di essere filonazista. Con la guerra di Corea torna in ballo la questione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra. Certo che sono stati i russi, affermano gli americani dopo aver studiato i documenti relativi al massacro di Katyn. E che cosa potevate aspettarvi dai comunisti? E non sono forse comunisti quelli contro cui stiamo combattendo in Corea? Prepariamoci, preparatevi, dunque, al peggio.  A sentire chissà quale nefandezza a proposito del trattamento dei nostri prigionieri. Avvisaglie di guerra fredda, freddissima  con annesso uso strumentale delle tragedie della storia. Katyn inclusa.
I russi  mantengono la propria versione e ,addirittura, si inventano un’altra Katyn. Anzi Kathyn ( con l’acca intermedia) o Hatyn( con l’acca iniziale). In questa località, durante la guerra, la popolazione civile era stata massacrata dai tedeschi. In Russia Kathyn viene identificata con Katyn  e i tedeschi diventano gli unici responsabili del massacro. I documenti relativi ai 25.000 internati polacchi “ liquidati”, vengono tolti dagli archivi segreti e distrutti. Restano agli atti di quegli archivi  il promemoria  di Berija del 5 marzo del 1940 con le firme di tutti i componenti del Politburo  e altre carte  compromettenti ( compreso il testo del patto di non aggressione), conservate in quanto possibili armi da impiegare  nella lotta per il potere scatenatasi al Cremlino nella seconda metà degli anni Cinquanta. O perché troppo importanti per essere distrutti senza conseguenze.
Negli anni Novanta, in piena perestroijka, Michail  Gorbaciov riconoscerà la responsabilità dell’NKVD e di Berija, ma si rifiuterà di rendere pubblici i documenti compromettenti.  Boris Eltsin porrà fine alla vicenda aprendo gli archivi e rivolgendosi ai polacchi con queste parole. “ Perdonateci, se potete”. 

Epilogo

Non appena i prigionieri hanno lasciato Kozielsk – chi a piedi, chi su furgoni privi di finestrini- le guardie tornano quella di sempre: autoritarie, gelide e sprezzanti.  Alla stazione ci sono vagoni ferroviari ad attenderli:  gli ufficiali e i soldati  polacchi  salgono e le porte si chiudono. Qualcuno incide il proprio nome sulle pareti dei vagoni, scrive un breve messaggio, indica le località toccate; chi viene dopo di lui ( i sovietici usarono gli stessi convogli per tutti i successivi “ carichi”) , legge quei messaggi, scrive qualcosa a sua volta. Altri  annota sul proprio diario: sembra si vada verso ovest.
Si torna a casa?
La meta finale è una stazione appena oltre Smolensk, Gnezdovo. Scendono dai treni, un gruppo alla volta. Davanti alla stazione ci sono alcuni furgoni in attesa.  Scrive, sul suo diario, il maggiore Adam Solski, una delle vittime: “ La giornata.. ( è il 9 aprile).. è cominciata in modo molto strano. Siamo partiti in piccoli furgoni cellulari composti da tante piccole celle…Siamo stati portati in qualche posto in una foresta: sembra un luogo per vacanze estive. Siamo poi stati perquisiti accuratamente. Hanno preso i rubli, la cintura, il temperino.”
Quella foresta è la foresta di Katyn.  Ai prigionieri viene passata una corda al collo e, con la stessa corda, vengono legate loro le mani dietro la schiena; qualcuno viene anche imbavagliato, a qualcun altro viene riempita la bocca di segatura. In ginocchio sul ciglio delle fosse, con i pastrani tirati fin sulla testa o addirittura sdraiati sui compagni morti o moribondi,  i prigionieri  aspettano il colpo di grazia. Un ufficiale sovietico spara, un altro ricarica l’arma, una Walther tedesca. I prigionieri cadono gli uni sugli altri.
Alla fine  sopra di loro  si stenderà un bosco di abeti rossi.

Da leggere.
Robert Harris, Enigma, Mondadori, 1996

G. Sanford, Katyn e l’eccidio sovietico del 1940: verità, giustizia, memoria, Utet,2007

Victor Zaslavsky, Pulizia di classe, Il Mulino, 2006

J.K. Zawodny, Morte nella foresta, Mursia,  1973

Da vedere.

Andrzeij Waida, Katyn, 2007

 

Gli avvenimenti in breve.

 23 agosto 1939: a Mosca i ministri  degli Esteri dell’ Unione Sovietica (Molotov ) e della Germania nazista (Ribbentrop) firmano il patto di non aggressione, meglio conosciuto come patto Ribbentrop- Molotov. Un protocollo segreto sancisce di fatto la spartizione della Polonia fra Germania e Unione Sovietica.

1° settembre 1939: le divisioni corazzate  tedesche entrano in Polonia . L’esercito polacco compie prodigi di valore, ma deve cedere allo strapotere degli invasori.

1° settembre 1939: i partiti comunisti di Francia, Belgio, e Stati Uniti esprimono la loro solidarietà alla Polonia aggredita.

5 settembre 1939: Stalin riceve a Mosca il segretario del Comintern, Georgij Dimitrov  e detta la linea: la Polonia è uno stato borghese e fascista e opprime le minoranze bielorusse e ucraine. I partiti comunisti aderenti al Comintern invertono la rotta e accettano immediatamente la  nuova linea, con la sola eccezione del PC finlandese.

17 settembre 1939 : senza dichiarazione di guerra, l’Armata Rossa attraversa il confine con la Polonia prendendo alle spalle il provatissimo esercito polacco.

19 settembre 1939: il Cremlino approva un documento sullo status di prigioniero di guerra. E’ previsto l’utilizzo forzato dei prigionieri- ufficiali compresi-  “ nell’industria e nell’agricoltura dell’URSS”.

20 settembre:  a Mosca viene creato, per iniziativa di Berija,  il DPA, il Dipartimento per la gestione dei prigionieri di guerra, sottoposto alla supervisione dell’NKVD, il Comitato per gli Affari Interni.

21 settembre 1939 : il generale G.  Kulik , comandante delle truppe d’invasione, segnala a Mosca: i campi sono inadeguati a contenere tutti i prigionieri.

2 ottobre 1939: il Politburo emana una direttiva in base alla quale vengono liberati i prigionieri di guerra bielorussi e ucraini ( dei quali, però, 25.000 restano a disposizione dei sovietici  per essere impiegati nella costruzione della strada Novograd-Leopoli), trattenuti gli ufficiali polacchi e istituiti  quattro campi principali :  Starobelsk ( per gli ufficiali),  Ostaskov per i gendarmi, gli agenti segreti, le guardie carcerarie e di confine, i funzionari pubblici, Kozielsk e  Putivil per gli ufficiali e i militari prigionieri residenti nella parte tedesca.

8 ottobre 1939 : direttiva di Berija ai comandanti dei campi: infiltrare spie, raccogliere informazioni sui prigionieri, sulle loro convinzioni politiche, ecc; compilare fascicoli, avviare un programma di “ rieducazione”.

Fine di ottobre, inizio novembre del 1939: scambio di prigionieri polacchi fra tedeschi e sovietici. I  soldati, gli   ebrei e i comunisti polacchi residenti nella zona di pertinenza della Germania e rifugiatisi, per non cadere nelle mani dei nazisti,  nelle zone occupate dall’Armata Rossa  vengono rispediti nelle zone di residenza e  consegnati ai tedeschi. Gli ufficiali vengono trattenuti.

2 marzo 1940: il Politburo approva la proposta presentata da Berija e da Nikita Krusciov- all’epoca primo segretario del PC ucraino-  relativa alla deportazione in Kazakistan e alla confisca dei beni dei familiari dei militari e dei civili polacchi  detenuti nei campi di prigionia per un totale di 22-24.000 famiglie. Insieme ai familiari dei detenuti, dovevano essere deportate anche “ tutte le prostitute (…) schedate dagli organi dell’ex polizia polacca e che continuano a esercitare la prostituzione.”

5 marzo 1940:  viene approvata la proposta di Berija , presentata con un promemoria a Stalin , di contrastare una possibile “ controrivoluzione” nella Polonia occupata eliminandone  gli ispiratori: gli ex ufficiali dell’esercito, le guardie carcerarie e di confine, gli agenti di polizia, i funzionari dello stato, tutti , stando a Berija, dichiaratamente antisovietici( in totale quasi 25.000 detenuti). Il Politburo recepisce per intero le osservazioni di Berija e le approva senza alcun cambiamento. Sul documento ci sono le firme di Stalin, Molotov, Berija, Voroscilov, Kalinin, Kaganovic, Mikojan ( gli ultimi due non presenti alla riunione, ma considerati favorevoli). Non c’è quella di Krusciov, ma soltanto perché, all’epoca,  “semplice” primo segretario del Partito Comunista dell’Ucraina e non ancora membro del Politburo. Nel suo promemoria, Berija raccomanda di “ esaminare i casi secondo  una procedura speciale, applicando nei confronti dei detenuti la più alta misura punitiva: la fucilazione”. E aggiunge: “ Condurre l’indagine relativa ai singoli senza mandare i detenuti a processo, senza elevare a loro carico capi di imputazione, senza documentare la chiusura dell’istruttoria e senza formulare accuse..”

13 aprile 1940: inizia la deportazione dei familiari degli internati polacchi  nei campi di prigionia sovietici. Le deportazioni sono ancora in atto al momento dell’invasione nazista dell’URSS.

Aprile –maggio  1940: i militari  polacchi, le guardie carcerarie, gli agenti di polizia, i funzionari dello stato in mano sovietica detenuti a  Starobelksk e a Ostaskov  vengono prelevati dai campi  di prigionia, giustiziati con un colpo alla nuca nelle celle delle prigioni o nelle caserme  e sepolti nelle campagne vicine a Charkov ( gli assassinati a Starobelsk) e a Bologoe ( quelli  di Ostaskov). Le esecuzioni si protraggono per tutta la notte, praticamente senza interruzione . La procedura  è sempre la medesima: il prigioniero sceso dal  furgone cellulare ( i cosiddetti “ corvi neri”), viene accompagnato in una stanza dove viene legato o ammanettato e trascinato quindi  nella stanza delle esecuzioni( a volte insonorizzata, altre volte , rumorosissima). Qui due guardie lo tengono fermo, una terza guardia ( solitamente un ufficiale) spara alla nuca. Il corpo del giustiziato viene portato all’esterno attraverso  una porta secondaria, caricato su un autocarro a volte scoperto, a volte no e portato, insieme ad altri cadaveri, sul luogo della sepoltura. Una secchiata d’acqua toglie il sangue dal pavimento.

Più di  quattromilatrecento  militari  polacchi( in gran parte ufficiali) provenienti da Kobielsk vengono giustiziati in un bosco vicino a Katyn, in Bielorussia, e sepolti in fosse comuni. Trecentonovantacinque ( 448 secondo Zawodny) ufficiali vengono risparmiati, sia per interventi esterni ( quello del re d’Italia  a favore dei principi Radizwil e Lubomirski, ad esempio),  sia perché giudicati “utili”  in previsione della formazione  di un esercito comunista polacco.  Tuttavia, nonostante le pressioni  e le tecniche raffinate impiegate  dai carcerieri,  pochi aderiscono e, alla fine, anche questi pochi passano agli ordini del generale Anders. Solo il colonnello-poi generale- Zygmunt Berling , combatterà dalla parte dei sovietici.

22 giugno 1941, domenica : all’alba , le divisioni corazzate tedesche entrano a tutta velocità e quasi incontrastate in Unione Sovietica. E’ cominciata l’operazione “ Barbarossa”.

12 agosto 1941: il governo sovietico decreta l’amnistia dei cittadini polacchi imprigionati o deportati “ a qualsiasi titolo” nel precedente anno e mezzo. Dal Kazakistan e da altre località tornano i familiari superstiti delle vittime. All’appello ne mancano alcune migliaia..

3 dicembre 1941: il capo del nuovo  governo polacco in esilio, generale  Wladislaw Sikorski e il comandante militare del ricostituito esercito polacco, generale Wladislaw  Anders ( secondo un’altra versione, l’ambasciatore polacco a Mosca, Kot) chiedono a Stalin in persona  notizie sugli ufficiali prigionieri nei campi di prigionia sovietici . “ Forse sono fuggiti in Manciuria o forse sono nascosti da qualche parte in Unione Sovietica” è la risposta.

Marzo 1942: i familiari dei prigionieri non rientrati in servizio dopo l’amnistia  e perciò dichiarati  “dispersi” pubblicano sul giornale dell’ambasciata polacca a Mosca appelli e annunci di ricerca. La censura sovietica ne impedisce la diffusione.

13 aprile 1943: i tedeschi rendono noto di aver  individuato nei  pressi di Katyn  migliaia di cadaveri di militari polacchi  sepolti in fosse comuni  e accusano del massacro i sovietici. La notizia fa il giro del mondo.

15 aprile  1943: il generale Sikorski  riferisce a Churchill di avere informazioni sicure sull’assassinio da parte sovietica di migliaia di prigionieri polacchi. Il premier britannico risponde: “ Se sono morti non c’è niente che possa riportarli indietro”. E, qualche giorno dopo,  all’ambasciatore sovietico comunica: “ Dobbiamo sconfiggere Hitler e questo non è il momento per litigi o accuse”.

18 aprile 1943: il generale Anders ordina di celebrare messe in suffragio dei prigionieri polacchi “assassinati  nei campi di prigionia sovietici” e Sikorski chiede l’intervento “ super partes” della Croce Rossa Internazionale per fare luce su quanto successo a Katyn. La notizia circa le intenzioni polacche compare in un lancio dell’agenzia di stampa  Reuter il giorno prima della sua ufficializzazione. I tedeschi ne approfittano e , qualche ora prima della consegna della richiesta da parte dei polacchi , chiedono  a loro volta  l’intervento della Croce Rossa. Sono indubbiamente abili: la loro mossa fa apparire la richiesta polacca in sintonia  con  quella tedesca. Il che fa andare su tutte le furie Stalin. La Croce Rossa si dimostra disponibile, ma pone una condizione: tutte le parti in causa- e, quindi anche l’Urss-  devono chiederne l’intervento. Stalin , naturalmente, si guarda bene dal farlo. Nell’intento di creare dissapori e confusioni  fra gli Alleati,  i tedeschi  accusano  nei giorni seguenti la Gran Bretagna di essere l’ispiratrice dell’intera manovra. Il che costringe Churchill, prima  a far ritrattare i polacchi, poi a “ raffreddare” la questione di Katyn.

26 aprile 1943: Stalin  “ sospende” le relazioni con il governo polacco in esilio, accusandolo di collaborare  con i nazisti.

28 aprile 1943: Churchill, evidentemente preoccupato circa la tenuta dell’alleanza anti-nazista,   scrive ad Antony Eden, ministro degli Esteri britannico: “ Non si deve continuare  patologicamente a girare intorno alle tombe vecchie di tre anni presso Smolensk”.

30 maggio 1943: la Commissione internazionale istituita dai tedeschi nell’aprile precedente e presieduta dall’illustre medico ungherese  Ferenc Orsos( secondo Zalawski, dal professor François Naville, svizzero)  rende note, sulla base di accurati esami autoptici e di altre non meno importanti osservazioni( l’età degli abeti rossi piantati sulle fosse, ad esempio) , le proprie conclusioni: i tre generali e gli oltre quattromila  ufficiali e soldati semplici polacchi , la donna  e il prete cattolico sepolti a Katyn sono stati giustiziati nel 1940.  A identiche conclusioni arrivano anche i componenti del comitato tecnico  della Croce Rossa polacca– infiltrato da membri della resistenza- al lavoro, ancorché senza investitura ufficiale, ma con l’autorizzazione tedesca, a Katyn nello stesso periodo. Il rapporto del comitato resta segreto e  viene inviato a Londra . Sarà reso pubblico solo nel 1989.  Una terza commissione, formata da medici legali tedeschi e operativa nell’aprile-maggio del ’43,   arriva alle medesime conclusioni formulate dalla commissione internazionale( nella quale figuravano medici olandesi, belgi, svizzeri, italiani, bulgari ecc, ma nessun tedesco) e dal comitato della Croce Rossa polacca. Tutte e tre le commissioni lavorano contemporaneamente, ma  separatamente le une dalle altre e, stando alle testimonianze,  in piena autonomia. All’esumazione dei cadaveri assistono , per espressa volontà tedesca, anche alcuni prigionieri di guerra alleati. Himmler,  a un certo punto, accarezza addirittura l’idea di invitare a Katyn  come testimone lo stesso generale Sikorski.

Luglio 1943: il generale Sikorski muore in un  misterioso incidente aereo.

Gennaio 1944: la commissione sovietica presieduta dal professor  Nicolaj Burdenko  colloca l’assassinio di Katyn  in un periodo compreso fra l’agosto e il dicembre del 1941 e lo attribuisce  ai nazisti. La giovane giornalista Kathleen Harriman, figlia dell’ambasciatore americano a Mosca  e invitata a Katyn, invia un rapporto a Washington  in cui ritiene  convincente la versione sovietica. Anni dopo lo sconfesserà.

1° agosto 1944: Varsavia si ribella agli occupanti tedeschi. L’Armata Rossa è vicinissima, ma non interviene, qualcuno dice perché provata, qualcun altro intenzionalmente. La rivolta dura sessantatré  giorni. Alla fine Varsavia viene completamente rasa al suolo dai tedeschi  e duecentocinquantamila suoi  abitanti  perdono la vita.

23 maggio 1946: Nicolaj Zorja, uno dei pubblici ministeri incaricato di sostenere la versione sovietica su Katyn  davanti alla corte di Norimberga, viene trovato morto nella propria stanza. Aveva manifestato perplessità circa l’attendibilità di quella versione.

1946:  il tribunale (statunitense) di Norimberga  archivia il caso Katyn perché, a suo avviso,  mancano le prove  della colpevolezza tedesca. Appunto perché il proprio compito è soltanto quello di stabilire se i tedeschi siano o meno colpevoli  in relazione a determinati fatti,   il tribunale, una volta riconosciuta la mancanza di prove a carico dei tedeschi su quanto accaduto a Katyn,  non apre alcuna inchiesta ulteriore  per cercare di individuare i responsabili.

1951-52: il Congresso degli Stati Uniti d’America avvia un’inchiesta su Katyn e riconosce la responsabilità sovietica. La Gran Bretagna – per ragioni di carattere economico e politico-  è più tiepida e i sovietici ne approfittano.

3 marzo 1959: l’allora capo del KGB, generale Alexandr Selepin, invia una lettera a Nikita Krusciov in cui definisce i fascicoli individuali relativi ai prigionieri polacchi e conservati in un archivio supersegreto privi “ di alcun interesse operativo né valore storico” e ne consiglia la distruzione. Il Comitato per la Sicurezza di Stato approva la proposta.

1963: esce il libro Morte nella foresta, di JK Zawodny, nel quale l’autore attribuisce, sulla base dei documenti allora disponibili ( i rapporti delle commissioni, i diari dei prigionieri, ecc) la  responsabilità dell’eccidio ai sovietici.

1972: il governo britannico vieta agli emigrati polacchi di erigere un monumento nel centro di Londra  in memoria delle vittime di Katyn. Quando il monumento viene inaugurato in un cimitero privato, il governo vieta ai ministri e ai militari di partecipare alla cerimonia.

1972: un nota informativa del KGB ad uso delle ambasciate sovietiche insiste sulla colpevolezza tedesca e cita a supporto la sentenza del tribunale di Norimberga( che,a dire il vero, aveva  asserito il contrario).

13 ottobre 1990: Michail Gorbaciov riconosce le colpe dell’NKVD , porge ufficialmente le scuse alla Polonia, ma non rende pubblici i protocolli segreti ( Patto Molotv-Ribbentrop, lettera di Berija a Stalin, lettera di Selepin, ecc). Sarà Boris Eltsin a farlo, nel 1992.

I caduti.

In sette  delle otto  fosse scoperte a Katyn furono rinvenute secondo la Commissione internazionale  4.143 salme; secondo il comitato della Croce Rossa polacca, 4.243. Nella fossa numero 8, scavata solo parzialmente,  furono rinvenuti  altri duecento cadaveri, per un totale complessivo di 4.343  o 4.443, a seconda delle versioni. La maggior parte di essi erano cadaveri di ufficiali polacchi, ma furono trovate le salme di numerosi soldati semplici e di una ventina di persone in abiti borghesi. Fra i cadaveri anche quelli di un prete cattolico  e di una donna, tenente  dell’arma aerea polacca e giustiziata insieme ai commilitoni. Era figlia di un generale.

Tutti i giustiziati provenivano dal campo di prigionia di Kozielsk. I  tedeschi sapevano che i polacchi stavano cercando 15.000 fra soldati sottufficiali e soldati internati nei campi di prigionia sovietici e mai ritrovati dopo la concessione dell’amnistia da parte di Stalin. Così,  quando annunciarono la scoperta delle fosse, parlarono di 11-12 mila cadaveri. Poiché le salme rinvenute a Katyn erano un terzo della cifra annunciata, i tedeschi fecero scavare a lungo nella zona, senza per altro trovare alcunché.

I dati  di quella “ pulizia di classe” – di cui Katyn fu l’aspetto “politico”  più rilevante-  compaiono nella lettera con la quale  il capo del KGB, generale Alexandr  Selepin, suggerisce a Krusciov  di distruggere i fascicoli dei prigionieri. Secondo Selepin le  vittime furono in totale  21. 857: a Katyn 4.421( più o meno la cifra calcolata dai polacchi);  a Starobelsk, vicino a Karkov, 3.820;  a Ostaskov ( prov. Kalinin)6.311;   in altri campi e prigioni dell’ Ucraina e della Bielorussia 7.305. A questi vanno aggiunte le migliaia di deportati morti di stenti e di privazioni nei  luoghi di deportazione.

 

Sotto il titolo: un’inquadratura del film Katyn di Andrzeij Wajda


Ditelo ai vostri uomini

06/09/2013

Sicilia 1943

Prologo.

Il maggiore dei Royal Marines William Martin nato a Cardiff, Galles, il 29 marzo 1907,  aveva un fidanzata di nome Pam , un padre premuroso e qualche guaio con la propria banca. La prima gli scriveva lettere d’amore, il secondo si firmava l’affezionatissimo padre,  la  banca lo invitava a saldare uno scoperto di 79 sterline, 19 scellini e due penny. Ma per il maggiore Martin tutto questo, ormai, non significava granché. Perché il maggiore Martin era morto. Annegato, probabilmente dopo un incidente aereo. La deriva lo aveva portato sulle coste spagnole vicino a Huelva dove intorno alle 9,30 del mattino del 30 aprile 1943 un pescatore lo aveva trovato avvisando subito  le autorità locali.
Il maggiore Martin aveva con sé una lettera d’amore e una fotografia di Pam , una lettera del padre, una ricevuta della gioielleria SJ Philipp Lt comprovante l’acquisto di un anello di fidanzamento, la lettera di sollecito della banca e, in una cartella legata alla cintura,  un paio di lettere dal contenuto esplosivo.
La prima era del vice capo di stato maggiore imperiale sir Archibald Nye e aveva come destinatario il generale Harold Alexander; la seconda era dell’ammiraglio Lord Louis Mountbatten ed era indirizzata all’ammiraglio Andrew Cunningham, comandante delle forze navali britanniche nel Mediterraneo. Con il tono confidenziale di chi si rivolge a un vecchio amico,  sir Nye parlava di piani per sbarcare in Grecia, con il nome in codice di Husky,  un paio di divisioni; accennava a un finto sbarco in Sicilia  e ad altre operazioni nel Mediterraneo (l’operazione Brimstone, ad esempio). Lord Mountbatten qualificava Martin come esperto di guerra anfibia nonché come latore di un’importante e urgente lettera per il generale Alexander. E concludeva: rimandalo a Londra alla svelta, magari con un po’ di sardine, visto che qui sono razionate. Quella strana allusione alle ” sardine” poteva far pensare a un possibile sbarco in Sardegna.[1]
Era tutto un colossale imbroglio. Il maggiore Martin non esisteva, non era mai esistito. Si trattava di una clamorosa messinscena architettata dai Servizi inglesi per far ritenere imminente un attacco alleato alla Grecia o alla Sardegna. Il cadavere recuperato nelle acque spagnole era quello di un povero disgraziato morto dopo aver ingerito veleno per topi. Un sommergibile britannico lo aveva portato fin lì dentro un contenitore sigillato ripieno di ghiaccio secco e poi lo aveva abbandonato a un miglio dalla riva con indosso un giubbotto di salvataggio.
Avvisati dagli spagnoli, gli agenti tedeschi dell’Abwehr esaminarono il cadavere e i documenti e la bevvero tutta d’un fiato. D’altronde quella messinscena non solo era verosimile: era perfetta. Tutto era stato curato fin nei minimi particolari: l’uniforme, la  scelta del nome( fra i Royal Marines , Martin era un cognome molto diffuso), un biglietto dell’autobus, le matrici dei biglietti di un teatro di Londra con la data del 27 aprile, la ricevuta di pagamento per un pernottamento presso il Club della Marina, un’altra ricevuta per l’acquisto di camicie militari presso un negozio di Londra , la foto della fidanzata, persino la biancheria intima. Quella messinscena avrebbe ingannato chiunque. Non per niente nella sezione che l’ aveva architettata- quella del comandante Ewen Montagu-lavorava anche un signore destinato a diventare famoso grazie alle spie e agli agenti speciali: Jan Fleming.
Il corpo del maggiore Martin fu consegnato al viceconsole britannico e sepolto con gli onori militari nel cimitero di Huelva. Il 4 giugno il  Times di Londra ne  pubblicò il nome nell’elenco dei caduti insieme al nome di due piloti britannici precipitati nelle acque spagnole. La messinscena era completa.

Symbol.

Casablanca, Marocco,  gennaio 1943. Conferenza interalleata , nome in codice  Symbol. Il problema per Roosevelt e Churchill è questo: Stalin si sta accollando praticamente da solo il peso della guerra in Europa, è maledettamente sotto pressione, chiede con insistenza l’apertura di un secondo fronte: bisogna dargli una mano. E fin qui, tutti d’accordo. Già, ma dove aprirlo questo benedetto secondo fronte? In Francia? Ci si sta già lavorando, ma la strada è ancora lunga. Quanto lunga? Un anno se va bene, fanno sapere gli analisti militari. Niente Francia, dunque. Almeno per il 1943.  Ma una mano a Stalin bisogna pur darla, bisogna alleggerire la pressione sull’Armata Rossa, costringendo Hitler a togliere truppe dal fronte orientale per impegnarle altrove.
Altrove sì, ma dove? Visto l’esito favorevole di Torch ( l’invasione dell’Africa settentrionale francese e la successiva conquista della Tunisia), perché non continuare le operazioni nel Mediterraneo  e, già che ci siamo, perché non provare a togliere di mezzo l’Italia, da sempre soft underbelly ( ventre molle) dell’Asse? Non che non ci siano altri “ altrove”, sia chiaro. I Balcani e la Grecia, ad esempio, potrebbero andar bene, ma sono ben presidiati. Meglio l’Italia.
E la Sicilia in particolare. Vicina alle coste nordafricane, nel raggio d’azione dei nostri bombardieri e, una volta occupati gli aeroporti meridionali, anche dei nostri caccia, importante base per il controllo delle rotte marittime nel Mediterraneo  e verso Suez, difesa da truppe italiane poco motivate e da un paio di divisioni tedesche, se cade in mano nostra può esserci molto utile. Hitler, a questo punto, non potrebbe più restare indifferente,  vedrebbe i Balcani minacciati e  finirebbe  col distaccare truppe dal fronte orientale. E che dire poi degli effetti politici provocati in Italia da un simile sconquasso?  Mussolini resisterebbe? O non sarebbe, piuttosto, destituito dal re o da un golpe di palazzo privando Hitler del suo più fedele alleato?
Si sbarca in Sicilia, dunque. Tutto a posto? Neanche per idea. Perché sbarcare in Sicilia non basta. La vera questione è un’altra: che facciamo dopo averla conquistata? Invadiamo la Penisola, of course, propongono gli inglesi; finiamola lì e addestriamo le truppe in vista dello sbarco in Francia,  ribattono gli americani. E rincarano la dose: questa storia di mettere piede sulla Penisola ci sembra un sciocchezza madornale, una cosa senza capo né coda. Una volta cominciata un’operazione, lo sapete bene, bisogna andare fino in fondo. E quanto ci costerebbe andare fino in fondo in termini di uomini, di materiali, di risorse sottratte allo sbarco in Francia, di tempo sottratto alla campagna nel Pacifico? Bombardiamola all’infinito se proprio non dovesse cedere, ma teniamo le nostre truppe alla larga dalla Penisola, da questa ” pompa aspirante” di risorse e di tempo ( Marshall).
Ma quale sciocchezza,  ribattono i britannici, ma quale ” pompa aspirante”. Riflettete, ragionate. Husky, secondo tutti i calcoli, finisce in un mese, massimo in un mese e mezzo. E dopo che facciamo? Teniamo i soldati inattivi, i nostri aerei a terra, le nostre navi in porto? Che ne penserà Stalin? No: prendiamo la Sicilia, passiamo lo Stretto e risaliamo la Penisola. Lo sbarco in Francia? Chissà se si può davvero fare, se ci saranno forze sufficienti o sufficienti mezzi da sbarco. Mentre noi ora siamo qui, a due passi dall’Italia: sarebbe davvero colpevole sprecare una simile occasione per abbreviare, qui e ora, il corso della guerra.
E così , una volta terminata la conferenza, è tutto un fiorire di memorandum e di contro-memorandum,  di proposte e di contro-proposte. Ci vorrà addirittura un’altra Conferenza ( Trident, maggio 1943) per definire i dettagli dell’operazione. Gli inglesi hanno i loro buoni motivi per volere a tutti i costi la prosecuzione delle operazioni nel Mediterraneo. Non ultimo quello di fare dell’ ex mare nostrum un mare britannicum. E che dire poi dell’idea di  tenere Stalin lontano dai Balcani? O almeno di provarci? Gli americani, per parte loro, non mollano: il secondo fronte dovrà essere aperto in Francia. Punto.  Se Casablanca doveva essere il “simbolo” di collaborazione, unità d’intenti, coesione e chi più ne ha più ne metta, c’è riuscita in pieno.

Husky.

Sul piano militare non va meglio. Nel pollaio alleato ci sono troppi galli e galletti sempre pronti a gonfiare il petto e ad alzare la cresta. Montgomery vuole la platea solo per sé, Patton critica tutto e tutti; Eisenhower – prima di Torch, un perfetto sconosciuto o quasi- comanda l’intera baracca, Alexander le forze di terra, Tedder  controlla la Forza aerea e Cunningham quella dei cannoni navali. Tre britannici più Montgomery nei posti chiave. Che gli inglesi non si fidino fino in fondo degli americani? D’altronde, perché fidarsi: vuoi mettere El Alamein con il passo di Kasserine?
La preparazione del piano operativo, poi, è una sofferenza continua. Sbarchiamo a nordovest, no sbarchiamo a sudest ; attacchiamo direttamente Messina, no Messina  è fuori dal raggio d’azione dei nostri caccia e non ci sarebbe copertura aerea; prendiamo prima di tutto gli aeroporti, no prendiamo i porti, anzi prendiamoli entrambi; distribuiamo le forze su un fronte molto ampio, no teniamole unite, in modo che possano coprirsi a vicenda. Alla fine Montgomery, sempre più calato nei panni dello stratega infallibile, interviene a muso duro: niente dispersione di forze, niente sbarchi a nordovest, concentriamoci sulla parte sudorientale dell’isola e forniamoci appoggio reciproco. Eisenhower non ne può più di tutto quel tira e molla e cede.
Ed eccolo il piano. Due armate – l’Ottava britannica e la Settima americana- devono sbarcare parte dei propri uomini ( sette divisioni) su un fronte di circa centocinquanta chilometri nella zona meridionale e sudorientale della Sicilia. Per appoggiare lo sbarco, unità aviotrasportate devono prendere terra dietro le linee nemiche. I britannici devono sbarcare a nord della penisola di Pachino, prendere Siracusa e proseguire poi verso Augusta, Catania, l’aeroporto di Gerbini e Messina. Gli americani devono sbarcare nel Golfo di Gela fra Licata e Scoglitti,  impadronirsi di alcuni aeroporti fra Licata e Comiso (Ponte Olivo, Biscari), raggiungere la cosiddetta “ Linea Gialla”, situata a una quarantina di chilometri verso l’interno, allo scopo di controllare le alture e di proteggere il fianco sinistro dell’Ottava armata. Una volta messo in sicurezza il fianco sinistro di Montgomery, gli uomini di Patton devono spostarsi ancora più avanti e raggiungere una nuova linea, denominata “Linea Blu” e controllare la strada da e per  Piazza Armerina. Non si parla di operazioni verso Palermo.( Consulta la cartina riportata al termine del post. Fonte: www.ibiblio.com).
Come si può vedere, la parte del leone è assegnata ai britannici dell’Ottava armata; Patton sembra avere solo il compito di proteggerne i fianchi e di agevolarne l’avanzata. Visto il tipo, quanta alka seltzer gli sarà voluta per mandare giù quella decisione? In più, Alexander la combina grossa.  Non dice a Patton che cosa fare un volta raggiunta  la Linea Blu. Si deve fermare? Può andare avanti? Deve andare avanti? E se sì, in quale direzione? Alexander si riserva di decidere una volta consolidate le teste di ponte a terra. Combinando un bel guaio.
Ad affrontare questa formidabile armada ( in Sicilia, il primo giorno, sbarcheranno più uomini che in Normandia) ci sono circa trecentomila soldati italiani inquadrati in sei divisioni costiere, in quattro divisioni di fanteria e in diverse unità “ locali” di difesa. A dar loro manforte ci sono trentamila soldati tedeschi organizzati in due divisioni: la Quindicesima Panzer e la divisione corazzata Hermann Goering. Tutte agli ordini del generale Alfredo Guzzoni, italiano.  I nostri, secondo copione,  sono male equipaggiati, scarsamente addestrati e giù di morale, ma, a parte il morale, non è che i tedeschi se la passino meglio:  la Quindicesima è a pieno organico, ma la Hermann Goering non lo è affatto e annovera fra le proprie file anche parecchi elementi inesperti. Un po’ poco per affrontare lo strapotere anglo-americano.
Se dovessimo seguire il solito stereotipo degli italiani arruffoni e pressappochisti, non dovremmo né potremmo risparmiare i nostri comandanti, i “ salami” secondo una celebre – e per certi versi ingiusta-  definizione di Rommel. Guzzoni avrà anche dei difetti, può darsi, ma non è certo un “ salame”. Gli anglo-americani – è il suo ragionamento-  ci bombardano da settimane, hanno preso Pantelleria e Lampedusa[2], presto arriveranno anche qui e saranno molti, troppi per noi. E fin qui, diciamoci la verità, ci sarebbe arrivato chiunque. Ma se noi riuscissimo a fermarli sulle spiagge, continua Guzzoni, magari le cose cambierebbero. Potremmo tenerli inchiodati il tempo necessario per ricevere rinforzi e per contrattaccare. La questione è: dove sbarcheranno? Possono sbarcare a ovest e puntare su Palermo oppure a sud e a sudest e puntare su Messina o sbarcare in entrambi i posti. Probabilmente non sparpaglieranno le loro forze e sbarcheranno in un punto solo.
Ma dove? Secondo me, hanno bisogno di porti e di aeroporti: quindi sbarcheranno nella zona meridionale per tagliare fuori alla svelta Messina e bloccarci qui. Che fare, allora? Per stare sul sicuro è meglio mandare due delle nostre divisioni di fanteria verso Palermo e due a sudest e schierare le due divisioni tedesche in quest’ultimo settore, perché sarà qui, fra Pachino e Licata, che il nemico sbarcherà.
Guzzoni ne parla con Kesselring, il comandante delle forze tedesche nel Mediterraneo. E questa volta a fare la figura del “ salame” è “Albert il Sorridente”: niente da fare, obietta, entrambi i possibili luoghi dello sbarco vanno presidiati. E sposta la Quindicesima Panzer Division– a pieno organico e in piena efficienza- a ovest[3]. Risultato: nelle prime, cruciali ore dell’invasione , a presidiare i settori meridionale e orientale, insieme alle unità italiane, c’è la sola Hermann Goering, parzialmente sotto organico.

Il vento di Mussolini.

Brutta, bruttissima notte quella fra il 9 e il 10 luglio, giorno dello sbarco. Notte di tregenda, notte di onde impetuose, notte di mal di mare. Il vento soffia a più di sessanta chilometri  all’ora, sballotta i mezzi da sbarco ora qui ora là, sbatacchia senza pietà gli aerei e gli alianti, disorienta gli inesperti piloti, trasforma il lancio dei parà in un mezzo disastro.  Per appoggiare Montgomery, decollano 147 alianti carichi di truppe: solo dodici raggiungono gli obiettivi. Gli altri o finiscono in mare o si disperdono chissà dove. Nella zona della Settima armata ( Patton) va forse peggio. Gli uomini di un intero battaglione – il Secondo del colonnello Mark Alexander-  prendono terra a quasi cinquanta chilometri dall’obiettivo. I GI battezzano subito quel vento impetuoso “il vento di Mussolini”.
Tuttavia , una volta a terra, i parà americani si riorganizzano in fretta, agiscono in piccoli gruppi, attaccano le pattuglie, interrompono le linee telefoniche e telegrafiche, creano scompiglio e confusione alle spalle di italiani e tedeschi. Settantacinque di loro attaccano addirittura una città di ventiduemila abitanti: Avola. Nel settore inglese, una piccola unità atterrata con gli alianti- il plotone del tenente Louis Withers- riesce a impadronirsi del Ponte Grande, importantissima via d’accesso da e per Siracusa.
Saputo dei primi lanci, Guzzoni non ci mette molto a capire: stanno arrivando e proprio dove avevo previsto io , a sud e a sudest. All’una e trenta allerta le posizioni costiere. Se fossero disponibili forze sufficienti, gli anglo-americani potrebbero essere fermati sulle spiagge. Ma non ci sono forze sufficienti. La Quindicesima Panzer, colpevolmente inviata a ovest, non può essere impiegata – non immediatamente almeno- ,  le nostre divisioni sono male armate, peggio equipaggiate e forse anche demoralizzate. E così,  calmatosi il “ vento di Mussolini”, gli anglo-americani prendono terra quasi incontrastati.  La sera del 10 luglio, Montgomery, dopo essere entrato a Siracusa, si è portato sulla strada per Augusta; nel proprio settore, Patton ha creato una solida testa di ponte di una ventina di chilometri quadrati; i parà americani hanno respinto un attacco portato con i carri armati leggeri da italiani( Divisione Livorno) e tedeschi intorno alla posizione- chiave di Piano Lupo, i cannoni navali hanno inferto gravi danni ai granatieri della Hermann Goering e ai loro Tiger.
Ma non sempre tutto va bene. “Il vento di Mussolini” ha disperso i mezzi da sbarco; la morbida sabbia delle spiagge fa slittare le ruote degli autocarri e rallenta i carri armati. Si procede a rilento. Il 180.mo reggimento della 45.ma divisione americana è sparpagliato su un fonte di una ventina di chilometri. Un suo battaglione, il Primo, attaccato dai tedeschi subisce perdite elevate.
Nel settore britannico al ponte di Primosole ( Primasole, come è segnato erroneamente sulle mappe anglo-americane), si accende una battaglia violentissima, durante la quale accade di tutto. Montgomery  ha fretta, vuole quel ponte sul Simeto per raggiungere Catania alla svelta. Pianifica un’operazione combinata fra truppe di terra e truppe aviotrasportate( la cosiddetta “Operazione Fustian”, fustagno)  e spera nella fortuna. Speranza vana.
Questa volta, però, il “vento di Mussolini” non c’entra. Gli aerei e gli alianti provenienti dal Nordafrica incappano prima nel fuoco amico, poi in quello nemico. I piloti non hanno molta voglia di continuare quella missione scombiccherata e pericolosa, qualcuno fa il furbo e comincia a girare in tondo. Il tenente colonnello Alastair Pearson, comandante di battaglione, quando se ne accorge, deve estrarre il revolver d’ordinanza per costringere il pilota del suo aereo a dirigersi sull’obiettivo. Nel frattempo, i tedeschi hanno fatto arrivare una divisione di paracadutisti- addestrati, motivati, decisi-  dalla Francia.
I britannici prendono il ponte e lo sminano, poi subiscono un contrattacco e sono costretti a ritirarsi. Si rifanno sotto, ma la resistenza è accanita, le posizioni tedesche sono forti, le perdite aumentano. Da un parte e dall’altra. Poi il colonnello Pearson- quello stesso Pearson che aveva costretto, armi in pugno, il pilota del suo aereo a smetterla di girare in tondo-  porta un paio di compagnie con i mortai al di là del Simeto sfruttando un guado e si posiziona alle spalle dei tedeschi. La battaglia non è finita, ma con questa mossa la sorte del ponte è segnata.
Via libera verso Catania, dunque? Magari. Primosole viene conquistato il 16 luglio, Catania viene raggiunta tre settimane dopo,  il 5 agosto. E fra il 13 luglio e il 5 agosto ne succedono di tutti i colori. Guzzoni resta formalmente il comandante, ma, ogni giorno di più, il generale tedesco Hans-Valentin Hube diventa de facto il padrone del vapore. La resistenza si inasprisce e Montgomery avanza a passo di lumaca.
Nervoso e stizzito a causa  di quell’ inaspettato fuori programma, il vincitore di El-Alamein suggerisce ad Alexander di spostare più a ovest il confine fra la zona di competenza americana e la zona di competenza britannica, affinché l’Ottava armata possa avanzare al centro e aggirare le posizioni difensive costiere. In pratica significa “ cedere” ai britannici parte della zona e delle conquiste degli americani per far posto a Monty. Detto, fatto. In base ai nuovi ordini di Alexander, l’Ottava armata deve dirigersi verso Enna, piegare a nordest e raggiungere Messina. E la Settima deve farle da ancella, proteggendole il fianco.
Tutta l’ alka seltzer del mondo non sarebbe bastata per far digerire a Patton una simile situazione: la sua Settima armata, la sua armata di killer  già ben oltre la Linea Gialla ridotta di colpo a reggimoccolo di quegli antipatici degli inglesi. Chi credono di essere? I signori della guerra? Ma non doveva essere un’operazione combinata? Non dovevamo anche noi dirigerci verso Messina? Era o non era la Sicilia centrosettentrionale zona di nostra esclusiva competenza? Ci reputano dei novellini buoni a nulla? Questo nuovo ordine , poi,  è una colossale boiata: riposizionandoci perderemo slancio, permetteremo ai tedeschi di organizzare una linea difensiva fra Enna e Catania, butteremo al vento quanto fatto finora . E via di questo passo.
Non è solo offeso, è infuriato. Sogna la rivincita, prepara il colpo di teatro. Con Alexander, tuttavia, sulle prime la prende alla larga. E se mandassi i miei a fare una puntatina verso Agrigento, così tanto per dare un’occhiata? prova a buttare lì. In fondo, la città si trova a poche miglia dalle posizioni raggiunte dalla mia Terza divisione. E va bene, risponde Alexander,  “ ricognizione” autorizzata. Truscott non si fa pregare e il 15 luglio entra in Agrigento.
Patton allora si precipita al quartier generale e strappa ad Alexander l’autorizzazione a dirigersi verso Palermo, il suo vero obiettivo, il suo colpo di teatro.  Ci impadroniremo di un importante porto, punteremo su Messina anche da ovest, è una buona occasione per disorientare il nemico, sostiene a favore della propria causa. Nel frattempo, mentre io mi dirigo verso Palermo, il generale Bradley si muove verso nord e taglia l’isola in due. E aggiunge: Montgomery può stare dunque tranquillo.
Alexander sulle prime cede,  poi ci ripensa: niente operazione su Palermo: dirigersi a nord e proteggere il fianco dell’Ottava armata, intima. Ma Patton, lasciato il quartier generale, ha già messo in movimento i suoi . Chi riceve il contrordine di Alexander fa il sordo, inventa difficoltà di comunicazione e di interpretazione, lamenta disturbi nella trasmissione radio e riacquista di colpo l’udito e la capacità di discernimento solo quando Patton è già davanti a Palermo. Gli ordini sono chiari: occupare la città stroncando ogni resistenza; arrestare il podestà locale, il sindaco e il prefetto; aprire le celle delle prigioni e restituire la libertà ad alcuni importanti ” personaggi” locali;  liberare le famiglie  anglo-italiane residenti in città.  Non ci sono truppe tedesche. Guzzoni, infatti, ha richiamato in fretta e furia la Quindicesima a est. La città , difesa dalle sole truppe italiane viene raggiunta – e conquistata- in meno di settantadue ore, il 22 luglio.
Con buona pace di Patton e dei mirabolanti vantaggi strategici  secondo lui ottenuti, Kesselring dirà: Palermo? Tempo perso per loro, tempo guadagnato per noi.

 Il Grande Uno Rosso.

Cade Palermo e cade Mussolini. Il 25 luglio, il Gran Consiglio del Fascismo lo sfiducia, il re lo sostituisce con il maresciallo  Pietro Badoglio e la “ guerra continua”.  Più violenta di prima. Soprattutto intorno all’ “Aetna-Stellung”, la linea dell’Etna, allestita dai tedeschi fra Acireale ( est) e San Fratello ( nord) e imperniata attorno ad alcuni capisaldi, il più munito dei quali è la cittadina di Troina.  L’Etna e i Monti Nebrodi – o Caronie- sono, infatti, formidabili ostacoli naturali fatti apposta per allestirvi linee difensive.
E i tedeschi  sono determinati a resistere. Si apprestano a lasciare l’isola e vogliono guadagnare il tempo necessario per farlo in tutta sicurezza. Sia per Patton- in arrivo da ovest- sia per Montgomery- in arrivo da sud,   si fa grigia. E anche per il povero Guzzoni si fa grigia. Lui non vorrebbe andarsene, vorrebbe resistere fino all’ultimo uomo, ma ormai non è più lui a comandare: comanda, in tutto e per tutto, Hans- Valentin Hube. Il generale tedesco fa allestire più linee di difesa scaglionate in profondità in direzione dello Stretto e si prepara a ritirarsi  combattendo da una linea di difesa all’altra,  fino a quando tutti i suoi  non avranno lasciato la Sicilia. ( Qui ulteriori informazioni e una mappa delle difese).
La zona fra Acireale e San Fratello è impervia,  i mezzi corazzati sono bloccati da quella geografia aspra e accidentata. I villaggi si trovano in gran parte sulle alture dove i carri faticano ad arrivare quando non sono  del tutto impossibilitati a farlo. Ci vogliono muli e cavalli per muovere l’artiglieria e i rifornimenti.  In più Patton ha una fretta dannata: vuole a tutti i costi arrivare a Messina prima di Montgomery. Scrive al generale Middleton, comandante della 45.ma Divisione: “ Qui è in gioco il prestigio dell’esercito americano. Dobbiamo assolutamente arrivare a Messina prima degli inglesi e vincere questa corsa.”
Non ha digerito lo sgarbo di Alexander, cova rabbia e risentimento. Se la prende anche con i suoi. Mentre sta visitando un ospedale, si imbatte in un soldato apparentemente sano, gli dà del  vigliacco e lo colpisce con un guanto. Durante la visita a un altro ospedale chiama “codardo figlio di puttana” (yellow son of a bitch) un soldato ricoverato con  i nervi a pezzi, gli agita davanti alla faccia una delle sue Colt con l’impugnatura d’avorio e lo percuote. Eisenhower pretenderà pubbliche scuse.
Sul campo di battaglia,quella di Patton è una corsa tutta in salita. E non solo in senso figurato. Geografia orribile, difesa accanita, malaria e febbri di ogni tipo, stanchezza, caldo africano rallentano la marcia dei GI. Quando , il 31 luglio, parte all’attacco di Troina, la Prima divisione americana – il Grande Uno Rosso- è esausta.  Ha il supporto dell’artiglieria, di un reggimento di truppe da montagna marocchine, dell’aviazione, ma ha anche di fronte a sé un nemico ben trincerato, difficile da aggirare e ampi spazi da attraversare allo scoperto. Gli attacchi portati in successione vengono respinti uno dopo l’altro dai granatieri della Quindicesima Panzer e dagli artiglieri dell’Aosta, le perdite sono elevate, un reggimento ( il 26.mo) viene isolato sul Monte Basilio e deve essere rifornito dall’aria. La battaglia-  insieme a quella di Primosole una delle più violente dell’intera campagna- termina solo quando Hube, terribilmente sotto pressione negli altri punti della linea e incapace di sloggiare ciò che resta del 26.mo dal Monte Basilio,  ordina alla Quindicesima e ai resti dell’Aosta  di ritirarsi verso Randazzo. È il 6 agosto.
A San Fratello la situazione non è molto diversa. Qui Truscott ( Terza divisione) in marcia lungo  la strada costiera ha di fronte  un reggimento di granatieri tedeschi trincerati lungo i fianchi delle colline sovrastanti la strada. Il fuoco tedesco è intenso e preciso, i GI tentano ripetuti attacchi ma inutilmente. Quando Truscott organizza uno sbarco anfibio a Sant’Agata  per aggirare la posizione nemica, i tedeschi hanno già lasciato San Fratello( 7 agosto).
Ormai la linea dell’Etna è rotta in più punti. Montgomery , seppur lentamente,  sta risalendo da sud e il triangolo entro il quale sono confinati i tedeschi e gli italiani si restringe sempre di più. E tuttavia i tentativi di Patton di imbottigliarli aggirandoli con mini -operazioni anfibie ( a Brolo, ad esempio, l’11 agosto) vanno a vuoto. La ritirata tedesca si svolge con ordine e quando il 17 agosto Patton entra a Messina un’ora prima del suo rivale Montgomery, più di centomila soldati italiani e tedeschi hanno passato indenni lo Stretto. Ce l’avrebbero fatta se  la guerra, quella guerra, non fosse stata  anche una questione privata fra uno che , dopo El Alamein, si considerava un fulmine di guerra e un altro che non si riteneva da meno?
Ma la rivalità fra Patton e Montgomery fu solo una delle ragioni di quel successo a metà, di quella ” vittoria amara” secondo la definizione dello storico Carlo D’este.  I tedeschi e gli italiani sfuggirono alla morsa  semplicemente perché mancava un piano per bloccarli in Sicilia. E il piano mancava perché l’operazione Husky nasceva fin da subito come operazione circoscritta, limitata alla conquista della sola Sicilia. Non si pensò mai di realizzare una serie di azioni coordinate in Calabria a sostegno di Husky. Gli americani – e Marshall, il capo di stato maggiore, in particolare- non volevano un’invasione dell’Italia, la sentivano se non proprio come una minaccia a Overlord, sicuramente come un ostacolo alla sua preparazione e alla sua realizzazione. Condurre operazioni sul continente, anche solo per appoggiare lo sbarco in Sicilia,  avrebbe potuto determinare una serie di reazioni a catena e spostare l’attenzione strategica alleata dalla Manica al Mediterraneo.
Di qui l’abbondanza di cautele, di preoccupazioni, di esitazioni prima, durante e dopo la campagna. Ci fu  addirittura un momento in cui l’intera operazione fu a un passo dall’essere cancellata. Il motivo? In Sicilia c’erano probabilmente due divisioni tedesche in più rispetto a quelle previste. Commento di Churchill, più che mai deciso  a sgonfiare il “ventre molle dell’Asse”: “ E che cosa dovrebbe dire Stalin che ne ha di fronte 185?”
Certo,  alla fine gli Alleati sbarcarono nella Penisola, ma la decisione fu presa solo dopo la conclusione di Husky. Prima, nella primavera del ‘43, quando Husky fu progettata, l’opzione di invadere l’Italia non figurava neppure lontanamente. Per questo italiani e tedeschi riuscirono a ritirarsi oltre lo Stretto.
Husky fu il battesimo del fuoco per molti GI e contemporaneamente fu l’occasione per mettere alla prova il funzionamento di operazioni combinate. Se i GI se la cavarono egregiamente, il coordinamento fra le varie armi lasciò molto a desiderare. Fu tutto un lamentarsi: la fanteria si lamentò per la mancanza di appoggio aereo e per la scarsa precisione dei lanci delle truppe paracadutate; l’Aeronautica per essere stata oggetto di fuoco amico; la Marina perché i comandanti  a terra non avevano saputo sfruttare il suo lavoro; Montgomery perché Patton dirigendosi verso Palermo lo aveva lasciato senza copertura nella sua avanzata verso Catania; Patton perché Montgomery sembrava nutrire disistima nei confronti dei soldati americani. E via di questo passo.  Probabilmente si lamentarono anche i cuochi e i furieri.
La valutazione finale è nota:
da quegli errori si trasse una lezione importante e un anno dopo, sulle spiagge normanne, il coordinamento fra le varie armi funzionò molto meglio. Traduzione: in Sicilia abbiamo combinato un pasticcio dietro l’altro, ci siamo lasciati scappare il nemico sotto il naso, ma abbiamo imparato e non accadrà mai più.
Un’operazione come Husky  non era mai stata tentata prima. Dunque la prudenza adottata in tutte le fasi dell’operazione è comprensibile. E comprensibile è anche l’ atteggiamento conservatore degli alti comandi. Stiamo sul sicuro, non allarghiamoci troppo, cauteliamoci, stiamo attenti a non fare il passo più lungo della gamba, ripetevano fin quasi alla noia. Questo atteggiamento conservatore, tuttavia, impedì loro di  vedere e di valutare altre possibili soluzioni, sia in fase di preparazione, sia, soprattutto, in fase di realizzazione. Anche i comandanti ci misero del loro. Eisenhower si mostrò incerto e timido, Alexander cambiò il piano in corsa facendo infuriare Patton, Montgomery non si fidava degli americani e gli americani non si fidavano di lui. E si potrebbe continuare.  Mancò, insomma, un comandante unico in grado di imporsi in nome di un progetto comune. Mancò, in altri termini, l’Eisenhower di Overlord.
Ma la Sicilia fu conquistata, le linee di navigazione nel Mediterraneo furono ripristinate a vantaggio degli Alleati, la rotta per Suez  fu riaperta, Mussolini fu deposto e l’Italia fu occupata dai tedeschi. Per presidiarla servivano truppe. Sia che le togliesse dal fronte orientale, sia che le togliesse dalla Francia Hitler avrebbe comunque fatto un favore o a Stalin o a Overlord. O a entrambi.
Da questo punto di vista per gli Alleati non c’erano dubbi: Husky era stato un successo completo.
E gli italiani? Senza appoggio aereo, senza appoggio navale, in molti casi senza neppure l’appoggio tedesco, non potevano resistere a lungo. La maggior parte di essi non ne poteva più di quella guerra, dei bombardamenti continui, della fame, delle privazioni, del regime fascista. Moltissimi si sbarazzarono del fucile, molti anche dell’uniforme, i prigionieri non si contarono.
Ma sarebbe sbagliato fare di ogni erba un fascio. Alcune unità, numerosi ufficiali, militari di truppa, persino Camicie Nere si batterono con coraggio per quella causa persa in partenza. Anziché aerei e navi, anziché cannoni e carri armati da Roma arrivavano solo bolse esortazioni retoriche completamente fuori dalla realtà. Con quelle i nostri soldati avrebbero dovuto affrontare sulla ” linea del bagnasciuga” gli Sherman da trenta tonnellate a ricacciare in mare l’ ” invasore”. Ci sarebbe voluto ben altro.

Ditelo ai vostri uomini.

In giugno, alla vigilia dello sbarco,  Patton aveva riunito gli ufficiali della 45.ma divisione di fanteria- la Thunderbird– e, come suo costume,  era andato subito al sodo. Quando sbarcheremo, colpite duro. Se il nemico è a centocinquanta, duecento metri da voi e alza le mani per arrendersi, sparate. Deve morire, dovete ucciderlo.
Ditelo ai vostri uomini.

La mattina del 15 luglio 1943 il tenente colonnello Ernest King, cappellano militare della 45.ma divisione Thunderbird ,sta guidando la propria jeep in direzione dell’aeroporto di Biscari- oggi Acate- conquistato il giorno prima.  King è apprezzato da tutti,  soprattutto perché, come scrive Atkinson, non la tira troppo in lungo con i suoi sermoni. A un certo punto, vicino a un uliveto, il cappellano nota qualcosa di strano. Scende dalla jeep, si avvicina e rimane inorridito: decine di corpi in abiti civili giacciono riversi a terra. Tutti presentano ferite di arma da fuoco, molti hanno i capelli bruciacchiati e tracce di polvere da sparo sui vestiti. Non ci possono essere dubbi: quegli uomini sono stati fucilati quasi  a bruciapelo. Lì vicino alcuni GI si stanno riposando. Quando vedono il cappellano si alzano e gli si fanno incontro . “ Noi siamo venuti qui, armi in pugno, per commettere questo genere di cose” dicono indicando i corpi. Sono profondamente amareggiati,  si vergognano dei loro commilitoni.

Il capitano John T. Compton, compagnia C, Prima divisione, 180.mo reggimento non dorme da tre giorni. Praticamente dal giorno dello sbarco in Sicilia. Alle 11 del mattino del 14 luglio, il capitano Compton porta la sua compagnia all’attacco dell’aeroporto di Biscari. C’è resistenza: colpi di mortaio e tiri di cecchini. Se un GI viene colpito, i tiratori scelti sparano agli infermieri usciti dai ripari per soccorrerlo. Abbandonato il proprio riparo nel tentativo di localizzarne la posizione, il soldato semplice Raymond Marlow si imbatte in una casamatta dalla quale escono più di quaranta italiani , alcuni in divisa, altri in abiti civili. Un interprete chiede loro se siano cecchini, ma non ottiene alcuna risposta. Chi risponde affermativamente è invece il tenente Blanks quando Compton glielo chiede.
E allora fucilateli, è la risposta del capitano.

Il generale Omar Bradley , comandante del Secondo Corpo d’armata, è l’esatto opposto di Patton: calmo, riflessivo, prudente. Ha saputo da King di quanto successo a Biscari e ne parla con Patton. Il sergente Barry West, compagnia A, prima divisione, ha fatto fucilare a sangue freddo trentasei prigionieri italiani mentre li stava scortando al comando per l’interrogatorio. Il capitano John Compton ne ha fatti fucilare più di quaranta. Sono crimini di guerra e non vanno fatti passare sotto silenzio. Calma, risponde Patton, calma. Perché non dire che erano cecchini? Tanto sono morti e non c’è più niente da fare.

Bradley ignora il “ consiglio” del suo superiore e va fino in fondo.
Sia West, sia Compton vengono deferiti alla Corte Marziale. Entrambi si difendono affermando di non aver fatto altro che  attenersi agli ordini di Patton.
“Ditelo ai vostri uomini” ( You will tell your men that) aveva detto  il “ generale d’acciaio” agli ufficiali della Thunderbird. “Devono avere l’istinto del killer” ( They must have the killer instinct), perché “ i killer sono immortali” ( killers are immortal).
Il sergente West  fu riconosciuto colpevole, condannato all’ergastolo, degradato e dopo sei mesi di carcere rispedito al fronte.
Secondo alcuni, cadde in Normandia.
Il capitano Compton fu riconosciuto non colpevole  e mantenuto nei ranghi.
Cadde a Cassino.

Il fazzoletto giallo.

14 luglio 1943, Villalba, Sicilia centrale. Un aereo si abbassa sulle case, sfiora i tetti delle abitazioni  e si dirige verso la campagna. Fuori dall’abitacolo del pilota svolazza una bandiera gialla con una grande “L” nera nel mezzo. Il velivolo raggiunge una fattoria situata nelle vicinanze, si abbassa e il pilota fa cadere una valigia.  Mani sollecite la recuperano e la consegnano al padrone della fattoria, un uomo sulla sessantina, dal ventre prominente, le maniche della camicia arrotolate e le bretelle a reggergli i calzoni ben sopra il girovita. L’uomo apre la valigia. Dentro c’è un fazzoletto giallo con una “L” nera nel mezzo. Quell’uomo si chiama Calogero Vizzini, Don Calogero Vizzini, leader mafioso della regione. Ricevuto il messaggio, Don Calogero avvisa subito un altro pezzo grosso, Don Giuseppe Genco Russo: gli americani devono essere aiutati in ogni modo possibile, gli scrive.

Sei giorni dopo tre carri armati americani entrano nel centro della cittadina. Sull’antenna radio del carro di testa sventola una piccola bandiera gialla. In mezzo la solita “L” nera. I bambini si affollano attorno ai carri, in cerca di caramelle e di gomma da masticare. I carri si fermano, un ufficiale chiede, in dialetto siciliano, di vedere Don Calogero. Don Calogero Vizzini avanza verso l’ufficiale. La folla si fa da  parte  facendogli ala al passaggio. L’ufficiale aiuta Don Calogero a salire sul carro armato e la torretta si chiude.
Il giorno seguente gli americani attaccano Monte Cammarata,  a nord di Villalba. La sera precedente l’attacco i soldati italiani su Monte Cammarata hanno ricevuto la visita di misteriosi personaggi. Il mattino dopo, quando i carri americani muovono verso il loro obiettivo, gli italiani sono spariti. Durante la notte hanno gettato il fucile alle ortiche, cambiato la divisa con abiti civili e hanno lasciato un pugno di tedeschi a difendere la posizione.  Monte Cammarata è conquistato quasi senza colpo ferire.

Il tenente di vascello Paul Alfieri, sbarcato con le truppe di Patton,  deve incontrare un uomo. Non l’ha mai visto. Sa solo che quell’uomo è fuggito dagli Stati Uniti quando era ancora un ragazzo sul cui capo pendeva una condanna a morte. I due devono incontrarsi a Licata. Quando lo incontrerà , per farsi riconoscere, non dovrà mostrare alcun fazzoletto giallo, semplicemente gli si dovrà rivolgere con due sole parole: “ Lucky Luciano”.
Il tenente Alfieri ha incontrato il suo uomo, ha pronunciato quelle due parole e ogni diffidenza è caduta. È notte. Alfieri si sta dirigendo verso il comando dell’Asse di Licata con una robusta scorta fornitagli dall’uomo incontrato nel nome di Lucky Luciano. Gli uomini della scorta neutralizzano le sentinelle tedesche e spalancano la porta del comando. Alfieri trova una miniera d’oro: carte delle difese dell’isola,  dislocazione delle forze dell’Asse nel Mediterraneo, mappe dei campi minati , persino un codice radio. Per questa azione, Alfieri riceverà una medaglia.

Durante l’operazione Husky, dunque, la mafia aiutò gli americani? E gli americani si rivolsero alla mafia per essere aiutati? Gli episodi di Villalba sono solo una leggenda o hanno un fondamento reale? C’è chi ne è sicuro, chi lo nega con decisione, chi lo ammette a metà.  Di sicuro c’è questo: a partire da un certo periodo, gli americani ridussero Villalba e molti altri episodi a dicerie prive di ogni fondamento. L’attacco al Monte Cammarata? Mai programmato e mai effettuato. Don Calogero Vizzini all’interno del carro armato? Certo, ma solo per spiegare come mai un soldato americano era rimasto ucciso  nei giorni precedenti nei pressi della sua fattoria. La testimonianza di Michele Pantaleone ( il giornalista che per primo raccontò la storia di Villalba nel 1962)? Inattendibile perché fortemente di parte. È un comunista, ce l’ha con noi, tende a screditarci. Leggetevi i rapporti delle  nostre unità e troverete una verità ben diversa. “Uomini d’onore” nominati sindaci e amministratori della cosa pubblica una volta terminate le operazioni militari? Non ci fu alcun accordo preventivo, fu una semplice scelta di convenienza: vista la loro influenza sugli abitanti del luogo, ci servivano per garantire l’ordine. Il ruolo di Lucky Luciano? Ma se era in galera. E via di questo passo.
Ma se la mafia avesse potuto dire la sua sugli episodi di Villalba, quale versione avrebbe scelto, secondo voi?

Epilogo.

Le prime avanguardie americane arrivarono al campo di  Dachau, in Baviera, nella tarda mattinata di domenica 29 aprile 1945.  Le SS di guardia si arresero. Di fronte allo spettacolo di migliaia di prigionieri ridotti a larve umane, i GI americani non ressero. Prima piansero, poi cominciarono a sparare alle SS che si erano arrese.
Molti di loro appartenevano alla 45.ma divisione di fanteria Thunderbird.

Da leggere:

Rick Atkinson,  Il giorno della battaglia : gli alleati in Italia 1943-1944, Mondadori, 2008.
Andrea Augello, Uccidi gli italiani. Gela 1943: la battaglia dimenticata, Mursia, 2009.
Fabrizio Carloni, Gela 1943 : le verità nascoste dello sbarco americano in Sicilia, Mursia, 2011
Alfio Caruso, Arrivano i nostri, Longanesi, 2004.
Gianfranco Ciriacono, Le stragi dimenticate, cdb Ragusa, 2005
Carlo D’Este, Lo sbarco in Sicilia, Mondadori, 1990.
Gianluca Di Feo, Sicilia 1943: uccidete i prigionieri italiani, Corriere della Sera, 23/06/2004

CONSULTA QUI L’INDICE DEI POST DI QUESTO SITO RELATIVI ALLA PRIMA E ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE.

Questo il testo originale del discorso di Patton agli ufficiali della 45.ma divisione:

When we land against the enemy, don’t forget to hit him and hit him hard. When we meet the enemy we will kill him. We will show him no mercy. He has killed thousands of your comrades and he must die. If your company officers in leading your men against the enemy find him shooting at you and when you get within two hundred yards of him he wishes to surrender—oh no! That bastard will die! You will kill him. Stick him between the third and fourth ribs. You will tell your men that. They must have the killer instinct. Tell them to stick him. Tick him in the liver. We will get the name of killers and killers are immortal.

General S Patton Biography | Biography Online

Quando sbarcheremo, colpite duro; quando incontreremo il nemico, uccidetelo. Nessuna pietà. Ha ucciso migliaia dei nostri e deve morire. Se i vostri ufficiali di compagnia alla testa dei propri uomini vedono il nemico fare fuoco e arrivati a duecento iarde da lui, vedono che accenna ad arrendersi, niente da fare! Quel bastardo morirà. Voi lo ucciderete. Colpitelo fra la terza e la quarta costola. Ditelo ai vostri uomini. Devono avere l’istinto del killer. Dite loro di colpirlo. Colpitelo al fegato. Acquisteremo la fama di killer. E i killer sono immortali.

Ma era questo il ” vero” Patton?  Carlo D’Este scrive: ” Ci furono [..] due Patton: uno che appagava le aspettative dell’americano medio amante dell’eroe spaccone, l’altro consistente in un uomo profondamente riservato, il cui impegno nella professione di soldato era altrettanto profondo di quello mostrato da Montgomery. L’immagine pubblica di Patton si è venuta formando su basi false, così che il generale americano è diventato uno stereotipo che presenta una scarsa rassomiglianza con il vero Patton. L’immagine pubblica di Patton era una facciata creata ad arte per se stesso allo scopo di compensare il senso di inadeguatezza che l’accompagnò per tutta la vita e che era dovuto, in parte, alla sua dislessia[…]
Il modo in cui Patton esercitava la sua leadership è stato argomento di infinite discussioni. Egli riteneva che un comandante dovesse influenzare l’azione sul campo di battaglia sia con la sua presenza sia guadagnandosi l’attenzione e la fiducia delle truppe” ( Carlo D’Este, Lo sbarco in Sicilia, 1990, pagg 98-101)

[1] Queste le parole di Mountbatten: “Let me have him [Martin] back, please, as soon as the assault is over. He might bring some sardines with him–they are on points here!” (“ Rimandami Martin non appena l’assalto sarà concluso. Potrebbe portare un po’ di sardine con sé, visto che qui sono razionate!”).
Nella valigetta del “maggiore Martin” c’era anche una terza lettera. Mountbatten chiedeva al generale Eisenhower di scrivere una breve  prefazione per l’edizione americana di un opuscolo sul ruolo e sulle funzioni del Comando  Operazioni Combinate.

[2] La campagna per la conquista delle due isole ( e di altre isole minori) , fortemente voluta da Eisenhower, cominciò in giugno e fu soprattutto una campagna aerea.  Obiettivo: la conquista dell’ottimo aeroporto di Pantelleria, decollando dal quale i velivoli alleati avrebbe potuto appoggiare con maggiore efficacia gli sbarchi in Sicilia. Pantelleria e Lampedusa erano ottimamente difese, ma le guarnigioni italiane si arresero praticamente senza sparare un colpo. Senza subire alcuna perdita – se  si esclude un GI morso da … un asino-  gli Alleati, una volta sbarcati,  catturarono  più di undicimila prigionieri.

[3] Kesselring sembrava temere di più un ” tradimento”  italiano che un attacco alleato in Sicilia. Ingannati dai documenti trovati addosso al falso maggiore Martin, a Berlino non avevano dubbi: gli Alleati avrebbero attaccato in Grecia o in Sardegna. Lo sbarco in Sicilia sarebbe stata solo una mossa diversiva. Ma potenzialmente in grado- e per  Hitler era diventata una vera e propria ossessione- di provocare una defezione degli italiani e dell’ Italia. La mossa di Kesselring di spostare a ovest la Quindicesima Panzer è vista dallo storico Carlo D’Este anche come un tentativo tedesco di tenere sotto controllo la regione in caso di una defezione italiana.

La celeberrima  foto di Robert Capa riportata sotto il titolo del post raffigura  un pastore siciliano nell’atto di indicare a un soldato dell’esercito americano un punto in  lontananza. Quel pastore si chiamava Giovanni Maccarone. Poche ore dopo essere stato ritratto da Capa, Maccarone fu ucciso da un soldato tedesco che aveva assistito, non visto,  alla scena. ( Fonte: Alfio Caruso, Arrivano i nostri).

L’operazione Husky.

Invasione della Sicilia mappa da www.ibiblio.org

La mappa degli sbarchi. Clicca sulla cartina per ingrandirla.


 


La battaglia di Guglielmo

17/06/2013

Am Kemmel Schlacht in Flandren(15-29 aprile 1918)Wilhelm von Schreuer

Prologo.

Parigi, 29 marzo 1918, quartiere di Saint Gervais, venerdì santo. Nella chiesa del quartiere, la gente si è raccolta per pregare.  Ci sono donne e uomini, giovani e anziani. A un tratto un sibilo acuto sovrasta il brusio delle preghiere, fende l’aria, aumenta d’intensità, si avvicina sempre di più. I fedeli ammutoliscono, tendono l’orecchio verso quel sibilo sinistro, sempre più vicino, sempre più vicino.
Poi solo fuoco e fumo, fiamme e polvere, sangue e grida. I muri e le volte crollano, tonnellate di pietre e mattoni cadono sui fedeli. Parigi è sotto il fuoco di un mostruoso cannone uscito dalle officine Krupp. Nei giorni precedenti, altre parti della città sono state colpite. Numerosi abitanti se ne sono già andati. I tedeschi sono a meno di cento chilometri dalla capitale.
E avanzano.

Una brutta situazione.

Dopo quasi quattro anni di guerra, la Germania era stremata. Il pane scarseggiava, la mortalità infantile era più che raddoppiata, l’economia era in ginocchio, i socialisti e i pacifisti soffiavano sul fuoco, i disordini sociali erano in aumento. Fino a quel momento, sul fronte occidentale, la Germania si era mantenuta sulla difensiva nell’ intento – e nella speranza- di persuadere gli Alleati dell’impossibilità di una vittoria sul campo e di costringerli a negoziare la pace. I tentativi però erano falliti; il cancelliere Theobald Bethmann-Hollweg- un moderato-  aveva rassegnato le proprie dimissioni e il potere, di fatto, era passato nella mani dei militari.
Brutto affare quando la politica la fanno i militari. Loro avevano imposto la guerra sottomarina indiscriminata, loro stavano per imporre una nuova offensiva a occidente. La parola sarebbe passata, una volta di più, alle armi. Perché serviva una vittoria. Come e più del pane. In caso contrario la Germania sarebbe crollata a causa della fame, degli scioperi, dei disordini.
E gli Alleati? Dopo  attacchi tanto inutili quanto costosi,  si preparavano a schierarsi sulla difensiva. Tirava una brutta aria. La Russia era virtualmente fuori dal conflitto, gli italiani erano stati travolti a Caporetto, gli Stati Uniti non erano ancora pronti per intervenire in forze sul fronte europeo, le perdite subite nelle offensive dell’anno precedente avevano aperto ampi vuoti nell’esercito. Ma passare sulla difensiva significava dover assimilare – e assimilare in fretta- le nuove nozioni relative alla difesa in profondità. E significava, soprattutto, far riposare gli uomini reduci dall’orrore di Passchendaele e addestrare le nuove reclute.  Ci sarebbe stato tempo a sufficienza?
E c’era anche dell’altro. I tedeschi avevano accorciato il fronte, ritirandosi intenzionalmente dietro una nuova linea difensiva, la cosiddetta Linea Hindenburg ( o Linea Sigfrido). In altre parole, avevano scelto dove attestarsi, attrezzandosi di conseguenza. La linea alleata, invece, non era stata scelta: essa era semplicemente il punto più avanzato raggiunto dalle truppe. Se si voleva passare sulla difensiva, quella linea andava fortificata e rimodulata sulla base dei principi della difesa in profondità.
Un lavoro tutt’ altro che semplice.  Soprattutto nel settore assegnato alla Quinta armata britannica di sir Hubert Gough a sud di Saint Quentin, in Piccardia, le fortificazioni –ereditate dai francesi- erano in uno stato pietoso e riorganizzarle secondo i nuovi criteri avrebbe richiesto tempo. Molto tempo. Né andava meglio alla Terza armata di sir Julian Byng, dislocata a nord di Saint Quentin. Sir Douglas Haig, il comandante in capo, inoltre, aveva chiesto seicentomila uomini per colmare le perdite e per costituire riserve adeguate; il nuovo premier britannico, David Lloyd George – al quale la tattica di Haig non piaceva affatto- gliene aveva concessi solo centomila. Pochi per allestire una forza di riserva  accettabile. Le unità dovettero essere così smembrate e alcuni punti del fronte furono indeboliti per rafforzarne altri. Fu rafforzato il fianco sinistro ( intorno a Ypres, nelle Fiandre per proteggere i porti del Canale) e indebolito il fianco destro, quello tenuto dalla Quinta armata di sir Gough e dalla Terza di sir Byng. In questo settore, ventisei divisioni tenevano un fronte di 125 chilometri.
E che dire dell’esercito francese? Scosso da ammutinamenti e ribellioni, era in via di riorganizzazione. Come avrebbe reagito a un’eventuale offensiva tedesca? Sarebbe stato in grado di fare la propria parte? Di fornire aiuto e appoggio all’esercito britannico non ancora completamente ristrutturato? Restavano gli Stati Uniti e il loro immenso potenziale in uomini e mezzi. Ma quando sarebbero stati pronti a intervenire? Quanto tempo sarebbe occorso perché facessero sentire tutto il loro peso sul conflitto? Un anno? Due anni?
Dal canto suo, il solito Lloyd George, in parziale contrasto con i militari, spingeva perché si isolasse la Germania togliendole l’appoggio dei suoi alleati- Turchia, Austria  e Bulgaria – anziché attaccarla in forze sul fronte occidentale. C’erano dunque troppe incognite, troppe incertezze, troppe opinioni discordanti  perché si continuasse con gli attacchi a oltranza.  Meglio, molto meglio fermarsi, riorganizzarsi, rifiatare, riflettere e aspettare tempi migliori.
Tedeschi permettendo, ovviamente.

Difesa e attacco.

Come abbiamo visto, gli Alleati si apprestavano a schierarsi sulla difensiva secondo i principi della difesa in profondità o difesa elastica. Il copyright non era loro, apparteneva ai tedeschi. Il principio ispiratore era il seguente: acquistare forza, farla perdere al nemico. O meglio: acquistare forza mentre il nemico la perde. Quindi, pochi soldati sulla prima linea ( o linea avanzata) , appoggiati a fortini, casematte, bunker; molti più soldati sulla seconda linea( o linea di combattimento); truppe di riserva sulla terza linea( o linea arretrata). Il nemico avanzava contrastato dai difensori dislocati nei bunker e nei fortini.  Più avanzava, più perdeva slancio; più perdeva slancio, più la sua forza diminuiva. Quando l’artiglieria non poteva più proteggerlo, dalla seconda linea di difesa partiva  il contrattacco.
Il concetto non era completamente nuovo, se vogliamo. Duemila anni prima, Annibale Barca, a Canne, arretrando progressivamente il proprio fronte d’attacco, aveva attirato i Romani in una trappola mortale. Ma nel ventesimo secolo una cosa del genere suonava come una specie di eresia per chi, come gli Alleati, aveva fatto dell’offensiva a oltranza e del mantenimento dell’iniziativa ad ogni costo il proprio credo tattico. Cedere terreno- anche se momentaneamente- e  poi contrattaccare?  Non sia mai. Concedere ampia autonomia agli ufficiali subalterni in materia di impiego dell’artiglieria e di gestione degli obiettivi? Una cosa dell’altro mondo.
E invece erano proprio queste le chiavi del successo difensivo dei tedeschi.
Per la verità anche loro ci misero un po’ a rinunciare all’idea del contrattacco immediato. Gli ordini di Falkenhayn sia in occasione della battaglia di Verdun(1916), sia in occasione di quella della Somme(1916), prefiguravano già forme di difesa elastica, ma ribadivano: la prima linea, se perduta, va riconquistata con un contrattacco immediato. Abbandonata questa idea per non finire dissanguati, fu facile per i tedeschi adottare un tipo diverso di difesa. Per gli Alleati non fu altrettanto facile, ma alla fine anch’essi, volenti o nolenti,  dovettero adeguarsi.
Commisero, però, anche numerosi errori. Ridussero il numero degli uomini  sulla prima linea, ma  ne lasciarono comunque troppi( un terzo dell’intera forza) esposti al fuoco dell’artiglieria nemica; crearono unità mobili, ma non modificarono la catena di comando, privandole di fatto della necessaria autonomia; considerarono la mitragliatrice un’arma difensiva e non offensiva. Spesso, poi,  la linea arretrata esisteva soltanto sulla carta. Non c’erano fortificazioni, casematte, magazzini, ripari per l’artiglieria. In alcuni casi, una semplice striscia di prato ne indicava l’esistenza. Nella zona della Quinta armata, quella striscia di prato era conosciuta come “ Green Line”.
Da un certo momento in poi, i tedeschi cambiarono anche il proprio modo di attaccare. Fra gli Alleati attaccare in massa, a ondate, conquistare le posizioni e renderle sicure prima di proseguire era una specie di dogma. Inoltre ogni attacco era sempre preceduto, per giorni e giorni,  da un violento e massiccio bombardamento di preparazione e di distruzione.  Andò così durante la battaglia della Somme, andò così a Passchendaele(1917).
I tedeschi ribaltarono lo schema. Niente bombardamento prolungato, ma un breve, violento e devastante bombardamento poco prima dell’attacco. Era la tattica messa a punto dal colonnello Georg Bruchmüller sul fronte orientale.  Il fuoco d’artiglieria veniva concentrato su un fronte ristretto. Cominciava col colpire le posizioni di artiglieria arretrate, i centri di comunicazione, le linee telefoniche, i centri di comando per concentrarsi poi, a ridosso dell’ora zero, sulla prima linea.
I cannoni di  Bruchmüller alternavano bombe dirompenti a proiettili a gas, andavano e tornavano sugli obiettivi con precisione quasi millimetrica, scatenando ovunque panico, confusione, caos. E seminando morte. I tedeschi lo chiamavano Feuerwalze ( letteralmente “rullo di fuoco”), qualcosa come “ colpire duro ripetutamente dappertutto”.
Il bombardamento durava di solito qualche ora. Quando cessava, le truppe d’assalto, accompagnate da uno sbarramento mobile,  uscivano in piccoli gruppi( plotoni o compagnie) dai loro ripari e si infiltravano tra le linee nemiche. Non contava quanti fossero, contava quanto potessero essere efficaci . In altri termini, anche per l’attacco come per la difesa non contava tanto il numero dei soldati impiegati, quanto la potenza di fuoco da essi prodotta.
I comandanti di plotone ( spesso sottufficiali) e di compagnia avevano ampia autonomia operativa. Una volta ricevuti gli obiettivi era affare e responsabilità loro stabilire come raggiungerli.  Le truppe d’assalto tedesche erano armate di mitragliatrici portatili ( prima soltanto un’arma difensiva), di lanciafiamme e di granate.  Non si preoccupavano di consolidare le posizioni conquistate né di avere i fianchi protetti, ma proseguivano verso i loro obiettivi avanzati, lasciando a chi veniva dopo di loro  il compito di annientare gli eventuali centri di resistenza.
La tattica era complessa ma funzionava. I soldati alleati erano del tutto impreparati a sentirsi il nemico alle spalle e sui fianchi,  perdevano la bussola, sbandavano e andavano in confusione se non proprio in panico. Non era forse successo qualcosa del genere a Caporetto? L’unico problema era rappresentato dai rifornimenti. Sarebbero stati in grado di tenere il passo con la travolgente avanzata delle truppe d’assalto?

Arcangeli, santi e dei.

Sul tavolo del tenente generale Erich Ludendorff, Primo Intendente Generale dello Stato Maggiore Imperiale,  si ammucchiano le carte e i documenti . Li ha esaminati e riesaminati decine di volte, ha discusso con i propri collaboratori. Ora deve decidere.
Ludendorff è un ufficiale determinato, ambizioso, abile. Se ha un difetto è quello di perdere facilmente le staffe. All’interno dello Stato Maggiore Imperiale comanda lui. Formalmente il capo è il feldmaresciallo Paul von Hindenburg,  monumento nazionale,  salvatore della patria,  vincitore dei russi a Tannenberg e ai Laghi Masuri, oggetto di venerazione da parte di milioni di tedeschi. L’anziano feldmaresciallo richiamato nel 1914 in tutta fretta dalla pensione per salvare la baracca in un momento critico non  è , tuttavia, una semplice figura decorativa. È calmo, ragiona, sa intervenire al momento giusto con le parole giuste, sa farsi valere. Con la sua calma e il suo comportamento apparentemente bonario è tutto ciò che Ludendorff non è . Proprio per questo i due si integrano a vicenda e funzionano a meraviglia. Ma le decisioni importanti le prende Ludendorff.
E questa è una decisione importante.
Ludendorff è cresciuto nel mito del conte Schlieffen, dell’accerchiamento e della vittoria decisiva. A differenza del conte, però, egli è uomo d’azione. Ha conquistato Liegi, ha sbaragliato i russi, ha vissuto sul campo a contatto con ufficiali e soldati. Insomma, la guerra, quella vera, la conosce. È convinto di una cosa: la Germania non può vincere la guerra, ma  potrebbe vincere la pace. A una condizione: ottenere una grande vittoria sul fronte occidentale e trattare da una posizione di forza.
Secondo lui il momento è  favorevole; dividere gli inglesi dai francesi e accerchiarli è possibile. I russi non sono più un problema, gli americani non ancora. Ma lo saranno con l’andare del tempo. Bisogna quindi anticiparli e picchiare duro. Se gli inglesi cedono è fatta: la Francia da sola non potrà continuare la guerra e la Germania sarà ricompensata per tutti gli sforzi compiuti.
Dove la colomba Bethmann- Hollweg voleva arrivare con la trattativa, il falco Ludendorff vuole arrivare con le armi.

Kaiserschlecht le opzioni formato ridotto

Le opzioni tedesche per l’offensiva di primavera 1918. Fonte: Correlli Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi, 1963

Ha santi, arcangeli e dei dalla sua: San Giorgio, il vincitore del drago, Marte dio delle armi e l’arcangelo Michele, patrono della Germania. San Giorgio potrebbe consegnargli la vittoria a Ypres e nelle Fiandre; Marte nei dintorni di Arras; San Michele dalle parti di Saint Quentin.  E ci sono soprattutto quasi centoottanta divisioni formate da gente tosta, motivata, addestrata, stanca di difendersi  e desiderosa, finalmente, di passare all’attacco.
Dall’est sono arrivate nuove unità.  I soldati schierati a ovest sono tutti giovani, esperti delle nuove tattiche, desiderosi di giocarsi il tutto per tutto anziché continuare a essere massacrati in trincea. Loro, insieme agli dei e agli arcangeli, combatteranno “la  battaglia di Guglielmo”( Kaiserschlacht).
Ma, a ben vedere, quello di Ludendorff è un progetto basato più su un desiderio che su un obiettivo preciso, su una speranza più che su una certezza. “ Aprite una breccia e il resto seguirà” dirà al principe Rupprecht di Baviera, uno dei suoi comandanti più abili. Un po’ vago, se vogliamo. E anche aleatorio, ad essere sinceri. È come affermare: sfondiamo e speriamo di poter sfruttare al massimo l’ occasione buona quando e se si presenterà. Sul piano politico, poi,  davvero una grande vittoria tedesca sarebbe in grado di costringere gli Alleati a iniziare trattative di pace?  Su quali dati concreti si basa una simile valutazione?
Ludendorff avverte appieno la responsabilità della sua decisione. Un’occhiata alle carte. L’ennesima.  Chi scegliere per il colpo principale? San Giorgio? Marte? San Michele? Dopo tanto pensare,  dopo ulteriori colloqui con i propri collaboratori, Ludendorff sceglie San Michele( Michael).

Il Piano Michael. Fonte: Correlli Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi, 1963

Il Piano Michael. Fonte: Correlli Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi, 1963. Clicca sulla cartina per ingrandirla.

Fra Saint Quintin e l’Oise,  La Diciottesima armata di  Oskar von Hutier, uno dei migliori ufficiali dell’esercito tedesco, si sarebbe dovuta muovere verso ovest in direzione del Canale Crozat e della cittadina di Ham, avrebbe dovuto consolidare la linea, proteggere il fianco della Seconda armata e stoppare eventuali interventi francesi in aiuto di Gough.
Col fianco sinistro protetto da von Hutier, la Seconda armata di Georg von Marwitz avrebbe dovuto attaccare in direzione di Peronne. La Diciassettesima armata di Otto von Below  si sarebbe dovuta dirigere, inizialmente, a sud di Arras in direzione di Baupome e, una volta operato lo sfondamento, avrebbe dovuto piegare a nord verso Arras e circondare le truppe inglesi.
Ludendorff sa di avere a disposizione un solo colpo. Nelle condizioni in cui si trova, la Germania non può sostenere più di un’offensiva. E sul fronte occidentale gli americani sono sempre più numerosi. Per questo il primo colpo deve essere quello definitivo.

“La battaglia di Guglielmo”

Le cose cominciano bene. Il 21 marzo, primo giorno di primavera, sul campo di battaglia nella zona di Saint Quentin si stende una nebbia fittissima. Alle 4,40 i cannoni di Bruchmüller aprono il fuoco. Le bombe dirompenti e i proiettili a gas cadono, con precisione millimetrica, sulle posizioni alleate lungo l’intero fronte. I tedeschi non vogliono dare al nemico punti di riferimento, fargli capire dove sarà portato l’attacco principale.
Come da copione, nella zona fra l’Oise e Saint Quentin, obiettivo primario di Michael, il fuoco si concentra sui centri di comando , sulle linee di comunicazione, sulle postazioni di artiglieria prima di spostarsi sulla linea avanzata. Alle 9,40, protette dalla nebbia ancora fittissima, le prime truppe d’assalto irrompono nella zona della Quinta armata e nel settore tenuto dall’ala destra della Terza armata. Hanno l’ordine di spingersi in avanti il più possibile, di evitare i centri di resistenza, di puntare ai centri di comando, di disturbare le comunicazioni, di  attaccare le postazioni di artiglieria.
Nella zona della Quinta armata l’impatto è devastante. I soldati britannici immersi nella nebbia “sentono” le Stosstruppen infiltrarsi sui fianchi e proseguire dietro di loro. Ma non le vedono. Non c’è quasi reazione. E più i tedeschi avanzano, più la confusione aumenta, più la confusione aumenta e più la resistenza si indebolisce.
A nord di Saint Quentin, nella zona della  Terza armata di Byng,  la resistenza è più tenace. Soprattutto intorno al saliente di Flesquieres, conquistato durante la cruenta battaglia di Cambrai(1917). Nel pomeriggio Gough, incapace di fermare l’avanzata delle Stosstruppen, ordina la ritirata sulla seconda linea e si porta oltre il canale Crozat; a sera i tedeschi hanno sfondato in più punti .
Il 22 marzo- altro giorno di combattimenti feroci- la Terza armata deve ritirarsi dopo aver accanitamente conteso al nemico ogni metro di terreno; la Quinta armata- colpita duramente, quasi cinquantamila perdite solo il primo giorno- abbandona in disordine la seconda linea.  A sera, le truppe d’assalto tedesche hanno raggiunto la linea arretrata. Il 23 marzo Haig impiega truppe fresche nel tentativo di arginare i tedeschi, ma inutilmente: le Stosstruppen sono penetrate nello schieramento nemico per una sessantina di chilometri. Il Kaiser in persona è presente sul campo per onorare con la sua presenza la battaglia combattuta in suo nome.
Per gli Alleati la situazione è quasi disperata. Guglielmo II lascia la zona di operazioni e ritorna a Berlino convinto della vittoria.  Ma la vittoria si sta lentamente allontanando. I britannici combattono con foga e accanimento; al fronte cominciano ad affluire le prime riserve; i tedeschi hanno seri problemi di rifornimenti. Le loro truppe d’assalto sono troppo veloci, le linee di rifornimento si allungano, la stanchezza inizia a farsi sentire.
Soldati affamati cominciano a uccidere i cavalli- magri e macilenti come loro- e a mangiarseli; interi reggimenti si fermano per saccheggiare i magazzini abbandonati dal nemico in fuga. Ludendorff si trova a dover compiere una scelta, a dover decidere in quale settore impiegare le riserve,  dove aumentare la pressione.  E deve farlo alla svelta.

Il nuovo Piano Michael dopo gli ordini del 23 marzo. Fonte: Correlli Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi 1963

Il nuovo Piano Michael dopo gli ordini del 23 marzo. Fonte: Correlli Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi 1963. Clicca sulla cartina per ingrandirla.

Il 23 marzo ordina alla Diciassettesima armata ( Below) di proseguire a sud di Arras verso St. Pol  con l’ala sinistra verso Abbeville;  alla Seconda armata ( Marwitz) ordina di spingersi in avanti in direzione di Amiens e alla Diciottesima armata ( Hutier) di manovrare in direzione di Montdidier.

Non è una decisione, è un pasticcio: anziché un unico obiettivo, Ludendorff  ne individua tre; anziché rinforzare l’ala giusta ( Hutier), sposta il peso dell’attacco sull’ala sbagliata( Below) dove la resistenza è più accanita e dove i successi sono minori . Hutier, al contrario, sta avanzando quasi incontrastato attraverso la breccia aperta nello schieramento avversario. Se ricevesse riserve adeguate, potrebbe separare definitivamente le forze alleate, ruotare la sua ala destra verso nord e contribuire all’accerchiamento degli inglesi.
Fin dall’inizio– e a maggior ragione a quel punto della battaglia- Amiens sarebbe dovuta diventare l’unico obiettivo dell’intera  l’operazione e le riserve avrebbero dovuto essere dislocate per tempo dietro Hutier per sfruttarne i successi. Ma , sotto l’incalzare degli avvenimenti, attanagliato da una tremenda tensione, in possesso di informazioni contraddittorie, Ludendorff decide diversamente. E sbaglia.
“ Aprite una breccia, il resto verrà di conseguenza”. Ora su entrambi i lati della Somme la breccia è aperta, in alcuni punti addirittura è quasi una voragine, ma il tempo è scaduto: scegliendo di rafforzare l’ala destra, Ludendorff getta alle ortiche una vittoria quasi fatta. O, almeno, così la pensano in molti.
E, infatti, il 24 marzo nei dintorni della Somme, sia Marwitz, sia Below procedono lentamente. Si combatte in una zona devastata dalle battaglie degli anni precedenti, in un deserto senza un villaggio, senza alberi,  con i pozzi d’acqua avvelenati, senza strade e senza ferrovie. I rifornimenti non arrivano, la fame si sta facendo sentire. Quando si erano ritirati dietro la linea Hindenburg i tedeschi, in quella zona, avevano fatto terra bruciata. E adesso stanno per pagarne le conseguenze.
Sempre più in crisi, Haig ordina a Byng di scalare a destra nel tentativo di ristabilire il contatto con Gough. Byng ubbidisce e, benché si batta in condizioni di evidente inferiorità, la sua Terza armata tiene duro. Baupome viene raggiunta dai tedeschi, ma Amiens resta ancora molto lontana. Nei pressi di Albert le truppe di Marwitz si imbattono in riserve di cibo abbandonate dagli inglesi in ritirata e non vogliono saperne di proseguire. Anche Hutier comincia a sentire l’usura. Nonostante prema sulle forze di Gough e sui poco organizzati francesi è ancora distante una decina di chilometri dai propri obiettivi. È un brutto segno: se anche Hutier va piano, significa che Michael sta lentamente perdendo forza.
Gli Alleati sono a un passo dall’isteria. Haig non sa che pesci pigliare e strepita perché Pétain gli invii subito venti (!) divisioni da schierare davanti a Amiens: è in gioco il mantenimento della linea del fronte e la difesa dei porti della Fiandre.
La replica di Pètain è secca: niente da fare. In primo luogo perché verrebbe oltremodo indebolita la forza di riserva francese (GAR, Gruppo Armate di Riserva, generale Fayolle); in secondo luogo perché le forze del GAR servono per contrastare un’eventuale offensiva tedesca nella Champagne e, infine, perché obiettivo principale dei francesi è difendere Parigi. Ma il fianco destro del mio schieramento è scoperto, implora Haig. Me ne rendo conto- è la ferma replica di Pétain- ma non ho alcuna intenzione di rischiare le mie riserve.
Anche il generale John Pershing, comandante delle prime truppe americane arrivate in Europa, ci mette del suo: non accetta di porre i propri soldati agli ordini di ufficiali francesi o britannici.  Haig perde le staffe e va giù di brutto. Pershing? Obstinate and stupid. Ridicolous.  Insomma, ognuno sembra andare per proprio conto: Michael sembra aver scoperchiato di colpo una pentola in cui, per anni, erano ribollite tensioni e incomprensioni di ogni sorta.
Come uscirne? Haig potrebbe ritirare le sue truppe dietro la Somme, abbandonando i porti delle Fiandre francesi e impedendo così ai tedeschi di sfruttare al massimo la breccia aperta da Michael[1]. Ma ritirarsi è fuori discussione.  Ecco allora pronta un’altra soluzione: ci vuole un comandante unico. Non Pétain, troppo stretto di manica in fatto di concessione di rinforzi e per di più pessimista cronico, ma qualcun altro più ottimista e meglio disposto a largheggiare con le riserve. È strano: nessuno, prima di allora, lo aveva voluto, il comandante unico; adesso sembra la soluzione di tutti i problemi.
Il 25 e il 26 marzo il solo Hutier registra qualche progresso di rilievo. Le altre due armate  tedesche sono al limite dello sfinimento. In più, le riserve alleate stanno affluendo in forze  al fronte: sette divisioni francesi – una in più di quelle promesse a suo tempo da Pètain – prendono posizione a fianco dei britannici. Anche se lentamente il fronte comincia a stabilizzarsi.
La Seconda armata di Marwitz, in particolare, è ridotta  molto male. Fin dall’inizio ha adottato solo in parte la tattica dell’infiltrazione, preferendo affrontare i punti fortemente difesi anziché ignorarli e perdendo in questo modo tempo prezioso. E uomini altrettanto preziosi. Così quando Ludendorff, finalmente consapevole dell’importanza tattica di Amiens e della necessità di dare a Michael un obiettivo unico , ridisegna la manovra per conquistare la città rispolverando il piano Mars, Marte, la Seconda e la Diciassettesima armata non riescono ad avanzare e vengono definitivamente fermate.
Nello stesso giorno, durante una conferenza ad altissimo livello- presenti, fra gli altri, Poincaré e Clemenceau , rispettivamente Presidente e Primo Ministro della Repubblica francese- tenutasi a due passi dal fronte, a Doullens, il maresciallo Ferdinand Foch viene nominato comandante unico di tutte le forze alleate. Haig gli chiede immediatamente le 20 divisioni in precedenza negategli da Pétain, ma invano. Del resto quelle divisioni, ormai, non servono più: Amiens è , per il momento, salva. Hutier, l’ultimo a tentare l’impossibile, viene fermato nei pressi di Villers Bretonneaux.
È il 5 aprile: Michael ha fallito, “la battaglia di Guglielmo” continua. Ma Ludendorff ha sprecato il suo unico colpo, quello decisivo.

Con le spalle al muro.

L' Operazione Georgette. Fonte: Correlli Barnet, I generali delle sciabole, Longanesi, 1963. Clicca sulla cartina per ingrandirla.

L’ Operazione Georgette.
Fonte: Correlli Barnet, I generali delle sciabole, Longanesi, 1963. Clicca sulla cartina per ingrandirla.

Questa volta l’obiettivo è la bassa valle del Lys. Il 9 aprile il Feuerwalze , lo sbarramento di Bruchmüller, si abbatte come un colpo di falce sulle posizioni alleate. La Sesta armata di  Ferdinand von Quast attacca lungo la valle, la Quarta di Friedrich Sixt von Arnim più  a nord, in direzione di Armentières. L’obiettivo è quello di raggiungere Hazebrouck, importante nodo ferroviario alleato, e , ancora una volta, di spingere gli inglesi verso il mare. È una riedizione delle opzioni Georg I e Georg II, ora riunite in un’unica operazione denominata Georgette.
Nella zona di Georgette, le difese statiche sono migliori, ma molti uomini sono stati impiegati per stoppare Michael . Di conseguenza mancano riserve adeguate. In linea insieme ai belgi ( nord), alla Seconda armata britannica ( centro, sir Herbert Plumer) e alla Prima  armata britannica ( sud, Henry Sinclair Horne) ci sono anche due divisioni portoghesi abbastanza malconce, il cui avvicendamento è previsto proprio per il 9 aprile. Attaccate in forze, esse cedono di schianto aprendo ai tedeschi un’autostrada verso Hazebrouck.
Ancora una volta Haig sente il terreno franargli sotto i piedi. Ha pochissime riserve, Foch gliele concede con il contagocce, i tedeschi sono a una decina di chilometri da Hazebrouck. Urge fare qualcosa. Haig allora si rivolge alle truppe con un ordine del giorno rimasto famoso: “ Non esistono alternative; non ci resta che combattere fino in fondo. Manterremo le nostre posizioni fino all’ultimo uomo. Non ci sarà ritirata. Con le spalle al muro, convinto delle giustezza della nostra causa, ognuno di noi combatterà sino alla fine.”[2]
Ma nessuno sarà posto con le spalle al muro. Per i tedeschi, infatti, il problema è sempre il medesimo: i rifornimenti. E la resistenza, via via più accanita, dei soldati alleati. Le truppe si fermano per saccheggiare i depositi di viveri abbandonati dal nemico; gruppi di sbandati con le uniformi a brandelli , più simili a straccioni che a soldati di élite, irrompono nelle case in cerca di cibo; gli ufficiali non riescono a mantenere la disciplina; i pochi  successi – la presa di Mont Kemmel o la conquista di Messines, ad esempio- sono pagati a carissimo prezzo.
Non può finire bene. E, infatti, non finisce bene. Il 30 aprile anche l’operazione Georgette viene annullata. In occasione di questa battaglia – conosciuta come battaglia del Lys- il generale Plumer è costretto a ritirarsi dal villaggio di  Passchendaele, conquistato l’anno prima a prezzo di enormi sacrifici.
L’operazione Georgette non è riuscita, ma Ludendorff non ha alcuna intenzione di cedere. Il 27 maggio attacca lungo lo Chemin des Dames. Il suo intento è quello di richiamare lì le forze francesi schierate davanti ad Amiens per poterle sconfiggere e riprendere l’attacco agli inglesi.
Il copione è sempre il solito: Feuerwalze , infiltrazione delle truppe d’assalto, sfondamento. In campo ci sono trenta divisioni  tedesche e , sul campo, una nebbia fittissima avvolge ogni cosa. Fedele alle direttive di Foch di “ contendere il terreno all’avversario palmo a palmo” e di non ritirarsi mai, il generale francese  Denis August Duchêne , comandante della sesta Armata, rinuncia  a qualsiasi difesa in profondità per affrontare i tedeschi sfruttando una stretta testa di ponte a nord del  fiume Aisne, anziché a sud come consigliato da Pétain.
È un disastro. I tedeschi travolgono la testa di ponte, investono l’argine dell’Aisne, piombano sulle riserve( 9 divisioni), le sopraffanno e avanzano di oltre quindici chilometri. I primi ad essere sorpresi da tanto successo sono proprio loro. Che fare? Fermarsi o proseguire? Accontentarsi della vittoria tattica  o cercare la vittoria strategica togliendo di mezzo una volta per tutte i francesi? Ludendorff decide di battere il ferro finché è caldo: si va avanti. Senza incontrare ostacoli di rilievo i tedeschi raggiungono la Marna e si portano a un ventina di chilometri da Parigi. Ma Clemenceau , il primo ministro, non perde la calma. Nessuno parla di pace.
Pétain organizza in fretta e furia una linea di difesa dalla foresta di Villers Cotterets fino alla città di Reims passando per la   Marna. In questo modo lascia ai tedeschi un ampio saliente mal servito dalle ferrovie e con i fianchi esposti. Nel tentativo di allargare il saliente, Hutier con la sua Diciottesima armata coglie subito, secondo copione, rapidi quanto effimeri successi. Ma non ci sono riserve sufficienti  per sostenere il suo attacco e Ludendorff , a malincuore, è costretto a sospendere l’avanzata. È l’11 giugno.
Ludendorff non lo ammetterebbe mai, ma è lui, ora,  a trovarsi con le spalle al muro. Gli sforzi sostenuti fino a quel momento hanno richiesto un prezzo elevatissimo, non si riesce a colmare le perdite. E inoltre la “spagnola”, la terribile influenza diffusasi in Europa, sta cominciando a mietere vittime, tanto in patria quanto al fronte. Gli americani sono arrivati e il loro peso comincia a farsi sentire. La corda è troppo tesa, continuare l’offensiva un rischio enorme.
Eppure bisogna continuare,  bisogna sferrare al nemico un ultimo colpo , capace di indurlo ad accettare la pace, insiste Ludendorff. E così, per preparare la strada a una nuova offensiva nelle Fiandre( nome in codice Hagen), lo sforzo tedesco si concentra sul debole fronte francese intorno a Reims. L’offensiva Marneschuetze- Reims conosciuta in seguito come seconda battaglia della Marna, accuratamente preparata, sostenuta da forze ingenti( cinquantadue divisioni) e da un violentissimo fuoco di artiglieria comincia come al solito bene e finisce, come al solito, male.
Iniziata il 15 luglio con il Feuerwalze  e una rapida avanzata delle truppe d’assalto, solo tre giorni dopo, il 18, è virtualmente conclusa. I francesi, infatti, passano con successo al contrattacco. Nella notte fra il 20 e il 21 luglio, i tedeschi abbandonano la loro testa di ponte sulla Marna assumendo di nuovo un atteggiamento difensivo dietro il fiume Aisne.
I nervi di Ludendorff sono al limite del collasso.  Uno dei suoi collaboratori, il generale Mertz, scrive nel suo diario: “Sua Eccellenza è proprio finito.” Sconvolto dalla tensione, l’onnipotente signore della guerra, non riesce a prendere una decisione coerente. Invece di ritirarsi subito dietro la linea Hindenburg, è restio ad abbandonare l’Aisne e le conquiste effettuate, coltiva ancora il sogno di un’offensiva nelle Fiandre.
Ma quando l’8 agosto – il primo dei “ Cento giorni”- appoggiati da un breve fuoco d’artiglieria e dai carri armati, protetti ancora una volta dalla nebbia,  gli Alleati irrompono sulle posizioni di Marwitz nella zona della Somme, anche Ludendorff è costretto ad accettare la realtà. La sua idea di resistere ad ogni costo – come farà Hitler in occasione della battaglia di  Stalingrado nel 1942-  si scontra con la stanchezza e l’indisciplina dei soldati, con le condizioni di superiorità degli Alleati, con la presenza sempre più consistente di truppe americane. Non ci saranno, non ci potranno essere altre battaglie di Guglielmo.

Epilogo.

Il trattato di Versailles – il trattato di pace dopo il massacro- mise ufficialmente al bando , insieme ai gas[3], anche il Kaiser Wilhelm Geschütz , il mostruoso cannone capace, durante l’offensiva di marzo,  di colpire Parigi da quasi centocinquanta chilometri di distanza. Agli Alleati sarebbe piaciuto catturarlo, esibirlo al mondo intero come prova della “barbarie” tedesca. Per provarci ci provarono. Ma il misterioso cannone sembrava sparito nel nulla. Nei pressi di Chateau-Thierry, truppe americane trovarono alcuni pezzi di ricambio. Non fu trovato altro. Come si legge su Wikipedia, il famigerato cannone fu probabilmente distrutto  dai tedeschi insieme ai piani di costruzione.
Ritornerà a rivivere, ventisei anni dopo, nelle V1 e nelle V2.

Da leggere:

Correlli Douglas Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi, 1963
Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Bur, 2003
John Keegan, La prima guerra mondiale: una storia politico-militare, Carocci, 2000
Erich Maria Remarque, All’ovest  niente di nuovo, Mondadori, 1990
AJP Taylor, Storia della prima guerra mondiale, Vallecchi, 1967

Nel Web:

Finestre chiuse, porte aperte.
Un giovane tenente , un brillante generale  e quattrocento cannoni che  non sparano un colpo. Dove? A Caporetto.
Clicca qui per leggere l’articolo.

“Pranzo a Parigi, cena a Pietroburgo”.
Francia 1914: il ” piano perfetto” del conte von Schlieffen  fra angeli, panico,  decisioni arbitrarie e ..miracoli.
Clicca qui per leggere l’articolo.

Il punto decisivo. Verdun 1916: “L’inferno non può essere peggio. L’umanità è impazzita…gli uomini sono impazziti”
Clicca qui per leggere l’articolo

L’esercito degli innocenti. Piccardia, Francia,1916. Papaveri rossi e sangue sulla Somme.
Clicca qui per leggere l’articolo.

La terza volta La terza battaglia di Ypres, 1917: fango, pioggia e sangue a Passchendaele.
Clicca qui per leggere l’articolo.

Altri indirizzi ( una volta aperti, due click per tornare a questo articolo):

http://militaryhistory.about.com/od/worldwari/p/michael.htm

http://www.webmatters.net/france/ww1_kaiser.htm

http://www.historyplace.com/worldhistory/firstworldwar/index-1918.html

http://www.historylearningsite.co.uk/german_spring_offensive_of_1918.htm

https://en.wikipedia.org/wiki/Spring_Offensive


[1] Nel 1940, durante l’operazione Sichelschnitt, colpo di falce, gli anglo-francesi si trovarono, grosso modo,  nella stessa situazione di Haig nel 1918. E commisero il medesimo errore commesso da Haig ( peraltro senza conseguenze serie) nel 1918. Anziché ritirarsi immediatamente dietro la Somme, rimasero in campo permettendo ai mezzi corazzati tedeschi di tagliare in due le forze alleate e di imbottigliare i britannici a Dunkerque. Nel 1918 Haig corse il medesimo rischio.

[2] Questo il testo completo dell’ordine del giorno di Haig:
From: Commander-in-Chief, British Armies in France
To: All ranks of the British Army in France and Flanders

 Three weeks ago today the enemy began his terrific attacks against us on a 50-mile front. His objects are to separate us from the French, to take the Channel Ports and destroy the British Army. In spite of throwing already 106 Divisions into the battle and enduring the most reckless sacrifice of human life, he has as yet made little progress towards his goals.
We owe this to the determined fighting and self-sacrifice of our troops. Words fail me to express the admiration which I feel for the splendid resistance offered by all ranks of our Army under the most trying circumstances.
Many amongst us now are tired. To those I would say that Victory will belong to the side which holds out the longest. The French Army is moving rapidly and in great force to our support.
There is no other course open to us but to fight it out. Every position must be held to the last man: there must be no retirement. With our backs to the wall and believing in the justice of our cause each one of us must fight on to the end. The safety of our homes and the freedom of mankind alike depend upon the conduct of each one of us at this critical moment.

Field Marshal Douglas Haig
Commander-in-Chief

[3] La messa al bando dell’impiego bellico dei gas da parte del maggior numero possibile di Paesi( e non limitata, quindi,  a quelli sconfitti durante la Prima Guerra Mondiale )fu sancita dal cosiddetto ” Protocollo di Ginevra”, adottato nel 1925 e sottoscritto da 132 Stati.

Sotto il titolo: Wilhelm von Schreuer( 1866-1933):  Am Kemmel Schlacht in Flandren(15-29 aprile 1918) ( Nella battaglia di Mont Kemmel nelle Fiandre: 15-29 aprile 1918). Berlino, Deutsches Historisches Museum.

Qui una traduzione automatica in inglese: Wilhelm’s battle


La terza volta

29/05/2013
Otto Dix, Guerra di trincea, 1932

Otto Dix, Guerra di trincea, 1932

Prologo.


Il 10 novembre 1914, nei dintorni di Langemarck, vicino a Ypres, nelle Fiandre, reggimenti tedeschi formati da giovani studenti volontari- die Kinder, i “bambini”, come li chiamavano i veterani-  uscirono  dalle trincee e si diressero verso il nemico. Sul campo di battaglia si stendeva una fitta nebbia e quei giovani  soldati si muovevano in un “vasto mare di aria bianca”. Non avevano punti di riferimento e marciavano quasi alla cieca. Poi il nemico li individuò e aprì il fuoco. I giovani si fermarono: avanzare o ritirarsi? Improvvisamente si udì una voce intonare una canzone. Una seconda voce si aggiunse alla prima,  poi un’altra e un’altra ancora, finché tutti cantarono. E , cantando, quei giovani soldati avanzarono. Verso la vittoria, come sostiene qualcuno, verso il massacro come sostengono altri.
Poco distante da quel “ mare d’aria bianca” in cui le bombe cadevano e i “Bambini” cantavano, un giovane soldato del reggimento List di nome Adolf Hitler, si apprestava ad affrontare il combattimento. Dieci anni dopo, ricordando quegli avvenimenti, scrisse:” Udimmo da lontano le note di una canzone farsi sempre più vicine, correre di reparto in reparto. Quando la Morte stese le proprie mani sulle nostre file, quella canzone ci raggiunse e anche noi, a nostra volta, intonammo : “Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt!” [1]
La battaglia del Kindermord bei Ypern, della strage degli innocenti nella nebbia di  Ypres, avrebbe dovuto essere l’ultima battaglia della Prima Guerra Mondiale.
Per la cittadina di Ypres fu  solo la prima.

Il piano perfetto.

Nell’agosto del 1914, i tedeschi attraversarono il neutrale Belgio con uno spiegamento di forze impressionante, decisi a far fuori la Francia in sei settimane. Sembravano inarrestabili. Poi von Kluck, il comandante della Prima Armata, commise l’errore – rimasto storico-  di compiere una deviazione arbitraria, modificando di fatto il Piano Schlieffen e consentendo ai francesi e ai britannici della BEF di contrattaccare sulla Marna ( settembre 1914) e di salvare Parigi.
Gli opposti eserciti cercarono allora di aggirarsi reciprocamente sul fianco settentrionale. Questo continuo – e inutile- tentativo di aggiramento diede vita a una serie di battaglie e di scontri mai decisivi conosciuti come “ corsa al mare”. Quando la “ corsa al mare” si fermò, anche la guerra smise di essere guerra di movimento. I tedeschi allestirono un formidabile sistema di trincee, lo perfezionarono continuamente e, almeno a ovest, si tennero sulla difensiva. Solo due volte uscirono dai propri rifugi: la prima volta nel 1916 per “ dissanguare” i francesi a Verdun e la seconda nel 1918 per l’offensiva finale. Entrambe le volte arrivarono a un passo dalla vittoria ma non la ottennero: a Verdun furono bloccati dalla strenua resistenza dei francesi; nel 1918 pagarono la mancanza di riserve e di materiale.

Gli Alleati perseguivano un obiettivo diverso. Persuasi di essere superiori in uomini e in mezzi, essi  volevano riportare la guerra in movimento. Una volta riportata la guerra in movimento- pensavano- nulla e nessuno li avrebbe fermati nella loro marcia verso la vittoria finale. Ma come rompere lo stallo? Come sloggiare i tedeschi dalle loro trincee? Logorandoli giorno dopo giorno, mese dopo mese con battaglie di attrito o spazzandoli via una volta per tutte con una poderosa offensiva? Attaccandoli con gli uomini o martellandoli con l’artiglieria?
I tedeschi, ad ogni modo, misero d’accordo tutti: scavarono profondi ripari sotterranei, collegarono rifugi e trincee, allestirono micidiali campi di fuoco, stesero chilometri di filo spinato, sfruttarono la conformazione dei luoghi, impiegarono al meglio la propria artiglieria, adottarono una difesa elastica scaglionata in profondità, costituirono riserve da impiegare in caso di sfondamento  e respinsero, uno dopo l’altro, gli attacchi di “ logoramento” e gli attacchi “ decisivi” portati dagli Alleati  nel 1915 e nel 1916 ad Arras, a Neuve Chapelle, nella Champagne, sulla Somme e, nella primavera del 1917, sullo Chemin des Dames.
Furono massacri spaventosi. Da una parte e dall’altra i soldati caddero a centinaia di migliaia, dilaniati dalle bombe, falciati dalle mitragliatrici, asfissiati dai gas. I feriti rimanevano ad agonizzare nella terra di nessuno, i morti venivano sepolti in fosse comuni poco profonde, dissepolti  dal fuoco dell’artiglieria, sepolti di nuovo dagli uomini e  di nuovo dissepolti dalle bombe.  I campi di battaglia erano cosparsi di ossa e di resti umani; nell’indifferenza generale i cavalli e gli animali da soma agonizzavano con il ventre squarciato e gli intestini penzoloni. I veterani si riconoscevano a colpo d’occhio: quando si imbattevano in una testa,  in una gamba, in un braccio una volta appartenuti a un essere umano, non cercavano di evitarli come facevano i novellini, ma li calpestavano durante l’avanzata. La morte aveva smesso di essere un fatto eccezionale: era la normalità e ci si era assuefatti. Ogni traccia di umanità sembrava scomparsa.
Fino a un certo punto, però. Dopo la fallita offensiva del generale Robert Georges Nivelle sullo Chemin des Dames, stanchi di essere mandati inutilmente al massacro i poilus francesi si ribellarono. A est i russi fecero altrettanto e non poche diserzioni si contarono anche fra i tedeschi. Ma erano gli Alleati quelli conciati peggio: la Russia si stava sfaldando, gli Stati Uniti non erano ancora pronti, la guerra sottomarina si era acuita e si era fatta indiscriminata, interi reggimenti si rifiutavano di andare in linea. Bisognava reagire prima che fosse troppo tardi.
Nivelle fu messo da parte e le misure adottate dal suo sostituto, il generale Philippe  Pétain l’eroe di Verdun, funzionarono.  Certo, furono convocate le corti marziali, ma furono anche migliorate le condizioni di vita del soldato al fronte, aumentati i permessi e le licenze, introdotte altre agevolazioni. In capo a un mese gli ammutinamenti rientrarono. Pétain impose all’esercito francese anche il proprio modo di vedere tattico: azioni circoscritte con l’appoggio dell’artiglieria, difesa in profondità, attacchi mirati. Lo scopo era duplice: guadagnare tempo in attesa dell’entrata in guerra degli Stati Uniti e ottenere risultati riducendo al minimo le perdite. Ovviamente non tutti la vedevano allo stesso modo e non pochi smaniavano per l’attacco risolutivo.
Tuttavia, nonostante queste misure, la situazione sul campo, nel suo complesso, non migliorò in maniera significativa. Né in Russia né sui mari (dove, però, si cominciava a far viaggiare le navi in convoglio) né altrove. L’ammiraglio Jellicoe, capo della flotta da guerra britannica non ricorse a giri di parole. Disse: se si va avanti di questo passo, se non facciamo qualcosa,  fra un po’ l’Inghilterra sarà alla fame.
Dal canto loro i tedeschi, dando prova di lungimiranza tattica, avevano ristretto il fronte, arretrando di alcuni chilometri, facendo terra bruciata, avvelenando i pozzi, distruggendo strade e villaggi  e attestandosi dietro la cosiddetta “ Linea Hindenburg”. Qui erano state costruite trincee più larghe per impedire ai carri armati di superarle, qui erano state allestite centinaia di postazioni dentro casematte di cemento o sfruttando i ripari naturali ( grotte, caverne), qui, soprattutto, era stato potenziato il già eccellente sistema difensivo in profondità, sempre più in grado di trasformare la difesa in offesa.
C’erano dunque buone ragioni da parte degli Alleati- e dei britannici in particolare- per non mollare la presa. Ragioni strettamente militari ( la conquista dei porti delle Fiandre, basi dei sottomarini tedeschi; la necessità di rompere lo stallo), ragioni politiche (desiderio di porre termine a quella guerra sempre più sanguinosa e impopolare), ragioni di carattere pratico ( gli Stati Uniti, pur essendo entrati in guerra, non erano ancora del tutto pronti), ragioni legate al possibile ritiro della Russia dal conflitto.
Le cautele, tuttavia, non mancavano. Il primo ministro britannico, David Lloyd George, per esempio, non era affatto entusiasta di imbarcarsi in un’altra avventura per trovarsi fra le mani, alla fine,  l’ennesima vittoria di Pirro. Meglio, secondo lui,  porsi sulla difensiva e aspettare i mezzi e gli uomini degli Stati Uniti. I militari invece insistevano perché si portasse un’offensiva per dir così preventiva: se non attacchiamo, saremo attaccati, ripetevano a ogni piè sospinto. Si trattava, tuttavia, di una valutazione sbagliata e non solo con il senno di poi. Anni di guerra, infatti, avevano ampiamente dimostrato una verità incontrovertibile: difendersi era più facile che attaccare. Sul fronte occidentale i tedeschi avevano fino ad allora retto- e retto alla grande- perché – episodio di Verdun a parte- si erano sempre mantenuti sulla difensiva; se, nel 1917, avessero attaccato probabilmente avrebbero fallito. Quando , infatti, l’anno successivo lo fecero, arrivarono sì a un passo dalla vittoria, ma alla fine non riuscirono a sfondare le difese alleate e furono contrattaccati con successo. Ma i militari di allora- molti di essi, almeno-  non brillavano per fantasia o per immaginazione:  mantenere sempre l’iniziativa era per loro un dogma e un’ ossessione, la condizione imprescindibile  per la vittoria finale.
Da questo insieme di ansie, di timori, di necessità, di ossessioni nacque l’idea di portare l’ennesimo “Big Push”, l’ennesima spallata.  Fu scelto il saliente intorno alla città di Ypres, nelle Fiandre, teatro di aspre battaglie negli anni precedenti. Se sfondiamo qui– si ragionava- arriveremo fino a Zeebrugge e a Ostenda, occuperemo i porti da dove partono i sommergibili  e metteremo i tedeschi in ginocchio. Era un obiettivo tutt’altro che trascurabile, ma se vogliamo, limitato. D’accordo, molti sottomarini partivano dai porti della Fiandre, ma molti di più salpavano da quelli tedeschi. Occupare Ostenda e Zeebrugge avrebbe forse fatto terminare la guerra sottomarina? Chi se lo chiese non ebbe risposte certe. David Lloyd George se lo chiese: non ebbe risposte certe, provò a mettersi di traverso, ma alla fine cedette. La sicurezza navale della Gran Bretagna era una priorità irrinunciabile e non essendoci altro modo per garantirla al di fuori di un attacco nelle Fiandre, era necessario stare al gioco.

Wipers

Nel Medioevo, Ypres( oggi Ieper, in Belgio) era stata una città economicamente importante. I tessuti delle Fiandre partivano da qui alla volta di mezza Europa. Poi guerre, pestilenze, rivolte, concorrenza commerciale da parte di olandesi e inglesi, crisi economiche, cambio di gusti e di abitudini ne avevano causato la lenta  decadenza. Nell’Ottocento, tuttavia, la città aveva saputo riprendersi, senza tornare , per altro, agli antichi fasti. All’inizio del XX secolo, la vita a Ypres scorreva tranquilla intorno alla monumentale chiesa di San Martino , alla Piazza del Mercato Grande ( Grote Markt) e al Lakenhalle, il mercato delle stoffe. Nei giorni di mercato la piazza si animava e sulle bancarelle dei  venditori ambulanti si vedevano fiori e tessuti, formaggi e frutta, libri e stampe. La città  si trovava praticamente  a livello del mare e le acque erano tenute sotto controllo  per mezzo di un complesso sistema di drenaggio. Senza questo accorgimento, le acque sarebbero affluite in superficie stagnandovi e pregiudicando ogni tipo di attività.
Allo scoppio della guerra, Ypres si scoprì di nuovo importante,  tragicamente  importante. A Ypres era finita di fatto la “corsa al mare”; intorno a Ypres si era formato un saliente tenuto dai franco-britannici, incuneato nelle linee nemiche ed esposto su tre lati; nel 1914 e nel 1915 a Ypres erano state combattute due feroci battaglie,  monumenti e abitazioni non esistevano più, gli abitanti erano stati evacuati, migliaia di uomini erano morti combattendo. A Ypres, per la prima volta erano stati impiegati in battaglia  i gas asfissianti a base di cloro ; a Ypres un giovane soldato di nome Adolf Hitler, come abbiamo visto, si era battuto con coraggio e valore.
Ypres dunque ( anzi Wipers, come la chiamavano gli inglesi, in difficoltà a pronunciarne il nome francese) circondata nell’entroterra  da alcune basse alture, porta d’accesso al Canale della Manica era  una posizione-chiave. Nell’agosto del 1914, i tedeschi avevano fatto una breve apparizione in città e poi se ne erano andati. Verso Parigi e verso la vittoria finale, secondo loro. Non stavano forse realizzando il “piano perfetto”, preparato con tanta cura dal conte Schlieffen? Quando il “piano perfetto” fece cilecca e dovettero ritirarsi, capirono l’intera importanza strategica di questa cittadina sonnolenta e a rischio di allagamento e si pentirono amaramente di non averla occupata in tempi – per loro- migliori. Ma era accaduto e ora era troppo tardi per rimediare. Cercarono ovviamente di riprendersela, ma contro ogni previsione,  i britannici – per loro poco più di soldati da operetta- tennero duro e così dovettero rinunciare.
Ora, per la terza volta, Ypres stava per tornare al centro della guerra in occidente.

Il primo caduto in battaglia.

Paul Nash( 1889-1946), The Menin Road( 1919), Imperial War Museum, London

Paul Nash( 1889-1946), The Menin Road( 1919), Imperial War Museum, London


Il piano del comandante in capo della BEF ( British Expeditionary Force) Sir Douglas Haig era articolato in tre fasi: la conquista del crinale di Messines per mettere in sicurezza il fianco destro dell’offensiva; lo sfondamento del fronte tedesco nel saliente di Ypres dopo aver conquistato le alture intorno alla città; l’avanzata verso Ostenda e Zeebrugge. Era prevista anche un’operazione anfibia a sostegno dell’attacco ai porti delle Fiandre, subordinata, naturalmente, a una rapida vittoria sul terreno.
Sulla carta tutto quadrava, tutto tornava. Sulla carta, appunto. Il Maresciallo Helmut von Moltke il Vecchio, il vincitore di Sedan (1871), era solito dire: “ La prima vittima di una battaglia è il piano di battaglia.” Come vedremo, mai parole risulteranno più azzeccate.

La mossa di apertura- l’attacco a Messines, 7 giugno- fu, tuttavia, un successo completo. In questo settore gli inglesi erano comandati da un ufficiale prudente, capace, intelligente, attento a limitare le perdite: il generale di brigata sir Herbert  Plumer. Non  amava gli attacchi sconsiderati, sir Herbert: preferiva procedere a piccoli passi, un obiettivo per volta. Anziché cercare di risolvere tutto subito, preferiva scomporre il problema in tante parti più piccole, risolverle una per una e arrivare per questa via alla soluzione finale. Sapeva impiegare l’artiglieria come pochi, concentrando il fuoco su un fronte ristretto, allestendo efficaci sbarramenti mobili a protezione delle fanterie o facendo collocare, quando era possibile,  tonnellate di esplosivo sotto le trincee nemiche, come fece a Messines.
Dopo Messines, Plumer capì subito l’importanza di battere il ferro finché era caldo e insistette presso Haig perché si desse il via all’offensiva senza indugiare ulteriormente. I tedeschi hanno accusato il colpo, hanno il morale basso, non fermiamoci ora, diamo loro addosso partendo da qui: più aspettiamo, più avranno tempo per riprendersi, non si stancava di ripetere. Ma i tempi di Haig erano diversi. Niente da fare, fu la risposta. Il piano non si modifica: attaccheremo a Wipers quando sarà il momento e secondo quanto stabilito. E, secondo quanto stabilito, la Quinta armata  di sir Hubert  Gough, protetta sul fianco sinistro dai francesi del generale Francois Antohine e su quello destro proprio da Plumer,  avrebbe dovuto fare il grosso del lavoro.
Sir Gough era un generale aggressivo, audace, preparato, determinato. Uno dei migliori. In più proveniva, come Haig, dalla cavalleria. Per il comandante supremo era dunque l’uomo ideale per realizzare il tanto sospirato  Big Push. C’era però un problema. Anzi, ce n’erano due.  A differenza delle divisioni di Plumer, già sul posto, la Quinta armata avrebbe dovuto  essere portata in posizione. E portare in posizione così tanti soldati, i cannoni, i cari armati sarebbe passato inosservato? O non avrebbe messo i tedeschi sull’avviso, facendo svanire qualsiasi effetto sorpresa?  Inoltre  Haig pensava a uno sfondamento per dir così progressivo, a tappe, fatto di pressioni continue ma successive; Gough invece era convinto di dover picchiare duro subito e una volta per tutte. Resta da chiedersi perché i due non si siano capiti o perché non sia stata  preliminarmente chiarita una questione così importante.

Le fanterie attaccarono il 31 luglio, alle quattro del mattino. Prima, come da copione, c’era stato il solito bombardamento di apertura. Un bombardamento durato due settimane, durante le quali più di quattro milioni di proiettili erano caduti sulle posizioni tedesche. Gli effetti? Non proprio esaltanti.  Il posizionamento della Quinta armata aveva già messo in allarme i tedeschi, le  prime bombe avevano trasformato l’allarme in certezza: si preparava un attacco in grande stile.  E così come avevano fatto l’estate precedente sulla Somme, anche a Ypres i tedeschi sparirono sottoterra. Molti ci rimasero sepolti, ma quando il bombardamento britannico finì, la maggior parte di essi uscì intontita ma illesa dai rifugi sotterranei e prese posizione dietro le mitragliatrici e sulle alture.
Quel tipo di bombardamento gli Alleati potevano anche risparmiarselo. Intendiamoci: il bombardamento doveva essere effettuato, ma non in quel modo.  Un bombardamento del genere, infatti, serviva a poco contro l’eccellente sistema difensivo tedesco. La  battaglia della Somme non aveva insegnato proprio niente? E la tattica di Plumer di concentrare il fuoco su un fronte ristretto era già stata dimenticata? E che dire del pericolo di distruggere il sistema di drenaggio e di trovarsi il campo di battaglia allagato ?  Haig non era uno sciocco ed era consapevole dei rischi che correva. Ma era anche un ottimista inguaribile: raddoppio la potenza di fuoco rispetto alla Somme, impiego i carri armati e colgo la vittoria prima che il terreno si allaghi. Questo si aspettava; di questo era certo.
Di Haig si è detto tutto e il contrario di tutto. Durante e dopo la guerra sarà criticato ed esaltato; riceverà il poco lusinghiero appellativo di macellaio, ma anche quello più lusinghiero di artefice della vittoria; sarà definito ottuso, ma anche  lungimirante; sarà fatto passare come l’anacronistico difensore della cavalleria, ma sarà anche celebrato come il sostenitore della tecnologia applicata alla guerra.
Sia come sia, una cosa comunque è certa: non era fortunato.
Sul fianco sinistro della Quinta armata, l’avanzata fu rapida. Sostenuti dai carri armati, i Tommies registrarono significativi progressi intorno al crinale di Pilcken. Ma chi doveva, sul fianco destro, occupare il crinale di Gheluvelt, incontrò una forte resistenza e non poté raggiungere l’obiettivo. Più a nord, i francesi del generale Antohine furono fermati dagli uomini del generale Gallwitz.
Alle quattro del pomeriggio cominciò a piovere. La pioggia battente si protrasse per giorni e trasformò il campo di battaglia in un acquitrino. Il sistema di drenaggio era stato distrutto dal bombardamento di preparazione, il terreno era pieno di buche scavate dalle bombe e il fango la faceva da padrone ovunque. Lo slancio iniziale, come è ovvio, perse vigore. I carri armati non potevano muoversi, i cannoni sprofondavano nel fango. E nel fango sprofondavano anche gli uomini e gli animali; i feriti non potevano essere tratti in salvo e agonizzavano per ore affondando sempre più  in quella melma vischiosa. Non si poteva continuare. Persino sir Gough se ne accorse e lo fece presente a Haig. Niente da fare, fu la risposta: si continua. E così, fino al 16 agosto- giorno in cui le operazioni furono  temporaneamente sospese-  nell’acquitrino intorno a Ypres altro sangue fu versato durante scontri tanto feroci quanto inutili.
Quando le ostilità ripresero il 20 settembre, il copione era cambiato. E anche i comandanti. Non si attaccava più a nord, ma a sud-est in direzione del villaggio di Passchendaele.  E questa volta sarebbe toccato a Plumer, non a Gough condurre l’offensiva. Fedele alle proprie teorie, Plumer pianificò una serie di attacchi concentrati su un fronte ristretto  e condotti sotto la protezione di uno sbarramento mobile. Il 20 settembre fu conquistato dagli australiani  il ponte sulla “Strada di Menin” ( Menin Road). Spingendosi in avanti,  gli Aussie raggiunsero nei giorni seguenti le prime propaggini del cosiddetto “ Bosco del Poligono” ( Poligon Wood), pagando un prezzo altissimo( 5.000 perdite). In puro stile Plumer, le conquiste furono consolidate e fu costruita anche una ferrovia per il trasporto delle truppe, dei rifornimenti e per l’evacuazione dei feriti.
Il 26 con il tempo bello e il terreno asciutto, il creeping barrage di Plumer funzionò egregiamente, “ accompagnando” gli australiani  della Quarta divisione a completare la conquista di ciò che rimaneva del  Bosco del Poligono e a occupare posizioni in grado di minacciare il crinale di Broodseinde. Il 3 ottobre, gli australiani si mossero per attaccare il crinale. Contemporaneamente, i tedeschi, protetti dal fuoco dei propri mortai, uscirono dalle trincee e attaccarono. Per un caso più unico che raro, entrambi i contendenti avevano programmato l’attacco alla stessa ora. Gli australiani affrontarono l’attacco caricando con la baionetta inastata, mentre i tedeschi risposero con le  mitragliatrici. Alla fine i tedeschi si ritirarono, ma il successivo fuoco di sbarramento devastò le loro trincee e gli australiani furono in grado, il giorno dopo, di occupare il crinale. Il generale Erich Ludendorff , Primo Intendente generale dello Stato Maggiore Imperiale[2], definì quel 4 ottobre “ un giorno nero per la Germania”.
Ora, l’unico ostacolo frapposto fra gli Alleati e il tanto agognato sfondamento era il villaggio di Passchendaele. Ma, sfortunatamente, il 5 ottobre riprese a piovere. Un brutto guaio per gli attaccanti. Lo sbarramento mobile per essere efficace- e Plumer lo aveva dimostrato ampiamente nei giorni precedenti- aveva bisogno di un terreno asciutto. E ora stava piovendo di nuovo. Ma Haig la pensava diversamente: d’accordo, pioveva, ma era una pioggia fine e leggera: se non si fosse perso tempo, Passchendaele avrebbe potuto essere conquistata prima che il terreno fosse diventato fradicio. Mise addirittura in stato di preallarme la cavalleria: avrebbe dovuto lanciarsi immediatamente nella breccia aperta dalle fanterie e travolgere i tedeschi. Proprio come sulla Somme.
Ma il 9 ottobre quando partì l’attacco non piovigginava, diluviava. E soffiava un vento assassino. Inoltre i tedeschi avevano ricevuto rinforzi dal fronte orientale e se ne stavano relativamente all’asciutto all’interno delle proprie  postazioni in cemento, protetti da reticolati quasi intatti. Gli australiani attaccarono in direzione di Poelcapelle e furono respinti con gravi perdite.  Tuttavia venti di loro  raggiunsero, miracolosamente, le rovine della chiesa di Passchendaele. Si aspettavano appoggio, contavano di ricevere rinforzi. L’artiglieria britannica, è vero, aprì un  fuoco di copertura ma i proiettili non esplosero o sprofondarono nel terreno reso molle dalla pioggia . Di rinforzi, poi, nemmeno l’ombra. Così  quei venti coraggiosi dovettero ritornarsene al punto di partenza, strisciando nel fango.
Oltre ai rinforzi, i tedeschi avevano ricevuto anche nuovi proiettili di artiglieria. Le bombe, però, al momento del loro impatto con il terreno non esplodevano, ma rilasciavano un gas dall’odore pungente, molto simile a quello della senape. Era il famigerato “gas mostarda” ( Mustard gas, meglio conosciuto come iprite). Tendeva a depositarsi in basso dove veniva trattenuto dall’umidità e dalla pioggia; provocava ustioni terribili sulla pelle, cecità e, se inalato, edema polmonare. Ci metteva qualche ora ad entrare in azione e provocava terribili sofferenze. Favorito dal clima umido e piovoso di quei giorni a Passchendaele, l’iprite causò migliaia di vittime.
Cominciò a far freddo. Il 12 ottobre Haig ordinò un altro attacco. Fu un disastro. Gli australiani sprofondarono fino alla cintura in un mare di fango, i fucili e le mitragliatrici si incepparono. Non fu un’avanzata, fu un martirio. Al sicuro nei loro rifugi asciutti e riparati, i tedeschi spararono nel mucchio a bersagli  praticamente fermi. Fu una strage spaventosa. La Terza divisione australiana perse quasi 3.200 uomini; l’intera forza attaccante, settemila.
Ma nonostante queste terribili perdite, Haig non cedeva: voleva Passchendaele e l’avrebbe avuta. Ad ogni costo. Perché senza la conquista di Passchendaele, quella campagna sarebbe stata, a suo modo di vedere e non solo, l’ennesimo fallimento. Avvicendò allora gli australiani e portò in linea i canadesi. Il loro comandante – il generale Arthur Currie- era un ufficiale con la testa sulle spalle. OK, disse, tocca a noi e noi non ci tireremo indietro. Ma si attacca quando dico io e alle mie condizioni. E, cioè, con il tempo bello, con i dovuti supporti logistici e avanzando a balzi successivi.  Haig “ convenne”: in altre parole cedette. Il 12 novembre, dopo accaniti scontri, i canadesi, finalmente, occuparono Passchendaele. La battaglia era finita. Lo sbarco anfibio sui porti belgi fu definitivamente accantonato
La terza battaglia di Ypres costò agli Alleati mesi di sofferenze e perdite spaventose. Il principe Rupprecht di Baviera, comandante del settore, scrisse: “ Nonostante l’impiego massiccio di uomini e di materiali, il nemico non ha ottenuto alcun vantaggio.” La replica è nota: falso: quei terribili avvenimenti  fornirono agli Alleati l’esperienza necessaria per sviluppare nuove tattiche di combattimento. Esse giunsero a compimento nel 1918 e consentirono loro di cogliere la vittoria finale.
Sia come sia, una cosa è comunque certa: l’anno dopo , in piena offensiva, i tedeschi si ripresero Passchendaele e i suoi crinali. In un paio di giorni.

Epilogo

Nel maggio del 1916, il generale Haig aveva avvisato: la Nazione deve imparare a sopportare le perdite: non si può vincere la guerra senza il sacrificio di vite umane. Ma i morti, i feriti, i dispersi di Passchendaele ( quasi quattrocentomila fra gli Alleati, un po’ di più fra i tedeschi) colpirono profondamente l’opinione pubblica. Haig era sicuramente onesto e forse aveva anche ragione nel dire quello che disse, ma chi aveva perduto un figlio, il marito, un amico nei campi delle Fiandre non voleva, non poteva farsene una ragione.
Oggi, nei campi delle Fiandre, i cimiteri di guerra, amorevolmente curati, custodiscono i resti di quei poveri soldati e la memoria di quegli avvenimenti. Ha scritto il tenente colonnello John McCrae, medico militare, morto nel 1918 di polmonite contratta al fronte:

Nei campi delle Fiandre, fra le croci
Che in file ordinate il nostro posto
Segnano , fioriscono i papaveri.
Nel cielo, cantando,  volano le allodole
-ci vuole coraggio per farlo- e il loro canto
Si perde a terra, fra il tuono delle armi.

Noi siamo i morti che la guerra uccise.

Non molti giorni fa eravamo vivi,
Sorgeva l’alba e tramontava il sole,
Avevamo chi amare e chi ci amava
e ora
 giacciamo nei campi delle Fiandre.

Tocca a voi combattere il nemico.
A voi noi consegniamo con le mani stanche
questa torcia perché alta la teniate.
Se voi verrete meno alla  promessa,
noi, i morti che la guerra uccise,
non avremo mai pace, anche se in fiore
nei campi delle Fiandre, a centinaia
continueranno a crescere i papaveri.

Oggi il “nemico” non indossa più l’uniforme da campo. Oggi il nemico , il vero nemico è l’assenza di ogni memoria. E tocca a noi, a tutti noi, giorno dopo giorno, mantenere la promessa.


Da leggere
:

Correlli Douglas Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi, 1965
Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Bur, 2003
Robert Graves, Addio a tutto questo, Piemme, 2005
Alessandro Gualtieri, Le battaglie di Ypres : il saliente più conteso della Grande Guerra, Fidenza, Mattioli 1885, 2011.
John Keegan, La prima guerra mondiale: una storia politico-militare, Carocci, 2000
John McCrae, In Flanders Fields
Erich Maria Remarque, All’ovest  niente di nuovo, Mondadori, 1990
AJP Taylor, Storia della prima guerra mondiale, Vallecchi, 1967


Da vedere
:

Passchendaele, di Paul Gross, 2008

bandiera inglese  Traduzione automatica in inglese( Automatic English translation): The third time1

Nel Web:

The strategic context of battle of Passchendaele
Wikipedia: la battaglia di Passchendaele
The battle of Paschendaele, History Learning site
The First World War
BBC History: Western Front Animation

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Finestre chiuse, porte aperte.
Un giovane tenente , un brillante generale  e quattrocento cannoni che  non sparano un colpo. Dove? A Caporetto.
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Passchendaele la mappa


[1] Si tratta dei primi due versi della prima strofa di quella che ai tempi della Grande Guerra era in Germania solo una canzone patriottica. In seguito essa diventerà l’inno nazionale tedesco( di quell’inno, oggi, si canta soltanto la terza strofa). Significa: La Germania, la Germania prima di ogni altra cosa al mondo. La Patria come valore supremo, in altri termini.
Lo storico americano Robert Cowley in un articolo pubblicato nel 1998 sul Quarterly Journal of Military History mette in discussione la versione dei fatti raccontata da Hitler in Mein Kampf. Basandosi su testimonianze e bollettini ufficiali, egli evidenzia le contraddizioni esistenti fra date, fatti e nomi delle località, e pur non negando l’avvenimento -realmente accaduto, anche se non proprio esattamente come raccontato da Hitler – sottolinea come il Kindermord di Ypres  sia stato manipolato e trasformato in una specie di mito da parte della propaganda nazista. Il fatto probabilmente accadde intorno alla località di Bixchoote, un  nome  poco marziale e per niente “ tedesco”. Così il Kindermord fu spostato, successivamente,  a Langemarck .

[2] Il capo delle Forze Armate tedesche era, naturalmente, il Kaiser. Dopo l’allontanamento di Falkenhayn, il barone Paul von Hindenburg- una specie di monumento nazionale dopo le sue vittorie sui russi-  assunse il titolo di Capo di Stato Maggiore Imperiale. A Ludendorff fu offerta la nomina  di Vice Capo di Stato Maggiore. Non sentendosi inferiore ad alcuno, Ludendorff rifiutò. La soluzione fu trovata nominandolo “Primo Intendente Generale” ( Correlli Barnett) . In pratica, tuttavia, era lui, all’interno dello Stato Maggiore Imperiale, a dettare la linea.

1914, la tregua di Natale: uno spot pubblicitario, un piccolo capolavoro.

 


L’esercito degli innocenti

11/05/2013

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Blue sky shining on a perfect day,
A lark was singing, high above the Somme.

(Mike Harding, The Accrington Pals)

(Cielo azzurro, bellissima giornata,
Alta sulla Somme un’allodola cantava)

Prologo.

In primavera la Piccardia è un’unica verde distesa di campi coltivati e di boschi. La Somme scorre lenta e tranquilla, disegnando anse, formando stagni e paludi, paradiso degli uccelli acquatici. A volte, sulla superficie in apparenza uniforme dei prati si scoprono piccole fratture, strani avvallamenti. In maggio i  papaveri li vestono di rosso.
Alte nel cielo cantano le allodole.

“Spallata” e “Rosicchiamento”.

Dopo il fallimento del Piano Schlieffen, sul fronte occidentale una linea pressoché ininterrotta di trincee corre dal Mare del Nord fino ai confini con la Svizzera. Dentro quelle trincee umide d’inverno, caldissime d’estate, maleodoranti, infestate da topi e da pidocchi, da rospi e da blatte è finito il sogno di Guglielmo II  di terminare la guerra nello spazio di pochi mesi. Ma nessuno vuole abbandonare la partita. I tedeschi hanno allestito un formidabile sistema difensivo contro il quale gli Alleati, nel 1915, si accaniscono  invano. La loro unica speranza di rompere lo stallo è quella di riportare la guerra in movimento. Se questo accadesse, potrebbero far valere la propria superiorità in uomini e materiali e vincere.
Durante un incontro tenutosi a Chantilly dal 6 all’8 dicembre del 1915, gli Alleati definiscono la strategia per il 1916: gli Imperi Centrali  sarebbero stati attaccati su tre fronti: dai russi a est, dagli italiani a sud e dai franco-britannici a ovest. Obiettivo: rompere lo stallo e tornare alla guerra di movimento.
A ovest dunque. Ma in quale parte del fronte? Il generale inglese Sir Douglas Haig, nuovo comandante del Corpo di Spedizione Britannico( British Expeditionary Force, BEF) un’idea ce l’ha. Se attacchiamo nelle Fiandre  e sfondiamo -sostiene- possiamo impadronirci, fra l’altro, dei porti da dove salpano i sommergibili tedeschi. E che dire poi dei rifornimenti? Le Fiandre sono vicine al Canale della Manica, le nostre navi possono trasportare quello che ci serve, non corriamo il rischio di restare a corto di materiali e di uomini durante le successive operazioni.
Padrone dei propri nervi, risoluto, paziente, ambizioso anche se “poco brillante” ( Walter Reid, Architect of Victory: Douglas Haig, Birlinn, 2006) , talvolta freddo e riservato, tanto riservato da sembrare a volte quasi privo di opinioni proprie, il generale Haig proviene dalla cavalleria per la quale nutre una sorta di venerazione. A guerra finita, nemmeno l’avvento dei carri armati e dell’aviazione militare– che egli stesso, per altro, organizzerà e potenzierà in Corpi autonomi proprio in occasione della battaglia della Somme – saranno in grado di fargli cambiare idea: nei tank e negli aerei continuerà a vedere soltanto utili supporti per le fanterie e per la cavalleria. È rimasta celebre una sua affermazione: “ La mitragliatrice non rimpiazzerà mai il cavallo come strumento di guerra.”
Quando assume il comando al posto del demoralizzato Sir John French, Haig vede nel fronte occidentale la chiave di tutto: sul fronte occidentale e solo sul fronte occidentale la guerra sarà vinta o perduta. La sua ricetta è semplice: impegnare il nemico su un ampio fronte( più ampio è meglio è) così da costringerlo a impiegare tutte le sue riserve, tenerlo sotto pressione con l’artiglieria , poi portare il colpo decisivo nel punto o nei punti più deboli.

Il generale Joseph Joffre, comandante in capo delle Forze Armate francesi, la vede diversamente. Celebrato come il salvatore della patria dopo la battaglia della Marna( settembre 1914), grande organizzatore, dotato di un sangue freddo eccezionale, ottimista anche contro ogni evidenza, offensivista convinto- élan et cran, impeto e “fegato”, baionetta e coraggio, solo quelli contano- non brilla però per acume tattico o strategico. Il suo credo è riassunto in una sola parola: “grignotage” (letteralmente “ rosicchiamento”). Che il dizionario Larousse definisce in questo modo: “action de gagner à peu de terrain, de s’approprier progressivament quelque chose”. In altri termini, Joffre basa tutta la sua strategia su ripetute azioni offensive volte a logorare il nemico per guadagnare qualche metro di terreno. Rosicchia oggi, rosicchia domani – è il suo ragionamento-  alla fine il sistema difensivo tedesco crollerà e si potrà tornare alla tanto agognata guerra di movimento.
Teoria pericolosa quella del “ logoramento”: come abbiamo visto, i tedeschi  sono trincerati dietro un sistema difensivo formidabile e possono ottenere il medesimo risultato standosene sulla difensiva, sfiancando e consumando le forze alleate. Le campagne di ” rosicchiamento” del 1915 nell’Artois e nella Champagne- per Joffre “ brillanti successi”, ma in pratica massacri spaventosi-  sono lì a dimostrarlo in tutta la loro drammaticità. Insomma, come è stato osservato, Joffre vuole addentare “ una porta d’acciaio con una dentiera malferma”.
E tuttavia, benché ci sia poco grignotage nella proposta di Haig di attaccare nelle Fiandre, il generalissimo francese, in un primo momento, la accetta. Ma poi ci ripensa e, in febbraio, nel corso di un secondo incontro congiunto, propone e ottiene di spostare l’attacco nel nord della Francia, in Piccardia,  nella zona del fiume Somme.
Perché lì e non  altrove? Perché quello è il punto di sutura delle armate francesi e britanniche? Perché in quella zona si possono schierare forze imponenti? Perché essendo falliti i tentativi recenti portati nella Champagne, a Ypres, ad Arras, tanto vale provare  a “ rosicchiare” altrove? Perché in Piccardia si trova il centro dello schieramento tedesco e se si sfonda in quel punto è fatta? Sia come sia , una cosa è certa: i vertici militari, ossessionati dall’idea di riportare in movimento la guerra, pressati dall’opinione pubblica e dai politici, hanno fame di  risultati. E vogliono ottenerli a qualsiasi costo. Stando così le cose, le perdite di vite umane, per loro, sono solo un dettaglio. E, per giunta, trascurabile.

Il piano.

Il piano prevede un attacco a sud e a nord della Somme lungo l’asse della carreggiata Albert-Baupome ed è sostanzialmente articolato in tre fasi: un violento bombardamento di preparazione, l’attacco delle fanterie, l’intervento  della cavalleria. I cannoni avrebbero dovuto spianare le trincee, polverizzare i reticolati, mettere fuori combattimento quanti più uomini possibile; le fanterie, protette da un fuoco di sbarramento mobile, avrebbero dovuto aprire una breccia nelle posizioni tedesche; la cavalleria, infine, tanto amata da Haig, avrebbe dovuto sfruttare immediatamente qualsiasi  breccia aperta per “ avvolgere” ( roll up) le truppe nemiche.
Troppe incognite però gravano su quel piano. Le tre fasi non sono indipendenti le une dalle altre, ma strettamente collegate. In altri termini si passa alla fase due solo dopo l’esaurimento della fase uno e si passa alla fase tre solo se si è conclusa positivamente la fase due. In pratica, se il bombardamento iniziale risulta inefficace( fase uno), le fanterie non possono ovviamente conquistare le posizioni nemiche( fase due); se le fanterie non occupano le posizioni nemiche, la cavalleria non può intervenire( fase tre). E allora l’intero piano- troppo rigido e poco suscettibile di adattamenti-  va a farsi benedire.
Inoltre, come abbiamo visto, Joffre e Haig  hanno idee diverse circa i modi per portare il colpo: Haig vorrebbe un’azione risolutiva di sfondamento, Joffre l’ennesimo “ rosicchiamento”. Dal canto suo, il comandante della Quarta armata, il generale Sir Henry Rawlinson, preferirebbe un approccio “ bite and hold”, un passo alla volta: conquistiamo le posizioni nemiche, ci attestiamo, le rendiamo sicure e poi proseguiamo. Il generale Allenby, incaricato di condurre una manovra diversiva nei dintorni di Gommeourt ( nord del fronte) avverte: attenzione, fra i miei  soldati e quelli di Rawlinson c’è un “ buco” di un paio di chilometri. Detto in altri termini, ho il fianco scoperto. Se i tedeschi se ne accorgono e sfruttano quel corridoio, sono guai seri. Nessuno gli bada più di tanto. C’è approssimazione, insomma. E forse un ottimismo esagerato.
E fretta, soprattutto. Dal 21 febbraio i francesi sono sotto attacco a Verdun e vogliono accelerare l’apertura del secondo fronte. Haig vorrebbe far partire l’offensiva in agosto, Joffre ha l’acqua alla gola e non può aspettare così a lungo. Alla fine Haig cede e l’attacco viene fissato per il 1° luglio.  Con due conseguenze facilmente intuibili: il contributo francese sarà per forza di cose inferiore a quello originariamente previsto( 11 divisioni anziché 40) e l’offensiva della Somme, dovendo servire anche ad alleggerire la pressione tedesca su Verdun,  perderà in gran parte le proprie caratteristiche originarie.
Alla fine della guerra, il Capo di Stato Maggiore Imperiale, Sir William Robertson , individuerà non nel Big Push, nella spallata definitiva, ma nella “necessità di alleviare la pressione tedesca su Verdun e di causare il maggior numero possibile di perdite ai tedeschi”   l’obiettivo principale dell’offensiva sulla Somme. In realtà, alla vigilia della battaglia, le aspettative sono ben altre.

La battaglia.

L’attacco è preceduto da un bombardamento violentissimo.  Dal 24 al 30 giugno, per sette giorni e altrettante notti, sulle posizioni tedesche piovono più di un milione  e mezzo di proiettili. “ Neanche un topo  resterà vivo” è la lungimirante profezia di Haigh. E, in effetti, nei loro rifugi sotterranei, i Landser hanno i nervi a fior di pelle; tremano a ogni scoppio, terrorizzati dall’idea di rimanere sepolti vivi. Alle sette del mattino del 1° luglio, giorno fissato per l’attacco, le artiglierie alleate sparano di nuovo.  Fra le 7,15 e le 7,28 potenti mine  vengono fatte brillare sotto le trincee tedesche. Si aprono enormi crateri. Alle 7,30 di una giornata estiva serena e luminosa , le fanterie superano i parapetti e avanzano , mentre il fuoco di sbarramento si sposta gradualmente in avanti.
Le cose si mettono subito male. I reticolati non stati danneggiati dal fuoco di preparazione se non in alcune zone del fronte. Le fanterie sono così costrette a rallentare la loro avanzata, “ perdono” lo sbarramento  e arrivano vicino alle posizioni nemiche quando già i tedeschi hanno lasciato i rifugi e hanno raggiunto i propri posti di combattimento nelle trincee sulle alture calcaree della Somme: da lì sono in grado di dominare l’intero campo di battaglia.
La sera del 1° luglio -giornata rimasta tristemente e tragicamente famosa nella storia dell’esercito britannico- gli inglesi hanno prima conquistato poi perduto la cosiddetta “Ridotta degli Svevi” ( Schwaben Redoubt) , hanno preso i villaggi di Mametz e Montauban, circondato quello di Fricourt,  ma hanno anche perso sessantamila uomini. Sessantamila uomini in un  solo giorno.
Intorno a Le Boiselle, la 34.ma divisione ha lasciato sul terreno quasi quattromila soldati. “ L’attacco è stato una magnifica dimostrazione di valore e di disciplina. Il successo è mancato solo perché i caduti non sono potuti avanzare”, è il paradossale e surreale commento di un ufficiale britannico, il  maggior generale Sir Beauvoir de Lisle, comandante la 29ma divisione. A sud i francesi sono più fortunati – o più abili nello sfruttare il fuoco di preparazione e quello di sbarramento- e compiono progressi significativi, occupando alcune località e facendo numerosi prigionieri.
Il 2 luglio Haig e Rawlinson si incontrano per fare il punto della situazione. Il primo è  per attaccare immediatamente in forze nelle zone dove sono stati compiuti i progressi più significativi, il secondo frena. Prima di avanzare, sostiene, bisogna neutralizzare le posizioni nemiche intorno al bosco di Mametz e al Bosco Alto  ( High Wood). In sostanza ripropone la sua vecchia idea del“ bite and hold”. Entrambi sembrano tuttavia ignorare la dimensione spaventosa delle perdite subite il giorno prima; entrambi sembrano convinti di poter ancora sfondare.[1] Il 14 luglio, l’attacco ai Boschi, preceduto da un  breve fuoco di artiglieria concentrato su un fronte ristretto, riesce in parte. Questa volta il bombardamento preparatorio è brevissimo, le fanterie si muovono con il favore dell’oscurità, registrano progressi nei dintorni di Mametz ( crinale di Bazentin), ma non riescono a occupare High Wood.
Nei giorni e nelle settimane seguenti i combattimenti si fanno più aspri nel settore- “orribile di giorno, spettrale di notte”( ghastly by day, ghostly by night)- compreso fra il Bosco Alto e Pozières. Quest’ultimo villaggio è attaccato invano per quattro volte, prima che gli australiani riescano a conquistarlo lasciando sul terreno, fra il 19 luglio e il 5 settembre, 28.000 uomini.
Nonostante questi episodici e costosissimi successi, la situazione complessiva sembra in stallo. Premuto dai politici a loro volta premuti dall’opinione pubblica, Haig cerca di rompere lo stallo attaccando nella zona di Flers- Courcelette, a sud della strada Albert-Baupome. Nel corso di questa battaglia( 15-22 settembre), fa la propria apparizione una nuova arma, il carro armato. Su 49 disponibili,  solo 32 sono operativi. Non decidono granché, in verità. Non solo perché sono spaventosamente lenti ( poco più di sei Km all’ora) e si guastano con estrema facilità, ma anche perché Rawlinson li impiega su tutto il fronte d’attacco, anziché concentrarli in un settore ristretto.
All’ inizio tuttavia l’attacco riesce. Importanti posizioni ( il Bosco Alto, Courcelette, Martinpuich) cadono in mano britannica. Le perdite sono ridotte, i tedeschi sembrano accusare il colpo. Dal 25 al 28 settembre, Rawlinson registra altri successi: vengono conquistate Morval, Lesboeuf e Gueudecourt, anche grazie ai progressi fatti registrare nella tattica. Il fuoco di preparazione viene concentrato su un tratto ristretto del fronte; il sincronismo fra il procedere dello sbarramento e l’avanzata delle fanterie è notevolmente migliorato, si portano attacchi coordinati. Come nella zona di  Thiepval, ad esempio, dove canadesi e inglesi riescono a circondare questa importante posizione( obiettivo del 1° luglio) infiltrandosi fra le linee nemiche e sfruttando gli attacchi frontali delle truppe australiane.
In  novembre il tempo si mette al peggio, rendendo impossibili ulteriori attacchi su larga scala. Fra ottobre e novembre, tuttavia, la Quinta armata inglese ( già Armata della riserva) coglie alcuni importanti successi sul lato nordoccidentale del fronte, nella zona del fiume Ancre, conquistando la località di Beucourt.
Quando il 18 novembre le ostilità cessano, gli Alleati sono penetrati per una dozzina di chilometri all’interno delle linee tedesche. Cinque mesi di accaniti combattimenti hanno prodotto scarsi risultati e, considerando tutte le parti in campo, quasi un milione e duecentomila perdite.

(fonte: Richard Holmes, BBC)

Anatomia di un massacro.

Immagine tratta dal film The Trench-La Trincea, di William Boyd, 2000

Immagine tratta dal film The Trench-La Trincea, di William Boyd, 2000

Quel tragico 1° luglio 1916 nella zona della Somme un “esercito di innocenti” ( Keegan) andò all’attacco in file ordinate, una dietro l’altra, quasi a passo di parata e con il fucile ad armacollo. Ma chi erano quei soldati? Da dove venivano? Chi o che cosa li aveva portati all’appuntamento con la morte?
L’esercito inglese era un esercito di professionisti: bravi, preparati, ma relativamente pochi. Ben presto fu chiaro  che la guerra europea appena scoppiata sarebbe stata lunga e difficile. Le sei divisioni dell’esercito e le milizie territoriali non avrebbero potuto sostenere uno sforzo bellico prolungato. In altre parole occorrevano soldati. Tanti soldati. Non essendoci ancora la coscrizione obbligatoria( sarà introdotta nel marzo del 1916), si ricorse allora ai volontari. L’idea fu del ministro della Guerra, lord Horatio Kitchener. Londra fu la prima città ad essere interessata, poi fu la volta di Liverpool. A poco a poco, l’ Inghilterra intera fu invasa da migliaia di manifesti dai quali l’effigie del ministro, i folti baffoni e l’indice puntato, invitava gli inglesi ad arruolarsi.
L’appello fu accolto. Migliaia e migliaia di giovani entusiasti si presentarono ai centri di raccolta formando lunghissime code. Il generale Henry Rawlinson promise: chi proviene da una stessa città, da uno stesso quartiere, addirittura da una stessa categoria professionale sarà inquadrato nello stesso reparto per l’intera durata del conflitto. Nacquero così i “Battaglioni di amici” ( Pals Battalions). Essi raggruppavano i giovani dei quartieri poveri di Londra, di Manchester, di Liverpool, di Sheffield, di Glasgow, di Cardiff. Ma anche i tifosi di squadre di calcio( West Ham, Hearts of Midlothian), gli studenti delle scuole pubbliche, gli sportivi( compreso un campione nazionale di boxe), i commercianti, gli addetti ai trasporti, gli impiegati pubblici, persino gli artisti. Ci si arruolava per sfuggire alla povertà e alle miserie della vita quotidiana; ci si arruolava per aiutare “ il coraggioso, piccolo Belgio”; ci si arruolava per spirito di emulazione o per desiderio di autoaffermazione; ci si arruolava per puro patriottismo. Tanto – si pensava- la guerra finirà a Natale.
Tutti quegli uomini dovevano essere addestrati, armati, equipaggiati. E questo richiese tempo, molto tempo. L’Inghilterra non era preparata a gestire un esercito di quelle dimensioni. L’addestramento durava mediamente otto mesi, ma in alcuni casi ne furono necessari molti di più. Ma durante l’addestramento a nessun volontario fu detto come comportarsi nell’eventualità del fallimento di un attacco. Il sergente Jimmy Myers ha lasciato scritto: “Quando ciò avvenne ..[cioè quando l’attacco nella zona della Somme fallì] … nessuno di noi sapeva che cosa fare”. I Pals Battalions non avevano, in genere,  ufficiali tratti dalle proprie file. I volontari furono posti quasi sempre agli ordini di ufficiali di professione o di complemento provenienti, in genere, dalle classi medio-alte. Alcuni di essi nutrivano scarsa fiducia in quei soldati per dir così “ improvvisati”; altri , al contrario, solidarizzarono con loro e , dopo la guerra, si batterono perché fossero migliorate le condizioni di vita delle classi lavoratrici.
I Pals  Battallions ebbero in pratica il battesimo del fuoco sulla Somme. Quel 1° luglio, soldati in gran parte inesperti si affollarono in prossimità dei parapetti delle trincee aspettando il segnale di attacco. Pensarono a casa, alle mogli , ai figli, alle madri. Quando scoccò l’ora zero( le 7,30), uscirono dai parapetti e si diressero verso le linee nemiche. Avevano addosso una trentina di chili di peso, due maschere antigas, le armi, le munizioni, le razioni, l’acqua, due rotoli di filo spinato, sacchetti vuoti da riempire di sabbia o di terra. Non si aspettavano di incontrare una seria  resistenza e avrebbero dovuto usare il filo spinato e i sacchetti di sabbia per rinforzare immediatamente le trincee occupate in previsione di una possibile reazione tedesca. Avanzarono col fucile ad armacollo, in file lievemente distanziate, a passo normale.
Fu un inverecondo, incredibile, spaventoso macello. I mitraglieri tedeschi usciti dagli Stollen li falciarono a migliaia, nei primi metri della terra di nessuno, sui reticolati rimasti intatti, mentre il fuoco di sbarramento tedesco colpiva le trincee aggiungendo massacro a massacro. Nella zona di Gommecourt i timori del generale Allenby si fecero drammatica realtà. Nei pressi di Serre, i tedeschi si infiltrarono nel buco colpevolmente lasciato sguarnito fra le sue divisioni e quelle di Rawlinson  falciando senza pietà gli attaccanti. L’Accrington Pals, aggregato all’ East Lancashire Regiment,  perse più di cinquecento uomini ( su circa 700) nello spazio di venti minuti. E non fu affatto un’eccezione. Il Newfoundland Regiment andò all’assalto con ottocento uomini: solo sessantotto rimasero integri. Chi riuscì a raggiungere gli obiettivi- la 36.ma Ulster Division, il 10.mo Battaglione West Yorkshire, il Primo Reggimento Essex– fu rapidamente circondato e spazzato via.
Perché quel terrificante massacro? Che cosa era accaduto? Perché quei soldati “ innocenti” furono mandati a morire a passo di parata? Le cause di quello scempio vanno ricercate, prima di tutto, nell’impiego dell’artiglieria. Il fuoco di preparazione iniziale- quello protrattosi per sette giorni- ottenne risultati ampiamente inferiori alle attese. Furono impiegati pochi cannoni pesanti e sparate invece molte bombe caricate a shrapnel, del tutto inefficaci a spianare le trincee e a distruggere i reticolati. Inoltre molti proiettili- almeno un terzo del totale- erano difettosi e non esplosero. Messi sull’avviso da quel potente bombardamento, i tedeschi si rintanarono prontamente nei loro rifugi sotterranei e subirono danni relativamente lievi. All’interno degli Stollen il pericolo non era tanto quello di saltare in aria, quanto quello di essere sepolti vivi. Le potenti mine fatte brillare sotto le difese tedesche si rivelarono un’arma a doppio taglio: aprirono enormi crateri, subito  occupati dai Landser al momento dell’attacco e trasformati  in micidiali punti di fuoco. Dunque: le trincee tedesche furono danneggiate solo superficialmente, i reticolati rimasero in gran parte intatti, i difensori subirono perdite contenute e l’effetto sorpresa venne del tutto a mancare. Ma gli Alleati erano convinti del contrario. Credevano di aver creato un deserto e di  aver lasciato in vita “ neppure un ratto”. Persino quando l’osservazione aerea e i rapporti di pattuglie di esploratori segnalarono in alcuni punti solo danni superficiali alle difese nemiche e ai reticolati non fu dato peso alla cosa.
Così i soldati furono fatti avanzare in linea e al passo, da un lato perché davvero si era convinti di non trovare resistenza e, dall’altro, perché gli ufficiali superiori volevano impedire agli uomini dei Pals Battallions, ritenuti impreparati e – perché no?- anche  poco coraggiosi, di sbandarsi o di sottrarsi al combattimento. Fra gli storici c’è chi giustifica questa decisione( Gordon Corrigan, ad esempio); altri – la stragrande maggioranza- invece vanno giù di brutto. Dal canto suo, l’Alto Comando tedesco espresse un giudizio destinato, a torto o a ragione, a diventare famoso: parlò, come è noto, di “ leoni guidati da asini”. Di sicuro i mitraglieri tedeschi rimasero esterrefatti e quasi disgustati. A un certo punto- stando ad alcune testimonianze- smisero di sparare e urlarono agli inglesi di fermarsi.

Secondo il piano, l’attacco delle fanterie avrebbe dovuto essere sostenuto da un fuoco di sbarramento mobile(creeping barrage): i soldati sarebbero avanzati mentre i proiettili della propria artiglieria, cadendo davanti a loro, li avrebbero “ accompagnati” sulle prime posizioni nemiche e oltre. Lo sbarramento mobile non si prefiggeva di distruggere il nemico, ma di neutralizzarlo momentaneamente, costringendolo all’inazione.
In linea teorica, uno sbarramento mobile funziona, più o meno, in questo modo. Quando le prime bombe dello sbarramento cadono davanti alle posizioni nemiche, gli attaccanti lasciano le proprie trincee e si inoltrano nella “terra di nessuno”.  Mentre avanzano, il tiro delle artiglierie si sposta in avanti a intervalli regolari( nel nostro caso, cinquanta metri circa ogni minuto), allo scopo di tenere bloccati i difensori all’interno dei propri rifugi . Una volta raggiunte le trincee della prima linea difensiva, il fuoco di sbarramento si sposta, sempre a intervalli regolari, verso la seconda. E a questo punto entrano in scena gli attaccanti: arrivati a ridosso della prima linea difensiva protetti dal fuoco dei propri cannoni, irrompono nelle trincee, le conquistano e, sempre “ accompagnati” dallo sbarramento, si dirigono verso la seconda linea.
Quello che può accadere in pratica è facilmente immaginabile: se le fanterie si muovono troppo velocemente rispetto al fuoco di sbarramento o se quest’ultimo è troppo lento rispetto agli intervalli fissati, le bombe cadranno non davanti al nemico o sulle sue posizioni, ma sugli attaccanti; se, invece, le fanterie avanzano troppo lentamente, se vengono fermate temporaneamente  da ostacoli imprevisti o dalla resistenza del nemico oppure se lo sbarramento procede troppo velocemente rispetto alla loro avanzata, non godranno di alcun vantaggio. Se le truppe non raggiungono le posizioni nemiche subito dopo il “passaggio” dello sbarramento  e nei tempi stabiliti, i difensori hanno tutto il tempo di uscire dai propri ripari, di prendere posizione nelle trincee e di reagire. E se c’è reazione, si corre il rischio di venire bloccati, di “ perdere” lo sbarramento e, se si ha la fortuna di sfondare, di avanzare verso la seconda linea  completamente allo scoperto e senza protezione alcuna.
Come è facilmente intuibile, in un’operazione del genere i tempi hanno una grande importanza: se non vengono rispettati o adeguati alla situazione sul campo, salta tutto. E rispettare o adguare i tempi quando mancano radio da campo, quando i cavi telefonici interrati possono essere tranciati facilmente da una bomba, quando i segnali ottici possono essere resi inutili dal fumo, dalla polvere o dalla nebbia, è come vincere la lotteria.
Il fuoco di sbarramento non è soltanto offensivo: può avere anche una funzione difensiva. In  questo caso esso non è mobile, cioè non avanza con l’avanzare delle truppe, ma cade in continuazione su una zona precisa – quasi sempre la cosiddetta “ terra di nessuno”, cioè nella zona di interposizione fra le opposte trincee- al fine di impedire al nemico di muovere  in sicurezza i propri soldati e ai rifornimenti di raggiungere la prima linea.
Durante la battaglia della Somme, lo sbarramento mobile allestito dai britannici funzionò malissimo o non funzionò affatto: in alcuni settori cadde sulle fanterie in avanzata, in altri si spostò troppo presto in avanti, insomma non si adeguò quasi mai al passo delle fanterie. Né queste ultime riuscirono a percorrere in sintonia con lo sbarramento le distanze loro assegnate a causa degli ostacoli rappresentati dai reticolati quasi intatti e dal fuoco nemico. Quando erano costrette a fermarsi, ad esempio, lo sbarramento non le attendeva, ma proseguiva in base alle tabelle predefinite.
Anche le comunicazioni non funzionarono. I cavi telefonici furono tutti tranciati dall’artiglieria tedesca e si dovette procedere tramite portaordini o piccioni viaggiatori.  I francesi, come abbiamo visto, se la cavarono meglio. Effettuarono un bombardamento più breve(  e più efficace), diedero vita a uno sbarramento più preciso e ottennero risultati migliori. Lo sbarramento difensivo tedesco, invece, fu letale: martellò implacabilmente la terra di nessuno, tenne sotto tiro i varchi aperti nei reticolati inglesi attraverso i quali passavano le truppe, colpì le trincee aprendo vuoti spaventosi fra gli attaccanti.

Durante la battaglia, gli errori non si contarono. Il volere a tutti i costi e contro ogni evidenza perseguire il“ Big Push” fu forse l’errore strategico  peggiore. E che dire poi, sul piano tattico, dell’impiego poco funzionale dei primi carri armati? Del fuoco di artiglieria disperso lungo l’intero fronte e non concentrato sui settori più deboli delle difese tedesche? Dell’insistenza su attacchi frontali anziché su azioni di infiltrazione e di aggiramento? Della scarsa considerazione in cui furono tenute le osservazioni della ricognizione aerea e i rapporti delle pattuglie? Dell’effetto-sorpresa sprecato a causa di un bombardamento iniziale troppo prolungato? Di soldati inesperti  mandati all’attacco a giorno iniziato e in piena luce? È vero: sotto certi aspetti, la battaglia della Somme fornì  agli Alleati utili insegnamenti circa la conduzione della guerra, sia in relazione alla fase offensiva ( la tattica dell’infiltrazione, il creeping barrage), sia in relazione alla fase difensiva ( difesa elastica e scaglionata in profondità). Ma tali risultati- e anche se fossero stati di maggior portata-  possono giustificare il massacro di centinaia di migliaia di uomini?
Per alcuni storici di scuola anglosassone( John Terraine, Paddy Griffith, Gary Sheffield),  quella battaglia non fu inutile. E ne elencano le ragioni: dopo la Somme, la Gran Bretagna acquistò una posizione dominante all’interno dello schieramento alleato; nel tentativo di affamarla, i tedeschi furono costretti a inasprire la guerra sottomarina  provocando l’intervento armato degli Stati Uniti; l’esercito tedesco perse in grande misura soldati esperti difficili da rimpiazzare finendo con l’indebolirsi senza rimedio.
E i protagonisti? Quale fu il loro giudizio? Il generale francese Foch, a botta calda,  considerò  la battaglia della Somme una vittoria a tutti gli effetti, sia per  le perdite inflitte al nemico, sia per il territorio guadagnato; Haig parlò di obiettivi raggiunti. Scrisse: “ Abbiamo alleviato la pressione su Verdun; ingenti forze tedesche sono state bloccate sul fronte occidentale; la forza del nemico è stata considerevolmente intaccata. Anche il conseguimento di uno solo di questi obiettivi è di per sé un risultato sufficiente per giustificare la battaglia della Somme.”  E ci fu chi vide in quell’evento non una vittoria in sé e per sé, ma un prerequisito della vittoria finale.
Dopo la guerra, il primo ministro britannico David Lloyd George liquidò l’offensiva della Somme con queste parole: “ Più di quattrocentomila nostri soldati perirono in quella battaglia e ci fu una terribile strage di giovani ufficiali. Se non fosse stato per l’incomprensibile stupidità dei tedeschi nel provocare gli americani e nello spingerli in guerra contro di loro proprio mentre stavano per  sbarazzarsi di un altro potente nemico- la Russia-  la battaglia della Somme non ci avrebbe salvato da uno stallo infinito.”
Un dato è comunque certo. Le migliaia di “ innocenti” caduti sulla Somme spopolarono interi quartieri di Londra, di Manchester e di tante altre città inglesi. In quei quartieri la forza lavoro maschile quasi scomparve, ogni famiglia pianse uno o più caduti, il dolore si sostituì al patriottismo come  sentimento dominante. Durante la proiezione di un film di propaganda sulla battaglia, molte donne uscirono terrorizzate dalle sale cinematografiche, certe di aver riconosciuto nel soldato ferito a morte comparso sullo schermo un amico, il fratello, il marito.

Epilogo.

È l’alba. I sergenti urlano gli ordini. Comincia la solita routine. In assetto di combattimento, le baionette inastate aspettiamo invano per più di un’ora l’attacco nemico. Poi cominciano i servizi, subiamo la prima ispezione. Dappertutto topi enormi, rospi, blatte. E pidocchi. A migliaia. Di tanto in tanto una bomba cade sulla trincea, sfondando i parapetti, straziando gli esseri umani. La vita e la morte sono ridotte a una pura questione di fortuna: un cecchino distratto o assonnato, una granata caduta a pochi passi dalla mia posizione mentre casualmente me ne ero momentaneamente allontanato.  O viceversa.
Facciamo colazione. Per un tacito accordo, non si spara. Né da una parte né dall’altra. Poi scriviamo a casa, leggiamo o rileggiamo la posta, controlliamo le armi.  Un mio compagno ha la febbre alta. Non si sa quale sia la causa. Io stesso tremo e non so se sia per il freddo, per la febbre o per la paura. Qualcuno, più sfortunato( o fortunato?) di me, ha contratto il “piede di trincea”. Un fungo provoca piaghe sulla pelle. Succede quando si tiene il piede nell’acqua per troppo tempo. E quando piove, nella trincea, di acqua se ne ferma parecchia. Quelle piaghe si infettano e quasi sempre incancreniscono. Spesso bisogna amputare.
Scende il crepuscolo. Un’altra ora di allerta in attesa di un nemico che anche questa sera non verrà. Poi il rancio a base di carne di manzo, galletta e marmellata. È calata l’oscurità. Escono le pattuglie di esploratori. Vanno alla ricerca di informazioni e di prigionieri. Torneranno? Con l’oscurità, cresce anche l’animazione. Ripariamo i parapetti, ripristiniamo le scorte di acqua e di cibo. Stasera non c’è avvicendamento di truppe. Meglio così. Il nemico, messo sul chi vive dal trambusto causato da così tanti uomini in movimento, spesso apre il fuoco. Dormire è quasi impossibile, anche quando le armi tacciono. Il puzzo è insopportabile. Puzzo di cadaveri in decomposizione, puzzo di disinfettante, puzzo di escrementi. Col buio i topi abbandonano i loro rifugi e prendono possesso della trincea.
È di nuovo l’alba. I sergenti urlano gli ordini. Alta nel cielo, in questo primo giorno di luglio, un’allodola canta.
Dio salvi tutti noi.
……………………………………………………………………………………………..

A lark was singing sweetly as
The evening fell upon the Somme.

(Un’allodola cantava dolcemente
Quando la sera scese sulla Somme)

[1] Il 2 luglio, Haig scrive: ““Sono molto soddisfatto per i risultati ottenuti grazie ai valorosi sforzi della Quarta Armata ieri e oggi. Il nemico ha subito gravi perdite …( corsivo mio)…ed è profondamente scosso.  Non abbiamo ancora completamente spezzato la sua resistenza lungo il nostro fronte d’attacco e ci sarà  ancora da combattere duramente prima di riuscirci, ma la gran parte del cammino per sconfiggerlo è stata percorsa e un significativo successo è alla nostra portata. Il nemico ha poche riserve disponibili, mentre a noi non mancano; la sua capacità di resistere con successo ai nostri ripetuti e decisi attacchi è limitata. In questo frangente,  ogni uomo deve dare il meglio di se stesso e il nemico non deve avere requie.
Inviato al generale Sir Henry Rawlinson e, per conoscenza, alla Prima, alla Seconda, alla Terza Armata e al Secondo Corpo d’Armata.
Generale Sir Douglas Haig.”
(Il testo originale è riportato in “The National Archives Learning Circle”, consultabile qui: The Great War)

Da leggere:

Correlli Douglas Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi, 1965
Pier Paolo Cervone, La grande guerra sul fronte occidentale: Marna, Verdun, Somme, Chemin des  Dames, Mursia, 2010
Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Bur, 2003
Robert Graves, Addio a tutto questo, Piemme, 2005
Alessandro Gualtieri, La battaglia della Somme: l’artiglieria conquista, la fanteria occupa, Fidenza, Mattioli 1885, 2010
John Keegan, La prima guerra mondiale: una storia politico-militare, Carocci, 2000
John Keegan, Il volto della battaglia, Il Saggiatore, 2001
Erich Maria Remarque, All’ovest  niente di nuovo, Mondadori, 1990
AJP Taylor, Storia della prima guerra mondiale, Vallecchi, 1967

Da vedere:

The Trench- La Trincea, di William Boyd, 2000

bandiera inglese  Traduzione automatica in inglese( Automatic English translation): The Army of the Innocents

Una mappa animata della battaglia è consultabile qui

1914, la tregua di Natale: uno spot pubblicitario, un piccolo capolavoro.

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La Somme: i luoghi della Battaglia. Fonte: Martin Gilbert, La grande storia della Prima Guerra Mondiale, Bur, 2003. Clicca sulla cartina per ingrandirla.

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Il punto decisivo

11/04/2013

Otto dix . Il trittico della Guerra

Prologo.

Parigi, Hotel Terminus, 24 febbraio 1916, tre del mattino. Un ufficiale francese in uniforme irrompe nell’atrio dell’hotel chiamando ad alta voce il portiere di notte. Udendo tutto quello strepito, l’anziana proprietaria dell’albergo si butta addosso una vestaglia e scende a incontrare il nuovo venuto. L’ufficiale si presenta: è il tenente colonnello Bernard Serrigny e vuole parlare con il suo superiore. La donna si schermisce: chi cercate non  si trova qui, non so di chi stiate parlando. Ma Serrigny non la lascia proseguire: “ E’  in gioco la sopravvivenza della Francia”, la interrompe con tono deciso. La donna cede. Sale al primo piano e indica al colonnello la porta di una stanza. Serrigny bussa con insistenza, la porta si apre e nel vano compare un uomo alto, dalla figura imponente e dai folti baffi biondi. Alle sue spalle, una giovane donna seminuda cerca di coprirsi come può con una coperta.
Serrigny si pone sull’attenti, saluta, si scusa e poi porge gli ordini scritti del generale Joffre, comandante in capo delle Forze Armate francesi. L’uomo li legge, poi, senza scomporsi, chiede alla proprietaria dell’hotel di trovare una sistemazione per Serrigny. “ Si riposi un po’ ”, gli dice “Joffre ci vuole da lui alle otto. Partiremo fra qualche ora.” Poi chiude la porta e ritorna dalla sua amante per trascorrere con lei il resto di quella notte che in seguito definirà “ memorabile”.
Quell’uomo è il generale  Henri-Philippe Benoni Omer Joseph Pétain, comandante della Seconda armata francese.

“Dissanguiamoli  a morte.”

Alla fine del 1914, sul fronte occidentale la guerra di movimento si  è trasformata in guerra di trincea; nel 1915 i tentativi franco- britannici effettuati a Neuve Chapelle, ad Arras e nella Champagne per sbloccare la situazione falliscono in un bagno di sangue. L’anno che comincia, il 1916, è però visto da entrambe le parti in lotta  come l’anno della svolta, della vittoria decisiva: ne sono convinti i tedeschi perché contano di spostare truppe dal fronte orientale a quello occidentale colmando in questo modo la propria inferiorità numerica in quest’ultimo settore; ne sono convinti gli Alleati perché finalmente possono disporre in misura ragguardevole di soldati, di munizioni e di artiglieria. Gli uni e gli altri hanno già deciso persino dove coglieranno la tanto sospirata vittoria: a Verdun i tedeschi, sulla Somme gli Alleati.

Il piano tedesco è ideato dal generale Erich von Falkenhayn, chiamato a sostituire von Moltke il  Giovane ai vertici dello Stato Maggiore Imperiale dopo il fallimento del Piano Schlieffen. Junker tutto d’un pezzo, ministro della Guerra oltre che capo di Stato Maggiore, ufficiale riservato e prudente, stimato dal Kaiser, Falkenhayn “ ..[è] toccato dalle liste delle perdite umane ancor meno di quanto lo ..[siano].. Haig o Joffre.”(Horne).
La sua idea- illustrata in un memorandum a Guglielmo II- è sostanzialmente questa: sconfiggere la Francia per isolare l’Inghilterra. Senza il suo più importante alleato,  prostrata dalla guerra sottomarina, l’Inghilterra non potrebbe resistere a lungo e prima o poi sarebbe costretta ad abbandonare il conflitto.  Come fare? Semplice: attaccare la Francia – secondo Falkenhayn già quasi al limite del collasso- in un settore di alto valore simbolico e strategico, in un settore tanto importante- per la Nazione, per l’opinione pubblica, per l’esercito- da costringere Joffre a impiegare lì tutte le forze a sua disposizione per difenderlo. E lì, in quel punto decisivo, l’esercito francese sarebbe stato ferito a morte dall’artiglieria tedesca, dissanguato ( ausgeblutet, in tedesco) in una battaglia di attrito e alla fine sconfitto. Il “conto del macellaio” avrebbe decretato, in sostanza, il tracollo della Francia e del fronte occidentale. [1]
Definito il piano, si tratta ora di trovare il luogo. Per Falkenhyan, la piazzaforte di Verdun si presta perfettamente alla realizzazione di quanto ha in mente. Attraversata dal fiume Mosa( Meuse in francese, Maas in tedesco), bastione di Parigi a oriente, protagonista di un’accanita ed eroica resistenza durante la guerra franco-prussiana del 1870-71, Verdun si trova all’interno di un saliente circondato  su tre lati dall’artiglieria tedesca . E’ quindi il posto ideale per ottenere una grande vittoria con il minimo sforzo e con perdite accettabili.

Esecuzione capitale.

L’attacco a Verdun- nome in codice Gericht ( Giudizio, Esecuzione capitale – e già questo la dice lunga circa le intenzioni dell’Alto Comando tedesco) viene fissato per il 12 febbraio 1916 e affidato alla Quinta Armata, comandata dal principe ereditario Friedrich  Wilhelm, ma di fatto guidata dal suo capo di stato maggiore, generale Konstantin Schmidt  von Knobelsdorff .
Strano comandante il Kronprinz.  Alto, magro, le spalle cadenti, il volto affilato, caporale a sette anni d’età, generale a trenta si rivolge al padre per il tramite di un funzionario di corte. Non ha esperienza di guerra né di comando, ama la vita mondana, viaggia con due levrieri al seguito ed è una specie di macchietta per i giornali satirici di mezzo mondo. Ma non è uno sciocco. Gli manca forse il carattere per comandare- carattere di cui altri generali di sangue blu, il principe Alberto di Wuerttemberg e il principe Rupprecht di Baviera, ad esempio,  sono ampiamente dotati-  ma è intuitivo e possiede una specie di sesto senso. E’ stato il primo a cogliere in tempi non sospetti le imperfezioni del piano Schlieffen; sarà il primo, a un certo punto, a invocare l’annullamento di Gericht.
Ma, per ora, nessuno pensa a annullare l’operazione. Anzi, si definiscono i dettagli, si esaminano i pro e i contro. Due questioni in particolare vengono discusse in fase di preparazione e le decisioni adottate peseranno non poco sull’esito della battaglia. Il Kronprinz e Knobelsdorff vogliono lanciare l’attacco delle fanterie contemporaneamente su entrambe le rive della Mosa; Falkenhayn si oppone affermando di non avere abbastanza truppe per farlo e così l’attacco iniziale viene concentrato sulla riva destra del fiume.
La seconda decisione è frutto di un malinteso. Gli ufficiali della Quinta armata sono convinti di avere la conquista di Verdun come obiettivo; Falkenhayn glielo lascia credere – perché i soldati combattono meglio se sanno di dover attaccare e non  di doversi difendere, scriverà nelle proprie memorie-  ma la pensa diversamente. Non la conquista della piazzaforte, ma il “dissanguamento goccia a goccia” del nemico deve essere l’obiettivo principale di  Gericht. E così tiene per sé il comando delle riserve, dislocate, fa l’altro, molto lontano dal fronte. Quando a campagna in corso, in un momento cruciale della battaglia, il principe ereditario gliele chiederà, se le vedrà rifiutare.
Dunque, stando alle intenzioni di Falkenhayn, l’artiglieria avrebbe dovuto fare il grosso del lavoro, spianando la strada alle fanterie, radendo al suolo le difese francesi, tenendo sotto tiro  le vie di rifornimento e martellando le trincee e i concentramenti di truppe. Per realizzare il piano, milleduecento cannoni e le relative munizioni vengono portati in postazione in gran segreto; interi villaggi vengono evacuati per far posto a cinque Corpi d’armata per un totale di 150.000 uomini; non molto distante dal fronte, vengono scavati ricoveri sotterranei- in tedesco Stollen-invisibili alla  ricognizione aerea  e  destinati ad accogliere le neonate truppe d’assalto( le Stosstruppen) armate anche di lanciafiamme.

Il doppio anello

Verdun si trova in una zona boscosa e accidentata. Nel corso dei secoli, la Mosa ha scavato burroni e forre. Gli uomini hanno fatto il resto cingendo la zona con un duplice anello di  una sessantina di fortezze, baluardo contro qualsiasi invasione tedesca da est. Nel 1914, il generale Sarrail, contravvenendo agli ordini di Joffre, non aveva abbandonato la piazzaforte, contribuendo a rendere  possibile il ” miracolo” della Marna. L’anello esterno poggia sul formidabile – in teoria- Fort Douaumont e sull’altrettanto formidabile – sempre in teoria- Fort Vaux. Nell’anello interno si trovano altri forti – Fort Souville, Fort Tavannes, Fort Thiaumont, ad esempio- più piccoli ma non meno importanti strategicamente. I forti hanno torri e torrette di cemento armato e acciaio e sono collegati da un sistema di camminamenti e di trincee.
O, meglio, lo erano. Allo scoppio della guerra, infatti,  l’Alto Comando francese (GQG, Grand Quartier Général), ossessionato dal dogma dell’offensiva a oltranza, ne ha prelevato i cannoni per sostenere le operazioni nella Champagne e altrove; ha trascurato le trincee- ora ridotte a poco più di un fossato sulla prima linea di difesa, quasi assenti sulla seconda e sulla terza linea; non ha fatto effettuare lavori di manutenzione e di ripristino.  Insomma, li ha lasciati andare in malora apparentemente senza una ragione.
Ma, al di là del dogma dell’offensiva a oltranza, una ragione c’era. Visti gli effetti provocati nel ‘14 su Liegi e Anversa dai mostruosi cannoni tedeschi  da 420 millimetri, Joffre e il suo Stato Maggiore erano giunti alla seguente conclusione: le fortificazioni servono a poco o a niente se il nemico mette in campo cannoni d’assedio del calibro della Grande Berta. E così avevano cominciato a trasferire altrove i cannoni di Verdun, all’insaputa del governo. E avevano continuato a farlo fino a quando il ministro della Guerra, il generale Joseph Simon Gallieni, ne era venuto casualmente a conoscenza e aveva bloccato tutto.
Alla vigilia dell’attacco tedesco, dunque, il doppio anello attorno a Verdun risulta indebolito, quasi sguarnito, scarsamente difeso. I francesi possono contare su 270 pezzi d’artiglieria, per lo più da 155 mm, mentre i tedeschi ne hanno più di milleduecento. E che dire delle fanterie? Trentaquattro battaglioni francesi contro settantadue tedeschi la dicono lunga circa il rapporto iniziale delle forze in campo. [2]
Il generale Frèdèric-Georges Herr, comandante la piazzaforte, aveva a più riprese chiesto rinforzi. E manodopera per allestire una linea di difesa sulla riva sinistra della Mosa. E aveva avvisato: “ Attenzione: i tedeschi stanno ammassando truppe e artiglieria nella zona, stanno preparando qualcosa di grosso.” Dal canto suo, il colonnello Emile Driant, destinato a diventare uno degli eroi di Verdun, aveva segnalato al Ministero della Guerra le difese approssimative della piazzaforte, le trincee in abbandono, la mancanza di reticolati. Di fronte a quelle osservazioni avanzate senza seguire l’ordine gerarchico, Joffre era montato su tutte le furie e aveva ribadito: “Verdun non è un possibile obiettivo del nemico.” E in un primo momento aveva lasciato cadere la cosa. Poi , annusando aria di burrasca, ci aveva ripensato spedendo a Verdun il suo Capo di Stato Maggiore, il generale Noel de Castelnau, perché desse un’occhiata. De Castelnau era rimasto di sasso o quasi nel constatare quanto fosse vulnerabile quella posizione un tempo fortificata, aveva ordinato di allestire una linea di difesa intermedia fra la prima e la seconda e aveva fatto affluire a Verdun due divisioni di fanteria. Poca roba, ma sempre meglio di niente. Arriveranno il 12 febbraio, giorno fissato dai tedeschi per l’attacco.

Il giorno del giudizio.

Il 12 febbraio nella zona di Verdun prima nevica, poi piove che dio la manda; soffia un vento assassino, la visibilità è scarsa, l’artiglieria è cieca. I fanti tedeschi sono pronti a scattare. Ma con quel tempo proprio non si può. L’Alto Comando tedesco ferma tutto all’ultimo momento e per i soldati del Kaiser imbucati negli  Stollen si fa grigia: non è possibile riscaldare i ripari, la pioggia si infiltra dappertutto, i rifornimenti arrivano col contagocce, all’interno lo spazio è minimo. La sera numerose unità devono recarsi a dormire nei propri alloggiamenti e tornare al fronte il mattino seguente. Qualcuno, dotato di senso dell’umorismo, commenta: “In caso di maltempo, la battaglia sarà combattuta al coperto”. I Landser restano a bagnomaria negli Stollen una decina di giorni: in quelle condizioni, un’eternità. Loro non possono immaginarlo, ma sono proprio quei dieci giorni di ritardo a mandare all’aria i piani iniziali tedeschi: le due divisioni di rinforzo arrivate il 12 possono prendere posizione e rafforzare le difese.
Quando finalmente il tempo mette giudizio, comincia un bombardamento impressionante. Dalle 7,15 del 21 febbraio, i cannoni tedeschi arano letteralmente un fronte di una quarantina di chilometri su entrambe le rive della Mosa. Per più di nove ore sparano quaranta granate al minuto, polverizzano le trincee, fanno a pezzi i difensori, sradicano gli alberi. Sembra la fine del mondo: esplosioni continue, grida di terrore e di dolore, lamenti di feriti, nitriti di cavalli moribondi, fuoco , fiamme, resti umani sparsi ovunque, uomini sepolti vivi all’interno dei loro rifugi.
Alle quattro del pomeriggio, le truppe d’assalto escono in piccoli gruppi dagli Stollen e si buttano in avanti in direzione di Bois d’Haumont, Bois de Caures, Bois de l’Herbebois decise a chiudere in fretta la partita. A sera, invece, avranno occupato solo Bois d’Haumont. Il colonnello Driant le blocca intorno a Bois de Caures e a nulla valgono gli attacchi portati con le mitragliatrici e i lanciafiamme. La macchina da guerra tedesca, complice l’accanita – e inattesa- resistenza francese, sembra essersi inceppata. Ma da Chantilly dove ha sede l’Alto Comando francese, tutto tace. Manovra locale e circoscritta, niente di importante è il lungimirante giudizio degli alti papaveri. Niente di importante?
Il 22 febbraio e nei giorni seguenti, solito copione: bombardamenti terrificanti, infiltrazione di truppe scelte, attacchi veementi. Cade Bois de Caures dove muore combattendo  il valoroso colonnello Driant; resiste solo Bois de l’Herbebois. Nelle posizioni dietro la prima linea, regnano panico e confusione. Di rinforzi nemmeno l’ombra. Gli alti comandi, infatti, persistono nel sottovalutare la portata e il valore strategico dell’attacco tedesco. Dal fronte  del resto arrivano rapporti esageratamente ottimistici: la nostra artiglieria sulla riva sinistra della Mosa li sta tenendo a bada; l’offensiva nemica sta perdendo vigore; possiamo contrattaccare. Ma quando la prima linea viene sfondata in più punti e i poilus[3] sono costretti a ripiegare su una seconda e poi su una terza linea entrambe operative solo sulla carta, a Chantilly si svegliano e De Castelnau si precipita di nuovo a Verdun. Non prima di aver consigliato a  Joffre di spedire al fronte la Seconda armata al comando del generale Philippe Pétain.

Henri Rousseau "Il doganiere"( 1844-1910). Allegoria della guerra( 1894 circa). Parigi, Musée d'Orsay.

Henri Rousseau “Il doganiere”( 1844-1910). Allegoria della guerra( 1894 circa). Parigi, Musée d’Orsay.

“Non passeranno!”

Il sessantenne Pétain, scapolo impenitente, gaudente frequentatore delle notti “memorabili” di Parigi, come soldato nasce offensivista: tutti all’attacco, il cuore oltre l’ostacolo ecc. ecc. In quei tempi è quello il sentire comune.  I militari francesi  sono ossessionati dalla mistica dell’offensiva, parlano di “idee armate di spada”, sognano la rivincita sugli odiati Boches, si vedono già ben oltre il Reno, si sentono invincibili. Pétain non fa, non può fare eccezione.
E tuttavia, secondo lui, se offensiva deve essere, meglio sostituire alla baionetta il fuoco coordinato di fanteria e di artiglieria. Il suo motto è: i cannoni conquistano le posizioni, la fanteria occupa e tiene le posizioni conquistate. Gli attacchi a ondate? Scriteriati, costosi, inutili. Perché non si  deve rafforzare una sconfitta. Mai. In altre parole, non si mandano altri soldati a farsi massacrare dove si sta già perdendo una battaglia. ” Non bisogna combattere con gli uomini contro il materiale;  è con il materiale impiegato dagli uomini che si fa la guerra” è la sua filosofia. E infine: non c’è attacco  a oltranza che non possa essere fermato da una difesa bene impostata.
Quasi nessuno gli dà retta. Le sue teorie sembrano contraddire lo spirito dell’élan, dello slancio vitale, tanto caro agli ambienti militari del tempo e all’opinione pubblica francese. In più Pétain è un caratteraccio: dice sempre quello che pensa senza tanti giri di parole; è brusco nei modi; non scende a compromessi. C’è da stupirsi, allora, se nel 1914 a un anno dalla pensione è ancora tenente colonnello?
Ma con lo scoppio della guerra le cose cambiano e nel giro di pochissimo tempo, Pétain da eretico sale al rango di profeta. Sono i campi di battaglia a santificarlo. Lì, al fronte, i cannoni e le mitragliatrici, non le baionette, si impongono come armi decisive; lì, al fronte, la potenza di fuoco si rivela l’unico elemento in grado di decidere gli scontri. Il crepitio delle mitragliatrici e il rombo dei cannoni riportano d’attualità anche le sue teorie : Pétain smette così di insegnare ora in questa ora in quella scuola militare per trasferirsi sui campi di battaglia prima come generale di brigata, poi come comandante di un’armata, la Seconda.  Mettendo in pratica i propri convincimenti , coglie importanti vittorie tattiche e si segnala come uno dei migliori comandanti sul campo.
Quando arriva a Verdun, la situazione è disperata. Uno dei cardini del sistema difensivo francese- Fort Douaumont- è caduto  in mano nemica. Un geniere tedesco- il sergente Kunze- infilatosi nel forte attraverso un cunicolo aveva sorpreso alcuni uomini della guarnigione, li aveva costretti alla resa  e poi aveva aspettato il tenente Radke – entrato nel frattempo nel forte- mangiando uova sode e bevendo vino. Poi anche altri tedeschi, sfruttando l’azione di Kunze e di Ratke, erano entrati a Douaumont. Il sergente maggiore Chenot  comandante della guarnigione ( sessantotto uomini in tutto) si era arreso al capitano Hans Joachim Haupt; gli altri erano stati fatti prigionieri dal tenente Cordt von Brandis. Non era stato sparato un solo colpo. La Germania intera era andata in visibilio.  Haupt e von Brandis, non Kunze e Radke come sarebbe stato giusto,  erano stati decorati dal Kaiser in persona  con la più alta onorificenza tedesca, la medaglia Pour le Mérit.

La perdita del forte è un brutto colpo per i francesi. E non è tutto. Oltre a Fort Douaumont, i tedeschi tengono gran parte delle alture sovrastanti la riva orientale della Mosa e sembrano inarrestabili. I soldati francesi , invece, hanno il morale sotto i tacchi; un avvilito e sfiduciato Herr pensa addirittura di abbandonare la riva destra del fiume e di ritirarsi sulla riva sinistra. È una decisione tatticamente sensata, ma è anche una decisione inaccettabile per chi è cresciuto nel culto dell’offensiva a oltranza; è un vero e proprio abominio tattico per chi vede nell’abbandono di quelle posizioni l’inizio della fine. Per Verdun e per la Francia.
De Castelneau, allora, agisce con la velocità del fulmine: verga in fretta l’ordine di tenere a qualsiasi costo la riva destra della Mosa- ordine che in seguito il generale Nivelle sintetizzerà in un’affermazione destinata a diventare famosa e a fare di Verdun un simbolo (Ils ne passeront pas, Non passeranno) – e sostituisce  Herr con Pétain. Che da comandante della Seconda armata si ritrova nel giro di poche ore comandante dell’intero settore.
Ha un solo compito e un solo obiettivo: guadagnare tempo, fermando o perlomeno rallentando l’avanzata tedesca sulla riva orientale della Mosa. E per farlo, lui, l’ex offensivista Pètain, deve impostare una battaglia difensiva. Dove si attacca, certo, ma per fermare il nemico e solo dopo che l’artiglieria ha reso possibili le condizioni per un contrattacco. Non è ancora buttare alle ortiche i dogmi dell’offensiva a oltranza, ma quasi.
Pétain allestisce il proprio quartier generale a Souilly, appende a una parete del proprio ufficio una  mappa dettagliata del settore e, ogni volta che la guarda, rabbrividisce. E non solo per il freddo patito durante il viaggio. Lo aspetta un compito quasi sovrumano. Benché praticamente non dorma dalla “notte memorabile” trascorsa all’Hotel Terminus, si mette subito al lavoro. Definisce la strategia, cura personalmente i dettagli, allestisce sulla riva destra della Mosa una linea di difesa imperniata sui forti e, soprattutto, riunisce quasi cinquecento pezzi d’artiglieria, li posiziona sulle alture della riva sinistra della Mosa e tiene sotto tiro la riva opposta. A un certo punto, sfinito e scosso da una febbre altissima, si accascia su una branda.
La diagnosi medica è impietosa: polmonite doppia. Gli vengono prescritti cure e riposo. Che non ha alcuna intenzione di seguire. Ai comandanti di divisione telefona: “ Sono il generale Pétain. Ho assunto il comando. Avvisate i  soldati.” E conclude: “So di poter contare su di voi.” Uno spartano non avrebbe potuto essere più stringato e nello stesso più efficace.
Spronati dai propri ufficiali e dalle parole del generale comandante, i poilus  si battono con accanimento attorno a Bois de la Caillette, Bois de Hardoumont e al villaggio di Douamont per avvicinarsi al quale i tedeschi devono muoversi allo scoperto sotto il tiro implacabile delle mitragliatrici e degli obici. Quasi dappertutto gli uomini del Kronprinz avanzano sempre più lentamente, fra tempeste di neve e scontri corpo a corpo. Le contromisure adottate dai francesi sembrano funzionare; l’artiglieria sulla riva sinistra della Mosa non dà loro requie; le  perdite sono altissime; lo slancio iniziale si attenua. Per prendere il villaggio di Douaumont, situato nelle vicinanze del forte, i tedeschi lasciano sul terreno più della metà degli uomini impegnati nell’operazione. Fra i difensori del villaggio c’è anche un giovane capitano destinato, in quella circostanza, ad essere ferito e fatto prigioniero e, molti anni più tardi, a incrociare la propria strada con  quella di Pétain: si chiama Charles de Gaulle.
Nel Quartier Generale di  Soully, Pétain  infagottato in pesanti coperte e febbricitante, riceve gli ufficiali a rapporto. La domanda è – e anche in seguito sarà- sempre la stessa: “ E le vostre batterie? Che cosa hanno fatto le vostre batterie?” La sopravvivenza di Verdun( e della Francia) è affidata a quelle batterie, a quel ” materiale”. E l’efficacia di quelle batterie dipende dalle munizioni e da chi deve fornire le informazioni  per dirigerne il tiro.

“Ridatemi la vista.”

In quei tempi uomini, materiali e rifornimenti viaggiavano per ferrovia, non su gomma. A Verdun c’è una piccola ferrovia a scartamento ridotto, Le Meusien, ma è del tutto insufficiente per tenere vivo il fronte. Parallela a Le Meusien , da Bar-le-Duc a Verdun, corre una strada secondaria, lunga un’ottantina di chilometri e larga sì e no una decina di metri, in gran parte sterrata. Di fatto essa è, al momento, l’unica via di comunicazione utilizzabile per rifornire il fronte. I tedeschi, infatti, controllano la strada principale del Dipartimento della Mosa e tengono sotto il tiro dei propri cannoni la ferrovia di Sainte –Menehould.
La strada di Bar-le-Duc viene trasformata da Pétain  con l’aiuto di un eccellente “tecnico”, il maggiore Richard, in  una vera e propria “ strada della vita”. Per mesi,  giorno e notte, lungo i suoi ottanta chilometri scarsi, veicoli a motore di ogni tipo trasporteranno ininterrottamente uomini, viveri, munizioni, materiali, medicine verso il fronte e dal fronte preleveranno i feriti. Né i guasti meccanici né il fango né il maltempo fermeranno quel flusso continuo e inarrestabile. La strada verrà divisa in settori con officine e depositi di carburante; lungo l’intero percorso saranno gettate tonnellate di ghiaia sotto le ruote dei veicoli per favorirne la presa sul terreno fangoso; gli autocarri in panne o impossibilitati a proseguire verranno immediatamente rimossi dalla carreggiata così da non bloccare il traffico. In alcuni momenti lungo quella strada transiterà un automezzo ogni quattordici secondi.
I cieli sopra Verdun sono controllati dall’aviazione tedesca. Che, però, tatticamente, non sempre è impiegata bene. I tedeschi, ad esempio, dispongono di aerei da bombardamento, ma, stranamente, non ne impiegano nemmeno uno per colpire le comunicazioni francesi. Si limitano a tenere sgombro il proprio spazio aereo. E tuttavia, in teoria, la strada di Bar-le-Duc può essere minacciata dall’aria. Ma, soprattutto, possono essere abbattuti gli aerei da ricognizione e i palloni aerostatici, gli occhi dell’artiglieria francese. Pétain ha un disperato bisogno di informazioni sulla dislocazione delle forze nemiche: solo conoscendo esattamente dove si trovano può sperare di neutralizzarle. E per sapere dove si trovano ha bisogno di un flusso continuo di informazioni. Ha bisogno, in altri termini, dell’osservazione aerea.
Il 28 febbraio convoca un pioniere dell’aviazione da caccia, il maggiore Charles Tricornot, marchese de Rose. Gli espone il problema e conclude: “ Sono cieco, Rose.  Ridatemi la vista”[4]. Con la supervisione del colonnello Barrés, Rose si mette al lavoro. Chiama a sé i migliori piloti, chiede i nuovi aeroplani Nieuport, cura l’addestramento, vieta ai suoi di agire isolati o di cercare lo scontro individuale, ma di operare sempre in gruppo. Imposta, in altre parole, un’aviazione ” moderna”. E le squadriglie di Rose- le ” Cicogne”-,  col tempo sempre più numerose, svolgono alla perfezione il compito loro affidato, togliendo ai tedeschi la superiorità aerea.  Fra quelle squadriglie, una è particolarmente attiva: l’ Escadrille de Lafayette. I suoi aviatori sono tutti americani.
Gli assi di Tricornot de Rose(Jean Navarre, Georges Guynemer, Charles Nungesser) e la strada di Bar-le-Duc  – ribattezzata a guerra finita Voie Sacrée, Via Sacra- consentono a Pétain di resistere.

Le Mort Homme.

Se quella di Pétain è una Via Sacra, quella dei tedeschi è ogni giorno di più,  una Via Crucis. Falkenhayn ha ottenuto il proprio scopo e ha attirato nella fornace  di Verdun – diventata ora più che mai un simbolo per tutti i francesi- ingenti forze nemiche da “ dissanguare”. Ma il sangue scorre anche fra i suoi. In più muovere l’artiglieria e le relative munizioni su quel terreno ridotto a un unico cratere fangoso costa sforzi sovrumani e provoca un inevitabile rallentamento e una diminuzione della potenza di fuoco; le cucine da campo non si possono allestire, il cibo e l’acqua potabile scarseggiano, le trincee si allagano e si riempiono di fango,  i feriti non possono essere evacuati, la resistenza francese è più tenace del previsto. E  i cannoni di Pétain  sulla riva sinistra della Mosa sono un vero e proprio flagello.
Per toglierli di mezzo, si pensa allora a un attacco su due fronti: a est della Mosa in direzione di Fort Vaux, a ovest del fiume verso un’altura denominata, per via di un oscuro fatto di sangue accaduto in tempi passati, Le Mort Homme.
E intorno a questo punto di osservazione, alla vicina “Quota 304” e nei boschi circostanti  si scatena un vero e proprio inferno. Il bombardamento non dà requie; gli attacchi si succedono ai contrattacchi; in marzo piove e nevica, in aprile la pioggia allaga le trincee, in maggio manca l’acqua e la sete è così forte da costringere i soldati a bere la propria urina; intere compagnie vengono spazzate via , si combatte su un terreno quasi interamente cosparso di resti umani, i feriti non vengono evacuati, il lezzo dei cadaveri insepolti avvolge tutto e tutti, le diserzioni, da un parte e dall’altra, aumentano. Intorno a Bois d’Avocourt interi reparti si arrendono ai tedeschi: qualcuno avanza l’ipotesi di un tradimento in  massa.
I nervi sono sottoposti a una prova durissima. Immagina di essere legato a un palo, scriverà uno di quei poveri soldati, e di avere davanti a te un uomo con un martello. Vedi che l’uomo si prepara a colpirti e tremi di terrore. Il martello  si abbatte  e colpisce il palo a un centimetro dalla tua testa. Ogni volta è così e tu non sai mai se il martello colpirà te o scheggerà di nuovo il palo.

Otto Dix ( 1891-1969). Soldato ferito(1916).

Otto Dix ( 1891-1969), Soldato ferito(1916).

È una carneficina spaventosa. Spronati da Pétain (Courage, on les oura! Coraggio, gliele suoneremo!), i poilus resistono per tre mesi in condizioni disumane prima di cedere. Per i tedeschi è una vittoria di Pirro. Per le perdite subite, anzitutto. E poi per l’usura cui sono sottoposti. Non tolgono le unità dalla prima linea: rimpiazzano soltanto le perdite. Con il risultato di avere al fronte sempre meno soldati esperti e sempre più novellini. Pétain , al contrario, dopo un certo periodo ( di solito una settimana) di prima linea, avvicenda i reggimenti al completo spedendoli a rifiatare nelle retrovie prima di impiegarli di nuovo. In altre parole, i tedeschi sostituiscono gli uomini, Pétain le unità. In ogni momento i francesi possono così contare  su forze relativamente fresche con consistenti aliquote di  soldati esperti, mentre i tedeschi vedono le proprie forze combattenti diventare, attacco dopo attacco, sempre più deboli. E, soprattutto, anch’esse, al pari di quelle francesi e contrariamente a quanto previsto da Falkenhayn, si stanno “dissanguando goccia a goccia”.

Cambio al vertice.

Mentre tutto questo accade sulla riva sinistra della Mosa, sulla riva destra è in corso la battaglia per Fort Vaux. È uno scontro senza quartiere, cominciato con due giorni di ritardo rispetto al previsto a causa delle difficoltà di muovere l’artiglieria su un terreno fangoso e scavato da enormi crateri. La notte dell’8 marzo, primo giorno di battaglia, i tedeschi colgono di sorpresa il nemico e occupano il villaggio di Vaux. La mattina seguente si  dirigono verso Bois Fumin, prossimo al forte. Si sono appena mossi e già corrono le voci: il forte è stato catturato, la nostra bandiera è stata issata sulla sommità, ce l’abbiamo fatta. Un ufficiale comunica: ho raggiunto il forte con tre compagnie. Le alte sfere interpretano a modo loro la comunicazione da Fort Vaux e quell’ ho raggiunto, diventa, nella frenesia del momento, ho conquistato. Secondo consuetudine, l’ufficiale più alto in grado responsabile dell’operazione, il generale Hans von Guretzky, viene insignito della medaglia Pour le Mérit. Se la terrà un solo giorno. L’indomani l’onorificenza gli viene revocata: Fort Vaux , infatti, lungi dall’essere stato conquistato, resiste. E l’attacco ordinato da von Guretzky  per vendicare l’onta subita e per recuperare l’ambita medaglia, si risolve in un ennesimo, spaventoso massacro. Il primo assalto al forte è fallito.
I soldati tedeschi, ormai in condizioni estreme, vengono finalmente avvicendati. Tormentati dalla sete hanno bevuto l’acqua raccoltasi nelle buche e ora quasi tutti soffrono di dissenteria, moltissimi hanno i nervi a pezzi, di interi reggimenti resta un pugno di uomini. Quando raggiungono le retrovie,  devono allestirsi da soli gli alloggiamenti; giorno e notte le latrine sono costantemente occupate, il tanfo è insopportabile. Ma almeno lì non ci sono bombe, né esplosioni, né gas  asfissianti, né fango, né assalti all’arma bianca, né sangue, né urla di dolore, né topi famelici. Dal fronte, dove i soldati cadono come mosche, arrivano le prime voci controcorrente. Non attacco più, comunica il generale von Bahrfeld, i miei uomini sono esausti, non ce la fanno. Knobelsdorff cede: aspettiamo truppe fresche prima di ricominciare. L’attacco principale a Fort Vaux viene fissato per il 7 maggio, genetliaco del Kronprinz. Ma intanto von Bahrfeld viene sollevato dall’incarico.
E dall’incarico viene sollevato anche Pétain. Nel più classico dei modi: ti promuovo così ti levi dalla scatole[5] e la smetti di chiedermi in continuazione rinforzi e rifornimenti con il rischio di mandare a gambe per aria la prevista offensiva sulla Somme. Quello che dovevi fare l’hai fatto, adesso tocca a noi. Non è più tempo di subire e aspettare, di subire e difendersi. A Verdun i tedeschi sono alle corde: è arrivato il tempo di darci dentro e di sbarazzarcene  una volta per tutte. Se non ora, quando?
Nella sua nuova veste di capo del Gruppo di Armate Centro, Pétain resta, in teoria, responsabile anche di Verdun, ma in pratica in questo delicatissimo settore, dal 1° maggio a menare le danze è il generale Robert Nivelle, offensivista convinto. Come il suo braccio destro, del resto: il generale Charles Mangin. Al quale i soldati hanno affibbiato un soprannome che è tutto un programma: le boucher, il macellaio. Suo obiettivo dichiarato: la riconquista di Fort Douamont.

“I negri! I negri!”

Il 1° maggio riprende l’attacco  a Fort Vaux. Si tratta di un attacco scriteriato, mal congegnato, nato morto. I tedeschi puntano dritti sul forte anziché concentrarsi prima sui fianchi e sulle posizioni-chiave di Bois Fumin e Bois de la Cailette. Presi in mezzo da un tremendo fuoco incrociato proveniente da queste due località vengono letteralmente fatti a pezzi. Né per loro va meglio intorno alle fortificazioni di Fort Thiaumont: nessun progresso e perdite elevatissime.
Anche Fort Douaumont- sotto costante tiro nemico-  conosce i propri guai. Quando un’esplosione accidentale fa saltare un deposito di benzina per i lanciafiamme, all’interno del forte si scatena il finimondo. Un grido corre di bocca in bocca: “ I negri! I negri!” Volano le bombe a mano. Alcune di esse raggiungono il deposito delle munizioni e delle granate caricate a gas facendolo saltare in aria. Muoiono quasi settecento uomini, molti di essi soffocati. Dei “ negri” nessuna traccia. Nel caos e nella confusione seguiti all’esplosione, qualcuno aveva scambiato i volti dei commilitoni scuriti dalla polvere e dal fumo per i volti dei soldati coloniali francesi- nordafricani e senegalesi- temutissimi perché non facevano mai prigionieri.
I francesi però non approfittano immediatamente di questo inaspettato colpo di fortuna.

La mossa del cavallo.

Le certezze tedesche cominciano a scricchiolare. Il 13 maggio i comandanti della Quinta armata si riuniscono e decidono per il momento di sospendere l’attacco a Fort Vaux: aspettiamo nuove truppe e nuove granate a gas e poi ricominciamo. Il Kronprinz è del parere di piantarla una volta per tutte e lo dice chiaro e tondo: non otteniamo risultati, perdiamo uomini e materiali, siamo in stallo. Knobelsdorff, invece, vuole continuare: secondo lui i francesi si stanno “ dissanguando”. E va bene, sbotta il principe Friedrich Wilhelm, se il Quartier Generale ordina di continuare, obbedirò agli ordini. Ma non voglio essere io a impartirli.  Il 17 maggio Falkenhayn si fa vivo: stop alle operazioni sulla riva destra della Mosa  e massimo sforzo sulla riva opposta. Ma prima vanno eliminate  le difese intorno a Thiaumont e va conquistato Fort Vaux.  In altre parole, tutto come prima. O quasi.
Ma i francesi hanno in serbo la mossa del cavallo: anticipano i tedeschi e puntano dritti su Fort Douaumont. Dal 16 al 22 maggio bombardano il forte con ogni mezzo: granate, bombe dirompenti, gas. Il 22 i reggimenti di Mangin- fermamente deciso a tener fede alla propria promessa di riconquistare il forte- si lanciano all’attacco. È un disastro. Durante due giorni di combattimenti, interi reparti vengono annientati; le perdite raggiungono e a volte superano l’ottanta per cento degli effettivi;  i tedeschi riescono a far affluire rinforzi, i francesi no. Nelle sue ultime fasi, la battaglia per Fort Douaumont è combattuta all’arma bianca.
Mangin ha sbagliato tutto: ha affollato un fronte troppo ristretto, mettendo i suoi praticamente alla mercé dell’artiglieria tedesca; ha annunciato la caduta del forte quando il forte era ancora in mano nemica; ha impiegato male le riserve, mandandole all’assalto con la prima ondata e trovandosene privo al momento del bisogno. Come avevano ampiamente dimostrato gli avvenimenti dei mesi precedenti,  l’offensiva a oltranza, nel contesto di Verdun, non pagava, non poteva pagare.
Pagano invece Mangin e, una volta di più, i soldati. Il primo è rimosso da Pétain, i secondi cominciano a dare segni di cedimento; Mangin si offre di servire come soldato semplice, i poilus disertano o non ubbidiscono agli ordini. I nervi crollano. Mesi e mesi di sacrifici, di bombardamenti ininterrotti, di fame e di sete implacabili, di orrori di ogni tipo, di condizioni disumane hanno lasciato il segno. Quando arriverà la fine di quell’incubo? Quando cesserà quell’ “inutile strage”?

L’onore delle armi.

Il 1° giugno Bois de la Cailette cade in mano tedesca. Lo stesso giorno anche Bois Fumin  è conquistato coi lanciafiamme, ma a prezzo di altissime perdite. Ci si muove fra mucchi di cadaveri orribilmente mutilati o carbonizzati. Louis Barthas, bottaio nella vita civile , scrive: “ Due dei nostri agonizzano dopo essere stati avvolti dalle fiamme. Uno muore quasi subito, l’altro, completamente impazzito, si mette a cantare una canzoncina da bambini, si rivolge alla moglie e alla madre , parla del proprio villaggio natale. Tutti noi scoppiamo a piangere”. Ora Fort Vaux, privo di protezione sui fianchi, è vulnerabile. Ci sono circa seicento uomini nel forte. Li comanda il maggiore Sylvain Eugéne Raynal.
Un piccione viaggiatore raggiunge il Comando e subito dopo muore a causa dei gas respirati durante il volo. Reca legato a una zampa un messaggio del maggiore Raynal: chiede rinforzi. E li chiede perché dentro al forte sottoposto a un bombardamento terrificante e continuo, attaccato coi lanciafiamme e con le granate, l’acqua sta per finire. Fino ad allora Raynal e i suoi seicento uomini avevano resistito, impedendo ai tedeschi  di entrare nel forte. Ma a nulla era servita la loro valorosa difesa,  a nulla erano serviti i contrattacchi portati dall’esterno : le truppe d’assalto tedesche erano sempre più vicine, il forte era praticamente circondato, i soldati bevevano la propria urina o leccavano la condensa sui muri, le canne delle armi non potevano essere raffreddate. Anche i tedeschi soffrivano la sete, il caldo, lo stress da combattimento, ma, a differenza dei francesi, facevano progressi, sentivano la vittoria a un passo. E venivano avanti.
Il 7 giugno  la guarnigione si arrende. Il piccione di Fort Vaux, caduto nell’adempimento del dovere, viene insignito della Legion d’Onore; i superstiti della guarnigione ricevono l’onore delle armi; il Kronprinz in persona permette al maggiore Raynal di conservare la  sciabola;  Nivelle tenta di riprendere il forte mandando a morire migliaia di  altri soldati; Pétain intima  di smetterla con quegli attacchi insensati, inutili e suicidi.
Nel mirino dei tedeschi ci sono ora Fleury e Fort Souville. Prossima tappa: la cittadina di Verdun.

Otto Dix ( 1891-1969). Assalto con maschere antigas(1924)

Otto Dix ( 1891-1969). Truppe d’assalto con maschere antigas(1924)

Verdun addio?

L’ostacolo principale verso Fleury e Fort Souville è Fort Thiaumont: bisogna neutralizzarlo prima di cominciare l’attacco principale. Il forte è sotto il tiro dell’artiglieria nemica posizionata sulle alture circostanti, eppure resiste. Fino al 21 giugno, infatti, i tentativi tedeschi vanno a vuoto. Gli attaccanti  colgono qualche successo qua e là, ma non riescono a penetrare all’interno del forte. Alle 6 del mattino del 23 giugno, alba di una giornata caldissima, i tedeschi scatenano un attacco massiccio, impiegando per la prima volta un gas altamente tossico, il fosfuro di idrogeno.  In parte, l’attacco ha successo. Il gas mette fuori combattimento gli artiglieri nelle posizioni più arretrate , ma non riesce a neutralizzare completamente gli uomini di prima linea. Interi reparti o piccole unità, guidate da ufficiali coraggiosi  impediscono così ai tedeschi di sfondare. Non però di conquistare Thiaumont e parte del villaggio di Fleury. La città di Verdun è indifesa e può cadere da un momento all’altro.
La situazione è critica. Il Comando francese appare sempre più frastornato e in difficoltà; numerosi soldati confusi, storditi, demoralizzati abbandonano le linee e si dirigono in disordine verso la città di Verdun. Lo scenario è apocalittico: sulle strade, sui campi sconvolti dalle bombe, nelle trincee scoperchiate, dovunque si vedono feriti, morti e moribondi. Gli ospedali da campo non funzionano; i medici non sono preparati a curare le spaventose ferite inferte dai proiettili dell’artiglieria. Gli uomini che hanno respirato il gas velenoso agonizzano, scossi da spasmi atroci.  Perché gli uomini continuano a combattere? Dove trovano la forza di resistere? Perché non disertano in massa, da una parte e dall’altra? Poco prima di cadere sotto le bombe a Verdun, un giovane tenente francese scrive: “L’inferno è niente in confronto…L’umanità è impazzita..  Gli uomini sono impazziti.”
È un brutto, bruttissimo momento. Come già Herr tempo prima, Pétain e Nivelle pensano di abbandonare  la riva destra e di attestarsi sulla riva sinistra della Mosa.  Ma è possibile? Se ci si ritira, come reagirebbe l’opinione pubblica francese? E l’opinione pubblica mondiale? Direbbero: il sangue versato fino a questo momento è dunque stato versato invano? Tanti giovani valorosi sono morti per niente? No, niente da fare: Verdun è la Francia. Impossibile rinunciare. Occorre tener duro e contrattaccare. Quando si può.

E il 25 giugno, i francesi, inaspettatamente, contrattaccano  e riprendono Fort Thiaumont. I tedeschi si sono fermati: non hanno fosgene a sufficienza per un nuovo attacco, soffrono la sete, non sono riusciti a neutralizzare completamente i 155 e i 75 posizionati sulle alture. Soprattutto sono a corto di uomini. Sul fronte orientale, infatti, il generale russo Brusilov ha sferrato una poderosa offensiva travolgendo gli austriaci. Per correre ai ripari, Falkenhayn deve privarsi di tre divisioni e ordinare al Kronprinz di sospendere momentaneamente l’attacco. La breccia non può essere sfruttata e i francesi hanno il tempo di riorganizzarsi.
Nel frattempo, il 1° luglio, sulla Somme è iniziata l’offensiva franco-britannica. Uomini e aerei servono altrove. Verdun rischia di diventare un fronte secondario, ma non un fronte spento. Anzi, i combattimenti riprendono con maggiore violenza di prima. Il villaggio di Fleury vede l’alternarsi continuo di attacchi, di contrattacchi e di scontri all’arma bianca e si trasforma in un inferno nell’inferno. I tedeschi, decisi a far saltare il banco, preparano due offensive: la prima  su un fronte ristretto- quello fra Bois Chapitre e Fleury-  allo scopo di utilizzare meglio la potenza devastante della  propria artiglieria e la seconda verso Fort Tavannes. Entrambe dovrebbero scattare il 7 luglio.
Ma il tempo fa le bizze e bisogna aspettare. L’11 luglio, con quattro giorni di ritardo sulla data prevista, i tedeschi partono finalmente all’attacco. Sparano a gas, ma con scarsi risultati: questa volta i francesi hanno maschere in grado di filtrare anche il micidiale fosgene. Il fronte scelto per l’azione principale, inoltre, è stretto, troppo stretto.  E troppo affollato. Le unità si ammassano le une dietro le altre in mezzo a una confusione indescrivibile; i 155 a canna lunga e i 75 a tiro rapido francesi non danno tregua; alcuni reparti si rifiutano di proseguire. L’attacco verso Fort Tavannes non parte neppure, tanto è intenso il fuoco dell’artiglieria francese. Unico dato positivo: la conquista definitiva di Fleury. Fort Souville è a meno di cinquecento metri di distanza . Se cade, anche Verdun è perduta.
Il primo tentativo portato il 12 luglio va a vuoto. Dopo questo ennesimo fallimento, Falkenhayn cambia tattica e ordina di consolidare e di difendere le posizioni. Non ci sono più riserve per sostenere un nuovo attacco. I francesi ne approfittano, si riorganizzano e passano al contrattacco. Per tutto luglio e per tutto agosto nella zona di Fort Tavannes e di Fleury i combattimenti si inaspriscono. E si inaspriscono nonostante i tedeschi pensino di abbandonare definitivamente la partita, nonostante siano a corto di munizioni, nonostante gli uomini, ormai esausti, siano tormentati dalla sete e dalla fame. Si combatte in spazi aperti, fra corpi mutilati e dilaniati, fra enormi crateri scavati dalle bombe, fra i lamenti dei feriti e dei moribondi. Chi non ce la fa più viene accusato di codardia e passato per le armi.
Lo stallo ormai è palese. Falkenhayn e Knobeldsdorff vengono sostituiti: il primo viene mandato in Romania ( entrata nel frattempo  in guerra a fianco dell’Intesa) ad assumere il comando della Nona armata e il secondo, con la medaglia Pour le Mèrite sul petto, viene destinato al fronte orientale. Per i nuovi arrivati, Hindenburg e Ludendorff, Verdun è un discorso chiuso.
Non per Nivelle. Alla fine di ottobre,  sostenuti per la prima vota da un poderoso- ancorché a tratti  impreciso- fuoco di sbarramento  che, precedendoli,  li accompagna quasi passo dopo passo, fino a pochi metri dalle trincee nemiche, i poilus si lanciano all’attacco conquistando in breve tempo sia Fort Douaumont, sia la zona intorno a Thiaumont. Il 2 novembre anche Fort Vaux è riconquistato. L’11 dicembre Mangin- reintegrato nel comando- guida una nuova offensiva e ricaccia i tedeschi ancora più lontano.
Il 18 dicembre, quando a Verdun , dopo nove mesi e ventisei giorni di bombardamenti pressoché ininterrotti, la battaglia finisce, francesi e tedeschi occupano, più o meno, le stesse posizioni occupate prima del 21 febbraio. Dunque, dal punto di vista tattico e strategico, quella di Verdun fu una battaglia completamente inutile.  Ma quella battaglia inutile costò ai francesi più di trecentomila uomini, ai tedeschi duecentottantamila. E c’è chi avanza cifre ancor più spaventose:  un milione di uomini fra morti feriti e dispersi.
Qualcuno ha scritto: i tedeschi avrebbero forse potuto vincere la guerra o almeno trattare la pace da condizioni più favorevoli se non si fossero giocati tutto – e male-a Verdun. Almeno tre volte andarono vicini al successo: alla fine di febbraio e in giugno. In febbraio l’occasione fu perduta per l’eccessiva ” prudenza” di Falkenhayn, forse sorpreso dal travolgente successo iniziale; in giugno perché ormai mancavano le riserve necessarie per portare il colpo finale. Se avessero sfondato a febbraio, i tedeschi avrebbero colto una vittoria di altissimo valore simbolico; se lo avessero fatto in giugno, avrebbero messo in ginocchio la Francia, forse per sempre.
Non andò così.

Epilogo

“Joffre della Marna” cadde in disgrazia e attese la fine della guerra limogè( termine usato per indicare gli ufficiali giubilati) poltrendo in un ufficio appositamente allestito per lui e in cui non c’era niente da fare. Mangin fu messo da parte- come Nivelle, del resto-  dopo la scellerata offensiva sullo Chemin des Dames, ma fu richiamato in tempo per cogliere importanti vittorie nel 1918 che lo riportarono in auge. De Castelneau, tanto cattolico da viaggiare sempre con un cappellano personale al seguito,  non fu elevato al grado di Maresciallo- a causa del violento anticlericalismo del Primo Ministro Clemenceau, si disse- ed entrò a far parte della Camera di Deputati .
Falkenhayn condusse una brillante campagna in Romania, ma non recuperò mai il prestigio perduto a Verdun e, sempre più isolato e riservato, passò gli anni del dopoguerra fino al ’22 ( anno della morte) a scrivere le proprie memorie in terza persona, come se fosse Giulio Cesare. Il Kronprinz andò in esilio in Olanda, fece una breve apparizione  in Germania entrandovi clandestinamente, intuì il pericolo rappresentato dal nazismo e ritornò in Olanda a dividere il proprio alloggio “ senza una sala da bagno” con l’ultima sua amante, una parrucchiera divorziata. Il maggiore Raynal tornato dalla prigionia si diede alla politica e divenne un fervente pacifista; il suo compagno di prigionia, il capitano De Gaulle,  impiegò gli anni della detenzione a sviluppare le proprie idee sull’esercito francese del futuro; il tenente Radke, uno dei conquistatori di Douaumont, provato nel fisico, divenne un funzionario delle ferrovie; l’ex sergente Kunze provò a farsi vivo rivendicando i propri meriti, ma inutilmente; von Knobelsdorff sparì dalla circolazione e, dopo la guerra, poco si seppe di lui.
Pétain, nominato Maresciallo di Francia, rimase a lungo in auge ed ebbe parte notevole nell’allestimento della linea Maginot, destinata  nel 1940, a essere aggirata dalle colonne corazzate tedesche. Firmò l’armistizio con Hitler e fu capo del governo della Francia di Vichy fino alla definitiva occupazione nazista. Processato dopo la fine della guerra, fu condannato a morte per alto tradimento, ma la condanna fu poi trasformata in ergastolo. Uscì di prigione alla fine del giugno del 1951 per morire meno di un mese dopo a novantacinque anni d’età.
Scrive Horne: “ A Verdun il suo ritratto nella “Sala d’Onore” sotto la cittadella è stato tolto e il suo nome cancellato a colpi d’ascia dalla targa in legno che porta i nomi dei “Liberatori della Cittadella”. Non vi sono statue, Pétain ne proibì l’erezione durante la sua vita, ma di fronte all’Ossario, i custodi indicano un piccolo pezzo di terra vuoto dove Pétain aveva sperato alla fine di congiungersi con i suoi amati soldati.
“ Forse”, essi dicono in tono dubbioso, “ forse, sarà permesso un giorno al Maréchal di ritornare qui.”

Da leggere:

Silvio Bertoldi, Come si vince o si perde una guerra mondiale, 2005 ,  Rizzoli
Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, 2003
Alessandro Gualtieri, Verdun, 1916 : il fuoco, il sangue, il dovere, Fidenza : Mattioli 1885, 2010
Alistair Horne , Il prezzo della gloria : Verdun 1916, Mondadori, 1968.
Ian Ousby , Verdun,  Rizzoli, 2002

Da vedere:

All’Ovest niente di nuovo, di Lewis Milestone(1930)
E Johnny prese il fucile, di Dalton Trumbo (1971)
La grande illusione, di Jean Renoir (1937)
Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Delbert Mann(1979)
Per il re e per la patria, di Joseph Losey ( 1964)
Orizzonti di gloria, di Stanley Kubrick ( 1957)
Una lunga domenica di passioni, di Jean-Pierre Jeunet (2004)
War Horse, di Steven Spielberg( 2011)

bandiera ingleseAutomatic English translation : The decisive point 1

Contatti

In questo sito:

L’esercito degli innocenti. Piccardia, Francia,1916. Papaveri rossi e sangue sulla Somme.
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“Pranzo a Parigi, cena a Pietroburgo”.
Francia 1914: il ” piano perfetto” del conte von Schlieffen  fra angeli, panico,  decisioni arbitrarie e ..miracoli.
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Finestre chiuse, porte aperte. Un giovane tenente , un brillante generale  e quattrocento cannoni che  non sparano un colpo. Dove? A Caporetto.
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La terza volta
La terza battaglia di Ypres, 1917: fango, pioggia e sangue a Passchendaele.
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Cartine:

Verdun: il campo di battaglia. Fonte: www.westernfrontassociation.com. The battle of Verdun

Verdun: il campo di battaglia. Fonte: http://www.westernfrontassociation.com. The battle of Verdun

Verdun: la battaglia per i forti. Riva destra della Mosa. Fonte: www.westfontassociation.com, citato

Verdun: la battaglia per i forti. Riva destra della Mosa. Fonte:westernfrontassociation.com

Verdun: la battaglia intorno a Le Mort Homme e a Quota 304. Riva sinistra della Mosa. Fonte: www.westfrontassociation, The Battle of Verdun

Verdun: la battaglia intorno a Le Mort Homme e a Quota 304. Riva sinistra della Mosa. Fonte: westernfrontassociation.com

La battaglia in breve.

21 febbraio 1916, ore 7,15: i tedeschi concentrano il fuoco della loro artiglieria su un fronte di circa quaranta chilometri su entrambe le rive della Mosa . E’ l’inizio di Gericht, l’attacco alla zona fortificata di Verdun. La popolazione civile viene evacuata dalla cittadina. Le bombe cadono al ritmo di quaranta al minuto causando perdite altissime. Alle quattro del pomeriggio,  le truppe d’assalto tedesche escono dagli Stollen e vanno all’attacco. In alcuni punti, l’attacco viene efficacemente e inaspettatamente  contrastato dai francesi.
22 febbraio: nuovo violento bombardamento, nuovo attacco tedesco. I francesi si ritirano da Bois de Caures( dove cade il colonnello Driant) e dai villaggi di  Brabant e di Haumont.
23 febbraio: cadono altre posizioni chiave. I francesi si ritirano sulla linea Samogneux- Beamont-Ornes.
24 febbraio: bersagliati  dal fuoco francese proveniente dalla riva sinistra della Mosa, i tedeschi attaccano di nuovo e conquistano “Quota 344”, Bois de Fosse, Bois de Chuame e Ornes.  Il capo di Stato Maggiore francese, generale Noel de Castelnau, consiglia Joffre di inviare a Verdun la Seconda armata comandata dal generale Henri Pétain. Nel frattempo  il XX Corpo d’Armata ( generale Balfourier) si sta dirigendo a Verdun per rimpiazzare il XXX Corpo ( generale Chrétien).
25 febbraio: i francesi si ritirano un po’ ovunque in disordine. Cade Fort Douaumont, ritenuto inespugnabile o quasi. La 37.ma divisione africana, responsabile della difesa della linea Champneuville- Vacherauville- villaggio di Douaumont, saputo della caduta del Forte, si ritira aprendo un varco che i tedeschi, però, non sfruttano. Il comandante della piazzaforte, generale Fédéric-Georges Herr è rimosso dal comando. Pétain assume, per ordine di de Castelnau, il comando dell’intero settore.
26 febbraio: prime misure di Pètain: linea di difesa imperniata sui forti( riva destra) e fuoco di artiglieria ( riva sinistra). Comincia  a prendere forma la futura Voie Sacrée( Via Sacra). I tedeschi attaccano il villaggio di Douaumont, ma sono respinti con gravi perdite.
27 febbraio-2 marzo: dopo scontri violentissimi e gravi perdite da una parte e dall’altra, i tedeschi riescono a conquistare il villaggio di Douaumont. Fra i tanti prigionieri francesi c’è un ufficiale ferito: il capitano Charles de Gaulle.
6 marzo: comincia la cosiddetta “ Battaglia delle ali” ( Battle of the Flanks). Preceduti da un intenso fuoco d’artiglieria, i tedeschi attraversano la Mosa  e si dirigono verso l’altura denominata Le Mort Homme, posta sulla riva sinistra del fiume. L’artiglieria francese è poco efficace: i proiettili si conficcano nel terreno fangoso e non esplodono. A sera le Stosstruppen hanno compiuto significativi progressi.
7 marzo: i tedeschi occupano Bois de Corbeaux ( il “bosco dei corvi”). Le difese francesi crollano  e più di tremila uomini vengono fatti prigionieri.
8 marzo: i francesi contrattaccano e rioccupano Bois de Corbeaux.  I tedeschi rinunciano temporaneamente ad attaccare Le Mort Homme e si attestano sulla difensiva.  Sulla riva destra scatta l’attacco in direzione di Fort Vaux. Durante la notte, truppe tedesche occupano il villaggio di Vaux cogliendo i francesi di sorpresa. Non riescono però a sfruttare questa situazione favorevole e sono costrette a trincerarsi.
9 marzo: parte il primo attacco tedesco a Le Mort Homme ( riva sinistra della Mosa). I francesi reagiscono e gli assalitori sono costretti a ritirarsi. Fra i tedeschi si diffonde la voce della cattura di Fort Vaux ( riva destra). Poiché il forte, invece, si trova ancora in mano francese, il generale von Guretzky attacca. L’attacco fallisce.
10 marzo: a prezzo di altissime perdite, Bois de Corbeaux ritorna in mano tedesca. Nei giorni seguenti la battaglia riprende più violenta che mai in un susseguirsi di attacchi e di contrattacchi. Nei primi venti giorni di combattimenti i francesi hanno perduto quasi 90.000 uomini, i tedeschi 82.000.
14 marzo: fallisce un secondo tentativo tedesco di conquistare Le Mort Homme. L’artiglieria francese posizionata su un’altura denominata “Quota 304” apre ampi vuoti fra le truppe d’assalto. I tedeschi decidono allora di concentrare gli attacchi su “Quota 304”.
19 marzo: sulla riva destra della Mosa continua l’attacco a Fort Vaux. Il generale von Mudra –  uno specialista di fortezze, in seguito sostituito dal pari gradi von Lochow- assume il comando. Le truppe, però, sono stanche e l’attacco deve essere rinviato.
20 marzo: sempre con il supporto dell’artiglieria, i tedeschi attaccano  in direzione della linea Malancourt-Avocourt, sulla riva sinistra. Un’intera divisione francese(la 29.ma) è spazzata via.  I prigionieri sono più di tremila. In Francia l’avvenimento è visto come una catastrofe nazionale. Qualcuno parla di tradimento
23 marzo: scatta l’attacco tedesco  in direzione di “Quota 34”. Le condizioni atmosferiche sono proibitive: piove e a tratti nevica. I Landser occupano i villaggi di Malancourt (31 marzo), di Haucourt (5 aprile)  e di  Bethincourt. “Quota 34” resta  però francese.
9 aprile: attacco simultaneo a Le Mort Homme e a “Quota 34”. I tedeschi riescono a raggiungere, a costo di perdite spaventose, la prima cresta del Mort Homme, quella più bassa. I francesi continuano a tenere la sommità. La battaglia dura diversi giorni ed è forse la più crudele e spietata combattuta , fino a quel momento, sulla riva sinistra della Mosa. Da una parte e dall’altra, i reparti vengono decimati; mancano l’acqua e il cibo; i feriti non possono essere soccorsi; i morti giacciono insepolti.
1° maggio: riprende l’attacco tedesco a Fort Vaux( riva destra). L’attacco fallisce. Il generale Pétain è promosso al rango di comandante dell’intero Fronte Centrale. Alla testa della II armata viene nominato il generale Robert Nivelle.
3 maggio: il generale von Gallwitz, comandante delle forze sulla riva sinistra della Mosa, concentra il proprio attacco su “Quota 34” da dove l’artiglieria francese non cessa di martellare le posizioni tedesche.  Lungo un fronte sì e no lungo due chilometri vengono ammassate più di cinquecento bocche da fuoco. Un bombardamento di trentasei ore sconvolge le posizioni francesi, seppellisce vivi centinaia di uomini nei loro rifugi, spiana le trincee, causa perdite altissime. Ma occorrono giorni prima che i tedeschi riescano a occupare interamente “Quota 34”.
13 maggio: l’attacco a Fort Vaux viene differito ad altra data. Durante l’incontro in cui viene deciso il differimento dell’attacco, il principe ereditario, vista la situazione e le gravissime perdite subite dalla sua armata, avanza la proposta di cessare tutti i combattimenti a Verdun. L’Alto Comando e  von Knobelsdorf la vedono diversamente e decidono di continuare.
16-22 maggio: fuoco di preparazione su Fort Douaumont: i francesi sono fermamente decisi a riconquistarlo. L’attacco viene lanciato il 22 e vede impegnati due reggimenti agli ordini del generale Charles Mangin. L’attacco fallisce. Sulla riva sinistra dopo la conquista di “Quota 34”, la strada verso Le Mort Homme è libera. Ma solo alla fine di maggio i tedeschi riescono a conquistarlo definitivamente.
1° giugno: riprende l’attacco a Fort Vaux( riva destra). Il forte, strenuamente difeso dal maggiore Raynal e dai suoi uomini, viene conquistato il 7 giugno . I difensori, da tempo privi di acqua potabile, si arrendono. A essi viene concesso l’onore delle armi.
8 giugno: Nivelle lancia un contrattacco per riprendere il forte. L’azione finisce in un massacro. Pétain proibisce a Nivelle di condurre in futuro attacchi del genere. Nel frattempo, sempre sulla riva destra della Mosa,  i tedeschi hanno lanciato un’ennesima offensiva in direzione di Fleury e di Fort Souville .
23 giugno: un massiccio attacco tedesco in direzione di Fort Souville viene respinto dai difensori.  I tedeschi, tuttavia, riescono a occupare parte del villaggio di Fleury e le intere fortificazioni nella zona di Thiaumont. Due giorni più tardi, i francesi le riconquistano.
1° luglio: ha inizio la battaglia della Somme. Truppe e materiali tedeschi impiegati a Verdun prendono la via della Piccardia.
12 luglio: fallisce l’ennesimo attacco a Fort Souville. È in questa occasione che Nivelle fa arrivare alle truppe il famoso messaggio “ Ils ne passeron pas!”, non passeranno.
15 luglio: ancora un contrattacco francese ( obiettivo: Fleury), ancora Mangin, ancora un fallimento.
1° agosto: attacco tedesco per consolidare il fronte fra  Fleury e Thiaumont.  Nella zona , gli attacchi e i contrattacchi si succedono fino al 17, quando i francesi riescono a ripristinare la linee precedenti.
23 agosto: Falkenhayn e von Knobelsdorf sono sostituiti. Le operazioni passano sotto la responsabilità del maresciallo Von Hindenburg coadiuvato dal generale Ludendorff. Gli attacchi tedeschi diminuiscono fino a cessare quasi del tutto.
21 ottobre: i francesi passano all’offensiva e nei giorni e nei mesi seguenti  si riprendono Fort Vaux, Fort Douaumont e tutto il territorio perduto .
18 dicembre: la battaglia di Verdun è finita. I due eserciti occupano più o meno le medesime posizioni occupate il 20 febbraio.


[1] Numerosi storici  contemporanei hanno messo in discussione la veridicità degli obiettivi di Gericht illustrati  da Falkenhayn nelle proprie memorie. Per loro, l’obiettivo principale dei tedeschi era quello  di conquistare Verdun per minacciare Parigi, non quello di “dissanguare” a morte l’esercito francese. Solo dopo il fallimento dell’operazione, Falkenhayn, per difendere il proprio operato, avrebbe indicato nella guerra di attrito l’obiettivo principale di Gericht.

[2]Dando un’occhiata alla prima cartina riportata al termine di questo articolo, si può avere un’idea degli opposti schieramenti. Alla loro estrema destra, a est della Mosa, i tedeschi schierano il VII Corpo d’Armata della Riserva, formato in gran parte da effettivi provenienti dalla Westfalia e dalla Ruhr  agli ordini del generale Hans von Zwehl. Accanto al VII è posizionato il XVIII Corpo d’Armata i cui soldati provengono in gran parte dall’Assia e sono comandati dal generale Heinrich von Schenck. Segue il formidabile III Corpo del Brandeburgo, una delle migliori unità combattenti, comandato dal generale Ewald von Lochow. Il XV Corpo, schierato alla sinistra del III svolgerà soltanto un ruolo marginale nei primi momenti della battaglia.  Il VI Corpo d’Armata, formato da effettivi polacchi e alsaziani  è di riserva.
Lo schieramento francese può contare, all’inizio, soltanto sul XXX Corpo d’Armata del generale Paul Chrétien, comprendente tre divisioni operative ( la 72.ma, generale Etienne André Bapst; la 14.ma, generale Boullangé; la 51.ma , generale Crepey) e una di riserva( 37.ma, generale Bonneval).
Un Corpo d’Armata tedesco comprendeva di regola, due divisioni di fanteria. Ogni divisione era composta da due brigate, ogni brigata da due reggimenti, ogni reggimento da due ( o tre) battaglioni di mille uomini ciascuno.

[3] Letteralmente significa “pelosi”. Con questo appellativo venivano indicati i fanti francesi. Erano chiamati in questo modo perché, impegnati in frequenti combattimenti,  non avevano il tempo di tagliarsi la barba o i capelli. Il termine suonava quasi affettuoso e non aveva alcun significato spregiativo.

[4] Je suis aveugle, Rose : balayez-moi le ciel !( Letteralmente : Sono cieco, Rose. Sgomberatemi  il cielo ! »

[5] Promoveatur ut amoveatur, dicevano gli antichi Romani: sia promosso, affinché/purché sia rimosso.

Per le immagini e le biografie approfondite dei protagonisti della battaglia, si rimanda a Wikipedia, l’enciclopedia libera.
Sotto il titolo: Otto Dix   ( 1891-1969): Trittico della guerra( 1929-1932), Dresda, Staatliche Kunstsammlungen

La tregua di Natale, 1914: uno spot pubblicitario, un piccolo capolavoro.

 


I fiori di fuoco

18/02/2013
Il monumento alle vittime civili di Okinawa. Opera dello scultore giapponese Kinjo Minoru. Da japanfocus.org

Il monumento alle vittime civili di Okinawa. Opera dello scultore giapponese Kinjo Minoru. Da japanfocus.org

Prologo.

Il governo giapponese di Shinzo Abe aveva “consigliato” ad alcuni editori di togliere dai manuali di storia in  uso nelle scuole superiori qualsiasi riferimento alla responsabilità dei militari riguardo a suicidi di massa verificatisi durante la Seconda Guerra Mondiale fra la popolazione civile. In altri termini, secondo il governo, i suicidi di massa erano sì avvenuti, ma i comandi militari non c’entravano, non erano stati loro a ordinarli.
Il governo giapponese forse sperava di passarla liscia. Si sbagliava di grosso. La reazione dell’opinione pubblica  fu immediata e veemente. Il governo si rimangiò in parte la parola e, come tutti i governi che si rispettino, scelse una soluzione di compromesso e, naturalmente, scontentò tutti.
Era il 2007. La battaglia di Okinawa era finita da sessantadue anni.

L’isola del Karate.

Okinawa è un’isola delle Ryukyu e fa parte del Giappone. E’ lunga centoventi chilometri e larga una quarantina. Il clima è monsonico, piove spesso, il territorio è accidentato. Per lungo tempo regno indipendente, Okinawa fu eretta a prefettura giapponese nel 1879. Anche dopo l’annessione al Giappone, gli abitanti di Okinawa – in gran parte agricoltori- conservarono a lungo  una cultura propria, proprie tradizioni e propri costumi. Per via dei trascorsi storici, fra loro  e i giapponesi non sempre è corso buon sangue: alla vigilia della guerra del Pacifico, ad esempio, a Tokio c’è ancora chi li considera un’etnia  a parte e cittadini di serie B, anche se molti abitanti dell’isola, complici una propaganda serrata e una capillare politica di assimilazione, sono ormai giapponesi in tutto e per tutto.
Okinawa si trova a meno di settecento chilometri dalle isole giapponesi principali,  Kyushu, Honsu e Hokkaido. Già nel 1944 gli americani hanno preparato un piano per conquistarla: vogliono portare le proprie navi e soprattutto i propri bombardieri pesanti e medi vicinissimi al Giappone, preludio a un’invasione su larga scala.

Mentre gli americani preparano il loro piano, l’Impero del Sol Levante è in agonia. Nel Pacifico, il suo perimetro difensivo si è spaventosamente ristretto; la Grande Area di Coprosperità è un ricordo, la madrepatria stessa è sotto minaccia di invasione; mancano piloti addestrati ed esperti, aerei in grado di competere con gli Hellcat o i B29 americani, carburante per farli volare. Anche la  flotta imperiale, un tempo imbattibile,  è  ora ridotta al lumicino.  Gli alti comandi sanno tutto questo. Ma non hanno alcuna intenzione di cedere. L’ala militarista e nazionalista la fa ancora da padrona e detta la linea: niente cedimenti e niente resa. Combattendo fino all’ultimo soldato, possiamo infliggere al nemico perdite spaventose. In mezzi ma, soprattutto, in uomini. E allora, di fronte all’ennesima carneficina, come reagirà l’opinione pubblica americana già scossa per quanto accaduto a Iwo Jima? E le alte sfere? Continueranno a pretendere la resa incondizionata  del Giappone o non ripiegheranno su soluzioni meno drastiche?
Okinawa, insomma, è per i giapponesi una replica di Iwo Jima su scala più vasta. Identici gli obiettivi, del tutto simili le scelte tattiche: poche difese in prossimità delle spiagge, linee di bunker e di casematte dislocate all’interno e in profondità, campi di fuoco incrociato. E, in più, uomini pronti a sacrificare la propria vita  in missioni suicide.
Il piano giapponese è semplice: attirare il nemico sempre più a sud, tagliargli ogni via di fuga verso le spiagge, costringere la flotta a ritirarsi sotto l’incalzare degli attacchi kamikaze, impegnare i marines e i GI in una battaglia di attrito all’ultimo sangue. Il sistema difensivo a Okinawa è pensato e disegnato a questo scopo. Due formidabili linee- la Machinato e la Shuri–  ideate dal colonnello Hiromichi Yahara nascondono centinaia di fortini, bunker, grotte, gallerie, nidi di mitragliatrici, postazioni di mortai e di artiglieria. E più di centomila uomini.

Iceberg.

Lo sbarco vero e proprio( nome in codice Iceberg) è preceduto dalla conquista di alcune isolette poste a ovest di Okinawa. Servono per fornire approdi alla flotta e basi di partenza ai bombardieri. In queste isole, gli esterrefatti  marines scoprono più di trecento piccole imbarcazioni armate con bombe di profondità. Sono battelli suicidi. Il pilota li deve portare a schiantarsi contro le fiancate delle navi nemiche. Ma, fatto ancor più terribile, centinaia di abitanti di Tokashiki, Zamami e Kerama -le isole dello sbarco-, si tolgono la vita all’arrivo degli americani. Spontaneamente? Per ordine delle autorità militari? E’ un’anticipazione di quanto accadrà nei giorni e nei mesi seguenti.
Il 1° aprile, Pasqua del Signore e  L-Day[1] per chi deve sbarcare a Okinawa, dopo sette giorni di violentissimi bombardamenti navali e aerei, unità di marines e dell’esercito cominciano a prendere terra nella parte occidentale dell’isola. La reazione è quasi inesistente. Gli ufficiali si chiedono dove sia finito il nemico o, come l’ammiraglio Richmond K. Turner, se addirittura ci sia il nemico. Contemporaneamente, la Seconda divisione marines finge uno sbarco a Manotoga( o Minatoga) nella parte sudorientale  per tenere bloccate le riserve giapponesi.
I primi obiettivi vengono raggiunti quasi senza colpo ferire. Una parte della forza da sbarco  principale piega a nord, l’altra a sud.  E a questo punto i combattimenti si fanno accaniti. Nella parte settentrionale dell’isola,  la penisola di Motobu  e l’isoletta di Ie Jima  vengono conquistate dopo duri scontri; nella parte meridionale, la resistenza si fa più intensa a mano a mano che i marines e i GI si avvicinano alla linea Machinato. Nello stesso tempo, aerei kamikaze si lanciano sulla flotta affondando un paio di cacciatorpediniere e alcune unità minori. Gli attacchi suicidi continueranno per l’intera durata della campagna, raggiungendo quasi le duemila missioni. Gli americani perderanno trentasei navi – in gran parte cacciatorpediniere in funzione di picchetto radar-  e ne avranno trecentosessantotto danneggiate. Entra in partita anche la corazzata Yamato. Nelle intenzioni dello Stato Maggiore Imperiale essa dovrebbe raggiungere Okinawa, attirare al largo le portaerei nemiche, posizionarsi infine davanti alle spiagge e fungere da superbatteria costiera. Ma la Yamato viene avvistata quasi subito e mandata a fondo-insieme ai suoi 3.500 uomini di equipaggio- dai bombardieri e dagli aerosiluranti americani .

La linea Machinato  è incentrata intorno a un crinale, il Kakazu Ridge, contro il quale si infrangono gli assalti frontali dei marines e dei soldati dell’esercito. E’ una posizione formidabile, ma il comandante in capo, il generale Mitsuru Ushijima, anziché restare sulla difensiva, cede alle pressioni del suo capo di Stato Maggiore, generale Isamu Cho e lancia un contrattacco, giocandosi il vantaggio di cui gode. Il 19 aprile il crinale è conquistato. La Trentaduesima armata si ritira allora dietro una seconda linea difensiva intorno alla città di Shuri, l’antica capitale dell’isola. Dopo feroci combattimenti durati settimane intorno al “Pan di Zucchero” ( Sugar Loaf), alla Conical Hill e alla Chocolate Drop Hill, cardini della linea Shuri, i giapponesi, fallito un altro contrattacco, abbandonano le posizioni e arretrano nella zona dello Yaeju Dake Escarpment.
Il 21 giugno, dopo altri combattimenti sanguinosissimi, l’isola viene dichiarata sicura.[2] Fra i più di dodicimila caduti americani c’è anche il comandante delle forze di terra,  generale Simon Bolivar Buckner Jr , colpito da una granata il 18 giugno durante un’ispezione al campo di battaglia. I giapponesi contano più di centomila morti, compresi gli ufficiali comandanti Ushijima e Cho suicidatisi il 22 giugno. Centocinquantamila fra uomini donne e bambini – un quarto della popolazione civile-  perdono la vita sotto le bombe, all’interno delle grotte o gettandosi dalle alture.

Una ferita aperta.

The butcher’s bill, il conto del macellaio, ha tenuto aperta a lungo la ferita di Okinawa. Ha posto numerosi interrogativi, sollevato questioni sul piano politico e su quello militare; nell’immediato e a distanza di tempo. Alla luce di quanto accadde dopo, la battaglia sembrò un inutile spreco di vite umane.
L’ammiraglio Nimitz, a caldo, considerò positivamente la tattica adottata a Okinawa, ma altri, in seguito, non fecero altrettanto. Non misero in discussione l’organizzazione e la preparazione del piano, ma la sua realizzazione. Perché la forza del nemico fu sottostimata? Perché si continuò troppo a lungo ad attaccare la linea Shuri frontalmente? Perché quando le cose cominciarono a mettersi male non fu presa in considerazione la possibilità di uno sbarco in forze a Manotoga, in modo da aggirare le difese intorno all’antica capitale? Perché fu quasi del tutto ignorata la lezione di Iwo Jima dove la superiore potenza di fuoco americana era stata resa meno efficace dal sistema difensivo giapponese e dove era stata opposta una scarsa resistenza sulle spiagge? Perché il piano tattico non fu cambiato?  Fu il timore di incorrere in “una nuova Anzio” ( Buckner) a fermare un secondo sbarco o non fu piuttosto la mancanza di flessibilità degli alti comandi? Furono le rocce coralline di Manotoga a scoraggiare l’aggiramento o non fu piuttosto una perdurante cecità tattica e un’ostinata fiducia  nella superiorità  di fuoco?
In effetti, gli analisti militari si aspettavano una forte resistenza al momento dello sbarco e assalti disperati alla baionetta. E avevano predisposto le opportune contromisure per avere ragione dell’una e degli altri. Le cose però andarono diversamente. Come a Iwo Jima, i giapponesi non contrastarono se non blandamente gli sbarchi, non si lanciarono, urlando lunga vita all’imperatore(Banzai!), in attacchi dissennati e folli, ma  si rintanarono dietro un formidabile sistema difensivo  cambiando di fatto le carte in tavola.  E tuttavia il piano  americano non fu modificato se non quando ormai migliaia di marines e di GI erano caduti in battaglia. Si continuò a lungo ad attaccare frontalmente i bunker e le caverne giapponesi fidando sulla superiore potenza di fuoco anche quando il maltempo limitava i movimenti di uomini e mezzi penalizzando gli attaccanti, favorendo i difensori.

Quella di Okinawa non era una battaglia come le altre. I combattimenti non finivano quando venivano conquistati una cresta,  un crinale o una posizione più o meno fortificata. Lo scopo dei difensori non era quello di tenere le posizioni: lo scopo dei difensori era quello di uccidere. Gli americani non lo capirono subito, ma quando lo capirono fecero lo stesso. Così ogni piccola conquista, ogni minimo progresso vennero pagati duramente. Da una parte e dall’altra. Fu un vero e proprio bagno di sangue. Certo, anche a Okinawa come a Iwo Jima un valore non comune divenne comune virtù, ma se la linea Shuri fosse stata aggirata per tempo come qualcuno chiedeva, molti giovani valorosi non sarebbero morti. O almeno questo è il parere di storici autorevoli.

I fiori di ciliegio.

Quella di Okinawa fu una battaglia diversa dalle altre anche perché entrarono in gioco due variabili in precedenza assenti o presenti solo in parte: la popolazione civile e gli attacchi suicidi. A Iwo Jima la popolazione civile non c’era; in altre zone di operazione- nelle Filippine, ad esempio- se ne conoscevano in anticipo gli orientamenti. I marines, in altri termini, sapevano ancor prima di sbarcare se la popolazione sarebbe stata favorevole, ostile o indifferente. Ma come si sarebbero comportati i quasi seicentomila abitanti di Okinawa? Avrebbero collaborato con i giapponesi o, per via delle antiche ruggini, li avrebbero avversati? Avrebbero combattuto al loro fianco o si sarebbero tenuti in disparte? Militari e civili “sarebbero vissuti e morti insieme” o qualcuno avrebbe disobbedito? Questo i marines non lo sapevano.
Al seguito delle divisioni americane viaggiavano camion carichi di viveri e di medicine destinati alla popolazione dell’isola. Per gli americani, dunque, i civili non erano a priori nemici. Ma la maggior parte di quei civili viveva nel terrore di cadere nelle mani dei marines “ mangiatori di bambini”, diavoli senza morale, stupratori e torturatori. Complici la propaganda e la convinzione che morire per l’imperatore fosse la più grande delle virtù e un dovere sacro, molti consideravano preferibile togliersi la vita piuttosto che cadere nelle mani degli americani.  Giovani e meno giovani furono inquadrati in una specie di milizia ausiliaria e combatterono, per amore o per forza, a fianco dell’esercito giapponese. E le donne e i bambini? Fuggirono e si nascosero. Forse non potevano fare altro. Ma, chi si nascose, condivise, come vedremo, la sorte dei combattenti.

Anche la seconda variabile- i kamikaze- in un qualche modo contribuì a determinare la sorte dei civili di Okinawa. I kamikaze, come sappiamo, erano piloti suicidi, versione moderna di quel “vento divino” contro il quale si  era infranta nel XIII secolo la potenza mongola di Kublai Khan.  Impossibilitato a reggere il confronto con la superiore tecnologia americana, a corto di carburante, di piloti addestrati e di aerei moderni, a corto di tempo, il Giappone fece ricorso a qualcosa di impensabile nel mondo occidentale, perfino nella Germania nazista o nella Russia sovietica: fece del suicidio un’arma e una religione,  contrappose alla tecnologia la vita dei propri aviatori, al napalm  le proprie bombe umane.
Bombe, a ben vedere, come scrive Victor D. Hanson,  forse più “ intelligenti” dei primi missili di allora. Un pilota lanciato in picchiata contro un bersaglio può sempre correggere la rotta adeguandola a quanto accade sotto di lui;  la direzione di un missile, invece, il più delle volte non poteva essere modificata in volo. Uno Zero con una bomba di 225 chili guidato da un pilota suicida diventava così un’arma perfetta. Come fa notare ancora Hanson, non c’era bisogno di rifornire l’aereo di carburante per l’andata e per il ritorno, di cercare una pista su cui farlo atterrare o di recuperare il pilota se abbattuto. Quello dei kamikaze era un viaggio di sola andata. E anche un aereo vecchio, lento e sorpassato poteva benissimo servire allo scopo.
E che dire dell’Okha, il “ fiore di ciliegio esplosivo”? L’Okha era una sorta di V1 in miniatura, una bomba volante pilotata da un “ dio del tuono”. Costruita con materiali poveri( legno e metallo di bassa qualità), lunga circa sei metri e armata di una tonnellata di tritolo, essa veniva trasportata da bombardieri Betty fin sopra l’obiettivo e quindi sganciata. Il pilota- il ” dio del tuono”, appunto- aveva il compito di dirigerla verso il bersaglio. Che raramente veniva centrato, perché il difetto stava nel manico, come si dice: i Betty volavano a meno di trecento chilometri l’ora- una velocità ridicola- e venivano abbattuti prima ancora di arrivare sull’obiettivo. Per i marines le bombe Okha  divennero ben presto bombe Baka, bombe “idiote”.

I primi kamikaze avevano fatto la loro comparsa durante la campagna di Guadalcanal( 1942-43) e, in misura maggiore, durante le battaglie navali per le Filippine, in particolare durante la battaglia di Leyte( ottobre 1944). Ma si era trattato di fatti episodici, non ancora di una tattica sistematica. A Okinawa i kamikaze apparvero per la prima volta il 6 aprile. Erano tanti e picchiarono duro. Alcune navi furono affondate, numerose altre furono  danneggiate.
Al di là dei danni – e non furono pochi-  inferti dai kamikaze durante l’intera campagna, al di là delle perdite- e non furono poche- causate dal “vento divino”, gli attacchi suicidi  ebbero ripercussioni anche sui combattenti a terra e, di riflesso, sulla popolazione. Con l’intensificarsi degli attacchi kamikaze alla flotta, anche fra i marines e i GI la tensione aumentò. Correva voce che uomini, donne persino bambini avessero già provato a farsi saltare in aria vicino a un ponte, a una pattuglia o a un’installazione militare.  Si trattava di episodi isolati o di tattica sistematica? Il dubbio era legittimo. I marines e i GI di Okinawa si trovarono così a vivere in anticipo il drammatico dilemma di chi, anni dopo, avrebbe combattuto in Vietnam o in Afganistan: quella donna dall’aria smarrita, quel vecchio dall’espressione rassegnata, persino quel bambino piangente  implorano aiuto o sono imbottiti di bombe? Sono civili terrorizzati o terroristi fanatici? Se la vita non conta più niente, infatti, tutto è possibile. E poi – ragionavano i marines – se i giapponesi stessi non  hanno rispetto per la propria vita, dobbiamo averne noi?
E così chi veniva trovato con addosso granate veniva immediatamente passato per le armi. Né avevano possibilità di scampo i civili rintanati  nelle caverne e nelle grotte. A volte i fanti giapponesi li cacciavano dai rifugi esponendoli al terrificante fuoco dei mortai e delle armi automatiche; altre volte li accoglievano nella speranza- vana-  di poter in questo modo evitare di essere attaccati, altre volte ancora facevano loro posto all’interno dei rifugi perché i civili e i soldati dovevano “combattere e morire insieme”.
Quando arrivavano nelle vicinanze di una grotta, di una caverna, di un bunker, i soldati americani non si preoccupavano di sapere se all’interno ci fossero militari o civili. Intimavano agli occupanti di uscire e se nessuno lo faceva lanciavano granate all’interno del rifugio o, più spesso, vi pompavano benzina alla quale appiccavano il fuoco. Numerosi soldati giapponesi morirono bruciati vivi o dilaniati dalle bombe a mano. E molti civili con loro. Come quelle ottantacinque studentesse impiegate come infermiere di guerra e carbonizzate nella caverna dove si erano rifugiate. Né furono le sole: un po’ dovunque all’avvicinarsi dei marines le madri si lanciarono coi figlioletti giù dalle scogliere, gli uomini si fecero saltare in aria, le sorelle strangolarono i fratelli, i padri i figli. Nell’isola di Zamami, alla fine di marzo, a ridosso del “ Giorno dell’Amore”, si fece ricorso anche al veleno per topi.
In parte sappiamo perché tutto questo accadde. Ma  si trattò di scelta spontanea o di scelta imposta? Fu un libero atto di fedeltà all’imperatore o  ci fu costrizione da parte degli ufficiali? Di certo c’è questo: Okinawa doveva essere uno spaventoso ammonimento per chi coltivava l’idea dell’invasione. Una volta messo piede sul sacro suolo giapponese, l’invasore avrebbe trovato in ogni uomo, in ogni vecchio, in ogni donna, in ogni bambino  un soldato pronto a uccidere prima di essere ucciso.

E i marines e i GI  americani? Combattevano quella guerra sporca senza esclusione di colpi e, in apparenza, senza remore morali. Mai come a Okinawa si doveva uccidere per non essere uccisi. Era l’atroce legge della guerra, il volto brutale della battaglia, di quella battaglia dove, col passare dei giorni, in sanguinosi corpo a corpo e fra difficoltà di ogni genere, “un valore non comune” si faceva “comune virtù”. Ma, fra loro, ci fu anche chi si macchiò di stupri e di violenze. Gli alti comandi misero tutto a tacere, negarono e continuarono a negare, fino a quando numerose testimonianze  fecero emergere il contrario. In quei giorni, per chi si consegnò ai vincitori, per chi non poté o non volle suicidarsi, gli americani assunsero le sembianze per niente diaboliche di chi – medici e furieri- dava loro cibo e medicine. Ma non dappertutto, purtroppo, andò così. Da qualche parte qualcuno si imbatté davvero nel diavolo.

I fiori di fuoco.

La battaglia di Okinawa terminò intorno alla fine di giugno. Poco più di un mese dopo, due bombe atomiche furono sganciate sulle città di Hiroshima e Nagasaki. Che nesso c’è – se c’è- fra i due avvenimenti? Okinawa aveva sicuramente dimostrato quanto costosa potesse essere, in termini di vite umane, un’invasione del Giappone. L’invasione, tuttavia, non era la sola opzione sul tavolo degli analisti militari americani e ancor meno lo era la bomba atomica. Il generale Curtis “Culo di Ferro” LeMay, capo dell’aviazione strategica, aveva già fornito un’anticipazione degli effetti spaventosi di un bombardamento a tappeto indiscriminato condotto con ordigni incendiari. Nei mesi precedenti Hiroshima, i B29 di LeMay avevano ridotto in cenere intere città giapponesi e ucciso  centinaia di migliaia di civili ben più di quanti sarebbero periti a Hiroshima. Gli obiettivi adesso non erano più le fabbriche, le installazioni militari, le industrie: gli obiettivi, adesso, erano le città in quanto centri abitati, non in quanto centri di produzione bellica. Tuttavia, i raid aerei, tesi a fiaccare il morale della popolazione e costringere il Giappone a cedere,  avevano due limiti.
Il primo era il rifiuto del governo giapponese alla resa incondizionata, il secondo era il tempo. Il primo limite non poneva problemi  insormontabili. I giapponesi non temevano tanto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, quanto l’Unione Sovietica. Con le prime avrebbero potuto- per certi versi, dovuto – dialogare in vista delle futura ricostruzione; con la seconda stavano combattendo una guerra il cui esito  avrebbe potuto portare, in Giappone, a un rivolgimento politico e sociale in senso comunista. Il governo chiedeva rassicurazioni circa il destino e la sorte dell’imperatore come persona e come istituzione: se le avesse ottenute, avrebbe potuto riconsiderare la questione della resa.

Il secondo limite poneva problemi di più difficile soluzione. La campagna di bombardamenti a tappeto sarebbe stata lunga e devastante. Per quanto tempo una simile campagna avrebbe potuto essere giustificata davanti all’opinione pubblica mondiale? Per quanto tempo lo spaventoso numero di vittime innocenti sarebbe stato tollerato? D’altro canto, si poteva correre il rischio di perdere un milione di uomini (tale era la stima- esagerata- del generale MacArthur) per realizzare Downfall, l’invasione del Giappone? Dunque gli americani , se volevano farla finita col Giappone, dovevano scegliere fra vite umane e tempo.
Scelsero le prime.
Ma, memori della lezione di Okinawa, non quelle dei propri soldati.

Epilogo.

Nel 2005  lo scrittore giapponese Oe Kenzaburo , premio Nobel per la letteratura nel 1994, fu citato in tribunale da un ufficiale novantunenne reduce dalla battaglia per Okinawa e dai familiari di un altro ufficiale giapponese scomparso nel frattempo. Gli venivano contestate alcune affermazioni contenute nel suo saggio Note di Okinawa, lesive dell’onore dell’esercito in generale e dei due ufficiali in particolare. Secondo Oe, infatti, erano stati i militari a “ordinare” i suicidi di massa durante la battaglia.
La Corte lo assolse. Esistono fondati motivi, scrisse nella sentenza il giudice, per ritenere i militari- anche se non i due accusatori in particolare- responsabili di tali atrocità. Una riprova? Nelle zone libere dalla presenza di soldati, i suicidi non ebbero luogo.  Durante il processo, un sopravvissuto, il settantottenne Shigeaki Kinjo, dichiarò: “ I soldati consegnarono le bombe a mano ai civili una settimana prima che gli americani sbarcassero. Tutti gli abitanti avevano l’ordine di raggrupparsi vicino ai centri di comando dell’esercito in attesa che venisse loro imposto di suicidarsi.” E concluse: “ Senza una precisa disposizione degli ufficiali non ci sarebbe stata alcuna mattanza.”
La battaglia di Okinawa non è ancora finita.

Da leggere:

Hanson W. Baldwin , Tarawa, lo sbarco in Normandia, la battaglia delle Ardenne, Okinawa: battaglie vinte e perdute: 1943-1945 , A. Mondadori, 1972.
George Feiffer, Okinawa the blood and the bomb, Lyon Press, 1992
Simon Foster , Okinawa : 1945: l’ultima battaglia, Oscar Mondadori, 2002
Benis M. Frank , Okinawa l’ultima battaglia, Albertelli, 1971.
Victor Davis Hanson , Il volto brutale della guerra : Okinawa, Shiloh e Delio: tre battaglie all’ultimo sangue, Garzanti, 2005
Martin Gilbert, La grande storia della Seconda Guerra Mondiale, Mondadori, Oscar Storia, 2003
Inogouchi e Nakajima, Vento divino, Longanesi, 2002
John Keegan, La seconda guerra mondiale: una storia militare, Rizzoli, Bur, 2003
Robert Leckie, Okinawa, the last battle of World War II, Penguin paperbacks, 1996
William Manchester, Tenebre addio. Memorie della Guerra del Pacifico, Mondadori, 1982.

Da vedere:

Hacksaw Ridge, di Mel Gibson, 2016

Contatti

Una descrizione accurata della battaglia di Okinawa si trova(va) su questo sito : Pacific War (Da Main Menu si sceglie(va) Pacific >Okinawa > The battle animation . Una volta all’interno dell’animazione, si usa(va)no gli appositi pulsanti per visualizzare le varie fasi della battaglia). 
Se , impiegando le parentesi, trasformo il presente indicativo in imperfetto è perché il sito sembra al momento irraggiungibile( non lo era quando il post è stato pubblicato). Aprendo la pagina, compare la seguente scritta: “Biz179. inmotionhosting,com. Your ip is… Segue al centro pagina il logo di inmotionhosting.  Da Edge viene segnalato  addirittura come sito non sicuro. Il che mi sembra strano. Speriamo sia rispristinato al più presto. Per il momento meglio tenersi alla larga.

Qui si può prendere visione di un interessante ed esaustivo articolo sulle fasi finali della guerra nel Pacifico, sulle perdite da una parte e dall’altra, sui piani di invasione del Giappone e sulle ragioni che portarono all’impiego della bomba atomica.

Notizie relative agli altri avvenimenti della guerra nel Pacifico si trovano, oltre che sul sito Pacific war , anche nei seguenti post:

Cinque minuti. Midway 1942: la vittoria ” impossibile”.
Clicca qui per leggere l’articolo.

Due gru e una Signora La ” gru Che Vola”, la “Gru Che Porta Felicità” e “Lady Lex” accomunate dallo stesso destino  nel Mar dei Coralli(1942).
Clicca qui per leggere l’articolo.

Inferno verde Guadalcanal 1942-43: sei mesi all’inferno.
Clicca qui per leggere l’articolo.

Il sasso della fionda Golfo di Leyte, Filippine, ottobre 1944. Il Golia giapponese  sembra quasi invincibile, ma il Davide americano arma la propria fionda…
Clicca qui per leggere l’articolo

Sangue e cenere A Iwo Jima, “l’isola dello zolfo”,  in trentasei giorni cadono settemila marines. Quasi duecento al giorno.
Clicca qui per leggere l’articolo.

Mappa della battaglia:

Mappa della battaglia di Okinawa. Fonte:japanfocus.org/-Aniya-Masaaki/2629

Mappa della battaglia di Okinawa. Fonte:japanfocus.org/-Aniya-Masaaki/2629


[1] L-Day sta per Love Day, nome decisamente fuori luogo alla luce di quanto accadrà in seguito.

[2] La conferma definitiva arriverà soltanto il 2 luglio.
 

 
 


Sangue e cenere

07/02/2013

Iwo Jima bandiera  americana sul  Suribachi

Prologo.

La voce inconfondibile di Johnny Cash ci conduce nel vivo di una storia: quella di un giovane indiano Pima  e dell’acqua dei fossi della  riserva in cui vive, in Arizona, Stati Uniti d’America. Quell’acqua  fa germogliare le messi,  dà da vivere. Poi un giorno se la prendono gli uomini bianchi. Dove prima crescevano i raccolti ora si vedono solo erbacce. Il giovane Pima lascia la riserva e si arruola nel corpo dei marines.
Il suo nome è Ira Hamilton  Hayes.

L’ eretico.

In prossimità delle uscite dalle spiagge dello sbarco, su un terreno infame, insidioso e friabile, intere compagnie di marines sono sotto il fuoco incrociato dei giapponesi. Avvolti dal fumo delle esplosioni e dall’acre odore dello zolfo e della cordite, inchiodati a terra dietro ripari precari o improvvisati, privi dell’appoggio dei carri bloccati dalla cenere vulcanica, i giovanissimi marines, impossibilitati a muoversi, cadono a centinaia. Nessuno si immaginava una situazione del genere, nessuno si aspettava di trovare a Iwo Jima-  “l’isola dello zolfo” per i giapponesi, “una braciola di maiale bruciata”[1] per gli americani- un vero e proprio inferno, un ostacolo dietro l’altro, un bunker dietro l’altro. Dirà il generale Holland Smith, comandante della forza anfibia: “Ignoro chi sia il bastardo che sta mettendo in scena  questo spettacolo, ma chiunque  sia, sa il fatto suo.”[2]
Il “bastardo” in questione è un generale giapponese: si chiama Tadamichi Kuribayashi.

Il tenente generale Tadamichi Kuribayashi è a Iwo Jima dal maggio 1944.  E’ un uomo sensibile e colto, scrive poesie, ama disegnare. Ha viaggiato all’estero, ha soggiornato negli Stati Uniti – l’ ”ultimo Paese che il Giappone dovrebbe attaccare”, come scrisse una volta alla moglie-  ne ha ammirato la cultura e capito le potenzialità. Ma è un soldato. Un soldato giapponese in guerra. Novello Leonida, sa di essere destinato  alla sconfitta, ma il suo onore gli impone di lottare fino all’ultimo.  Perché  Iwo Jima è territorio giapponese. E la patria è sacra. Se qualcuno dovesse invaderla, ogni suo metro, ogni suo centimetro di terreno saranno difesi fino  all’ultimo uomo. Gli americani devono saperlo. Per loro, Iwo Jima deve essere un terribile ammonimento. Se perdono mille uomini per conquistare quell’isoletta, quanti ne perderanno una volta messo piede sul sacro suolo di Honshu e di Hokkaido ? Diecimila? Centomila? Un milione?
Kuribayashi non è dunque a Iwo Jima per vincere, ma per causare più perdite possibili agli americani;  non è lì per sconfiggere il nemico, ma per scoraggiarlo dall’invadere il suo Paese.  Il dovere gli impone di difendere l’isola, l’onore gli impone di farlo fino all’estremo, inevitabile, sacrificio. Fanatico o novello samurai?
Sia come sia, Kuribayashi sa che cosa fare. Appena arrivato sull’isola e fatta evacuare la popolazione civile, va controcorrente e  adotta soluzioni “eretiche”: niente difese in prossimità delle spiagge, ma una rete di posizioni fortificate collegate le une alle altre e in grado di sostenersi reciprocamente; niente attacchi all’arma bianca ( i cosiddetti attacchi Banzai), ma fuoco incrociato da bunker e da casematte interrate. A Iwo Jima, ventunomila soldati giapponesi spariscono sottoterra. Letteralmente.
E sottoterra si intrecciano chilometri e chilometri di gallerie; sottoterra vengono allestiti ospedali da campo, depositi di viveri e di munizioni, centri di comando. La ricognizione aerea americana individua soltanto la parte superficiale di questo complesso sistema difensivo e alimenta la falsa illusione di una facile vittoria. Quattro giorni al massimo è la previsione degli ottimisti, una decina di giorni quella dei  pessimisti.
Ce ne vorranno trentasei.

Il Distacco.

Ma perché tanto interesse per Iwo Jima? Perché tanta attenzione a quei venti chilometri quadrati di roccia dura e polverosa dove l’acqua potabile manca del tutto? A quel minuscolo granello di pomice vulcanica perennemente avvolto nell’odore fetido dello zolfo e sperduto nell’oceano? Perché l’isola si trova sulla rotta dei B29 diretti dalle Marianne  in Giappone, ecco perché. Dai due aeroporti di Iwo Jima, i bombardieri e gli Zero si alzano per colpire la vicina Saipan; dai centri di osservazione dell’isola partono in continuazione messaggi verso la madrepatria  e verso le batterie antiaeree costiere. Che hanno così tutto il tempo per preparare le opportune contromisure.
Se Iwo Jima fosse in mano americana, la situazione cambierebbe. I bombardieri strategici B29 potrebbero essere scortati dai caccia  a lungo raggio; le piste di Saipan non sarebbero costantemente sotto minaccia; gli americani disporrebbero di una base in più per colpire il Giappone; gli aeroporti dell’isola offrirebbero un approdo sicuro ai velivoli danneggiati di ritorno dalle missioni.  Perché allora non provarci? Il tempo e le risorse ci sono: la campagna delle Filippine, fortemente voluta dal generale MacArthur, è durata meno del previsto, rendendo disponibili uomini e mezzi. Sì, si può fare; anzi, si deve fare. Anche perché Okinawa e Formosa – le altre alternative- sembrano a tutta prima ossi ben più duri di Iwo Jima.

L’operazione Detachment( Distacco, Separazione), tuttavia, comincia male. Due mesi di bombardamenti continui dal cielo hanno causato solo danni superficiali al sistema difensivo dell’isola, anche se gli americani, ignorando l’estensione sotterranea delle fortificazioni giapponesi, sono convinti del contrario e ostentano ottimismo. Soprattutto dopo che, sfruttando  l’unico errore tattico di Kuribayashi[3],  sono riusciti a mettere fuori uso i cannoni di un’altura fortificata, lo Stone Quarry, posta sul fianco destro dello schieramento e in grado di prendere d’infilata le spiagge.
Ma c’è anche dell’altro.
Alla vigilia dello sbarco, previsto per il 19 febbraio, i comandanti dei marines chiedono dieci giorni di fuoco navale di preparazione e ne ottengono solo tre. E, complice il maltempo, neppure pieni. Dal canto loro, i sommozzatori mandati a terra a dare un’occhiata avvertono: attenzione: le onde si infrangono direttamente sulle spiagge, la risacca è forte, il terreno friabile e insidioso. Non sarà questo a fermarci, è la risposta: possiamo mettere a terra novantamila uomini. Quanti potranno averne i giapponesi? Diecimila? Dodicimila? Certo, non tutto, all’inizio, filerà liscio, ma , con una superiorità di nove a uno a terra  e il controllo completo dell’aria, sapremo superare le difficoltà in breve tempo.
Le zone dello sbarco, infine. Non che ci sia molto da scegliere. Vista la conformazione dell’isola, solo la parte sudorientale offre approdi relativamente agevoli. E  lì, nella parte sudorientale di Iwo Jima, Kuribayashi ha fatto minare tutte le uscite delle spiagge, ha riempito il Suribachi- un’altura di un centinaio di metri sovrastante la zona dello sbarco-  di tunnel e di bunker, ha scaglionato tre linee di difese interrate attorno agli aeroporti, ha ordinato di impiegare l’artiglieria antiaerea contro le fanterie.
Tutto è pronto, si tratta solo di aspettare. E di morire combattendo.

Due bandiere.

Il 19 febbraio, D-Day,  è una giornata serena e limpida. Protetti da un fuoco di sbarramento impressionante, i mezzi da sbarco si avvicinano alle spiagge di Iwo Jima.  A bordo c’è chi scherza ( “ Ma ce ne lasceranno qualcuno per noi?”), chi prega, chi aspetta, teso e in silenzio, il momento di toccare terra[4].
Ogni unità conosce i propri obiettivi. Il 28.mo reggimento marines deve agire sul fianco sinistro dello schieramento e mettere in sicurezza il Suribachi; il 25.mo deve operare sul fianco destro per neutralizzare lo Stone Quarry; gli altri reggimenti,il 27.mo e il 23.mo, devono procedere verso il centro dell’isola e impossessarsi dei due aeroporti giapponesi ( Motoyama 1 e 2 ).
Le spiagge non sono minate, la resistenza è praticamente assente. Intorno alle nove del mattino, i fanti di marina prendono terra quasi senza colpo ferire.  Sono ragazzi di diciotto, diciannove anni, forse inesperti, ma bene armati, addestrati, decisi. Le avanguardie  si muovono verso le uscite delle spiagge mentre dietro di esse, ondata dopo ondata, si succedono gli sbarchi.
Ma i guai cominciano subito. Terrapieni di soffice cenere vulcanica alti quattro, cinque metri offrono scarsa presa e limitano i movimenti di uomini e mezzi. I Seabees [5] allora stendono sul terreno reti di acciaio per permettere ai carri e ai mezzi pesanti di muoversi speditamente. Ma il sistema va presto in tilt, le reti non reggono tutto quel movimento e tutto quel peso e i carri si bloccano. I campi minati allestiti da Kuribayashi all’uscita delle spiagge fanno il resto.
La confusione e l’affollamento aumentano, gli sbarchi vengono temporaneamente sospesi, entrano in azione i primi bulldozer. Ma entra in azione anche Kuribayashi. Aveva detto: aspettiamoli fuori dalle spiagge; ma adesso, su quelle spiagge affollate oltre misura, il generale vede l’occasione per infliggere gravi perdite al nemico. E ordina di aprire il fuoco. Talmente intenso che chi avesse voluto avrebbe potuto accendersi una sigaretta senza ricorrere ai fiammiferi, come avrà modo di affermare un ufficiale americano.
A Green Beach le condizioni del terreno sono migliori e il 28.mo può iniziare la manovra per isolare il Suribachi. La resistenza però è accanita, il tempo è cattivo, la cenere vulcanica si trasforma in una poltiglia vischiosa, si avanza lentamente, le perdite sono elevate. Come intorno al Quarry, del resto. Dove il terzo battaglione del 25.mo reggimento è sceso letteralmente all’inferno. Solo il primo giorno lascerà sul terreno ventidue ufficiali e cinquecento uomini di truppa. Un ufficiale commenterà: “ Speriamo che i giapponesi non ne abbiano altri come quello.”
“Quello”, inutile dirlo, è il generale Kuribayashi.

I primi Sherman e le prime unità dotate di  artiglieria riescono, a fatica, a lasciare le spiagge e a spingersi verso l’interno. Ma il loro è un procedere lento, ostacolato dai campi minati e dal fuoco  incrociato del nemico. Le gallerie sotterranee consentono ai giapponesi di spostarsi da una posizione all’altra. Sbucano dai bunker appena “ ripuliti” e prendono alle spalle i marines. E’ come vivere “un incubo all’inferno”. Dappertutto esplosioni, fumo, polvere, gambe e braccia staccate dai corpi. E cadaveri. Orrendamente mutilati, sfigurati, irriconoscibili e identificabili come giapponesi o americani solo dalla stoffa dei pantaloni dell’uniforme.
Nonostante gli attacchi aerei, nonostante i bombardamenti navali, il sistema difensivo giapponese si dimostra solidissimo. Di notte gli uomini di Kuribayashi escono dai rifugi e compiono sortite dietro le linee nemiche, di giorno scompaiono sottoterra. Ci vogliono due giorni per raggiungere i primi obiettivi, tre per mettere in sicurezza il Suribachi.
Alle dieci del mattino del 23 febbraio, i marines di un plotone di esploratori issano la bandiera a stelle e strisce sulla sommità del monte. A bordo di una delle navi della flotta, un ospite d’eccezione , il ministro della Marina James Forrestal, lo viene a sapere. Vuole quella bandiera.  Ma il comandante del battaglione non ha alcuna intenzione di cedergliela. E così spedisce sulla sommità del Suribachi un altro gruppo di soldati con una seconda bandiera, perché replichino l’evento a uso e consumo del ministro.  Il fotografo dell’Associated Press  Joe Rosenthal, salito anch’egli sull’altura, inquadra nell’obiettivo della sua macchina fotografica gli uomini nel momento di alzare l’Old Glory e scatta l’istantanea destinata a diventare  celeberrima.
Il primo a sinistra è l’indiano Pima Ira Hamilton Hayes.

L’ultimo assalto.

La vista della bandiera sul Suribachi risolleva il morale delle truppe, ma la battaglia non è affatto finita. Gli americani stentano a trovare il bandolo della matassa. Preparati ad affrontare attacchi Banzai, non sanno come attaccare i bunker e le casematte se non con costosissimi scontri corpo a corpo. Dispongono, in teoria, di un volume di fuoco spaventoso, ma tutta quella potenza è inefficace contro un nemico ben trincerato, sfuggente, determinato e deciso a combattere fino alla morte. Ci vorrebbero i carri lanciafiamme, ma i carri –pochi, per giunta- tardano ad arrivare; ci vorrebbe più appoggio aereo, ma Spruance manda le sue portaerei di squadra e gli aerei imbarcati a compiere incursioni sul Giappone; bisognerebbe aggirare le posizioni nemiche sbarcando sul lato occidentale dell’isola, ma chi prova a dirlo viene messo subito a tacere. Gli assalti frontali si succedono così agli assalti frontali, le perdite aumentano, i progressi sono minimi. Per rinforzare l’attacco, il generale Smith fa sbarcare la Terza Divisione Marines. Anche sul mare le cose vanno male. Il 21 febbraio, due giorni dopo lo sbarco, aerei kamikaze attaccano la flotta affondando la portaerei Bismark Sea, danneggiando la Saratoga e altre unità minori.
I B24 provenienti da Saipan martellano ogni giorno le posizioni giapponesi, ma con scarsi risultati. Più efficaci si rivelano le squadriglie di Mustang P-51 del colonnello McGee: decollano da Motoyama 1 –catturato il 20 febbraio – colpiscono le rocce e le scogliere poste sui fianchi dei marines in avanzata scoperchiando a volte i tunnel  o bloccandone le uscite.
Intorno a due modeste alture, quota 360( Hill Peter, la collina di Pietro)  e quota 382 ( the Meatgrinder, il tritacarne) si accendono combattimenti spaventosi. Quelle alture costituiscono i perni del sistema difensivo principale allestito da Kuribayashi.  E da quella linea, i giapponesi non hanno alcuna intenzione di ritirarsi. Solo a costo di sforzi sovrumani, i marines riescono, lentamente, a progredire, occupando le colline insanguinate e tagliando in due l’isola. Un po’ avventatamente, l’ammiraglio Nimitz  la dichiara sicura il 16 marzo. Ma si continua a combattere. Il 25 marzo Kuribayashi stacca dalla propria uniforme gradi e mostrine e, soldato fra i soldati, guida l’ultimo attacco banzai nei dintorni dell’aeroporto Motoyama 2. Il suo corpo non  sarà mai ritrovato.
Il 26 marzo l’isola viene dichiarata definitivamente  sicura. Due soldati  giapponesi, Yamakage Kufuku e Matsudo Linsoki, resteranno nascosti nelle gallerie e si “arrenderanno” sei anni più tardi, nel 1951.
Subito dopo la battaglia, l’ammiraglio Nimitz parlò di valore non comune fattosi comune virtù (uncommon valor was a common virtue). Ma il sangue versato a Iwo Jima (quasi settemila marines morti e quattordicimila feriti) suscitò molti interrogativi. I risultati ottenuti valevano davvero un prezzo così alto? Perché non erano stati concessi i dieci giorni di bombardamento navale chiesti dai marines? Perché sempre e solo attacchi frontali? E via di questo passo.
Di sicuro Iwo Jima e, più tardi in misura maggiore,Okinawa,  furono uno shock per l’opinione pubblica americana e, forse, anche per gli alti comandi . Fu per questo motivo che si rinunciò a invadere il Giappone e si fece ricorso alla bomba atomica?
Qualcuno sostiene di sì.

Epilogo.

Il 25 gennaio del 1955,  in una mattina fredda e grigia, un uomo fu trovato riverso in un fosso. Ubriaco fradicio era affogato in pochi centimetri d’acqua. Il medico legale  parlò di “ fatto accidentale”.
Quell’uomo era Ira Hayes. Celebrato come un eroe, aveva girato l’America in lungo e in largo per promuovere la sottoscrizione di bond di guerra. Alla fine del conflitto era tornato nella sua riserva in Arizona più scontroso e taciturno di prima. Aveva cominciato a bere, prima per disperazione poi per esorcizzare gli incubi di Iwo Jima. Eroe è chi è  morto per conquistare il Suribachi, non io, ripeteva a chi lo gratificava di quell’appellativo.
E’ sepolto nel cimitero di Arlington.

Call him drunken Ira Hayes
He won’t answer anymore
Not the whiskey drinkin’ Indian
Nor the Marine that went to war

………….

Da leggere:

James Bradley con Ron Powers, Flags of our fathers : la battaglia di Iwo Jima,  BUR Storia, 2006

Flavio Fiorani, La guerra del Pacifico,   Giunti, 2000.

Kakehashi Kumiko ,Così triste cadere in battaglia : rapporto di guerra basato sulle lettere da Iwo Jima del generale Tadamichi Kuribayashi, prefazione di Mario Rigoni Stern,  Einaudi, 2007.

Bernard Millot, La guerra del Pacifico , Mondadori, 1972

Richard F. Newcomb, Iwo Jima,  Rizzoli, 1966.

Derrick Wright , Il sangue dei Marines : stelle e strisce sul Suribachi : Iwo Jima, marzo 1945 ,RBA Italia, 2009

Da vedere:

Flags of our fathers, di Clint Eastwood, 2006

Letters from Iwo Jima, di Clint Eastwood, 2006

Il sesto eroe, di Delbert Mann, 1961 con Tony Curtis nella parte di Ira Hayes.

Da ascoltare:

The ballad of Ira Hayes, qui eseguita da Johnny Cash. Ma anche Bob Dylan l’ha proposta.

Su questo sito:

Cinque minuti. Midway 1942: la vittoria ” impossibile”.
Clicca qui per leggere l’articolo.

Due gru e una Signora La ” gru Che Vola”, la “Gru Che Porta Felicità” e “Lady Lex” accomunate dallo stesso destino  nel Mar dei Coralli(1942).
Clicca qui per leggere l’articolo.

Inferno verde Guadalcanal 1942-43: sei mesi all’inferno.
Clicca qui per leggere l’articolo.

<Il sasso della fionda Golfo di Leyte, Filippine, ottobre 1944. Il Golia giapponese  sembra quasi invincibile, ma il Davide americano arma la propria fionda…
Clicca qui per leggere l’articolo

I fiori di fuoco
Okinawa 1945: una strage infinita, errori tattici, “vento divino” e una decisione che sconvolse il mondo.
Clicca qui per leggere l’articolo.


[1] In inglese:  a grey pork chop.

[2]I don’t know who he is, but the Japanese General  running this show is one smart bastard.”

[3] Sullo Stone Quarry, la ricognizione aerea aveva individuato un solo cannone da 150 mm. In realtà, ce n’erano quattro. Tutti rigorosamente silenziosi durante i bombardamenti di preparazione e di “ ammorbidimento” e, quindi, non individuati, ma pronti ad entrare in azione al momento opportuno. Un paio di giorni prima del D-Day, mezzi da sbarco americani(LCI)  impegnati a proteggere le missioni dei sommozzatori, avevano puntato decisamente sulla spiaggia prospiciente il Quarry.  Kuribayashi  aveva pensato si trattasse di uno sbarco vero e proprio e aveva ordinato a tutti e quattro i cannoni  della postazione di aprire il fuoco. Individuatili  a causa di questo fortuito episodio e resisi conto del pericolo, gli americani provvidero a neutralizzarli.

[4] Per lo sbarco erano state individuate sette spiagge. Da ovest verso est: Green Beach(Quinta Divisione, 28.mo marines, primo e secondo battaglione); Red Beach 1(27.mo marines,  secondo battaglione), Red Beach 2 ( 27.mo marines, primo battaglione), Yellow Beach 1 ( 23.mo marines, primo battaglione), Yellow Beach 2 ( 23.mo marines, secondo battaglione), Blue Beach 1 ( 25.mo marines, primo battaglione), Blue Beach 2 ( 25.mo marines, terzo battaglione). Il terzo battaglione destinato a sbarcare a Blue 2 sarà invece fatto sbarcare a Blue 1, subito dopo il primo.

Le spiagge dello sbarco. Da History animated, sito raccomandato

Le spiagge dello sbarco. Da History animated.

[5] Da CB( pronuncia si bi da cui Seabees) , abbreviazione di Construct Battalion.

Sotto il titolo: la celebre foto di Joe Rosenthal ritrae sei soldati americani ( cinque marines: Franklin Sousley, Michael Strank, Harlon Block, Ira Hayes,  René Gagnon e un assistente di sanità della Marina,  John Bradley) mentre issano la seconda bandiera a stelle e strisce sulla sommità del Monte Suribachi a Iwo Jima. Da www.ilpost.it
Sousley, Strank e Block caddero in combattimento; John Bradley  è l’autore di Flags of our Fathers dal quale è stato tratto l’omonimo film di Clint Eastwood.


Il sasso della fionda

12/01/2013

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Prologo.

Lente, male armate, peggio corazzate, tre volte più piccole delle loro sorelle maggiori, con pochi velivoli a bordo, le portaerei adibite al servizio scorta ( escort carriers, CVE), quando incontravano navi da battaglia erano come agnelli davanti ai lupi. Potevano, infatti, proteggere i convogli dagli attacchi dei sommergibili, dare copertura alle truppe da sbarco, ma nulla potevano contro corazzate e incrociatori. E che dire dei loro fratelli minori, i lenti, male armati e leggeri cacciatorpediniere di scorta?
Eppure, quelle “carrette” sorpassate dai tempi e dagli avvenimenti si trovarono a un certo punto nel bel mezzo di una battaglia decisiva. Una battaglia dove le corazzate e gli incrociatori nemici –per non parlare dei cacciatorpediniere- erano più numerosi delle onde sul mare. E loro, le “jeep carriers” e le unità di scorta, fecero tutto il possibile.
Anzi, fecero più del possibile: si batterono non da figli di un dio minore, ma da vere e proprie portaerei, da vere e proprie corazzate.

Il salto della rana.

Dopo Pearl Harbor, l’ammiraglio Ernest King, comandante in capo della flotta aveva delineato, in quattro fasi, la strategia per il settore del Pacifico.  In una prima fase gli Stati Uniti avrebbero dovuto concentrarsi nel contenimento del nemico; in una seconda fase, al contenimento avrebbero potuto fare seguire controffensive limitate; in una terza fase al contenimento avrebbero dovuto fare seguire controffensive di ampia portata; nella quarta fase, infine, il Giappone sarebbe stato contrattaccato con tutte le forze disponibili.  La strategia di King partiva, in sostanza, da una fase puramente difensiva per arrivare a una fase totalmente offensiva, passando per una fase prima difensivo-offensiva e poi offensivo-difensiva.
Dopo Midway ( prima fase), dopo Guadalcanal ( seconda fase), la strategia americana si era tradotta, sul piano operativo, in “un balzo di isola in isola”. L’island hopping o leapfrogging, salto della cavallina ( letteralmente “salto della rana”) come fu definito, consisteva nel colpire i giapponesi là dove essi erano più deboli, occupando le isole scarsamente o per niente difese e tagliando fuori i centri più muniti. Questi ultimi, isolati e impossibilitati a ricevere con continuità rinforzi e rifornimenti, sarebbero lentamente “ appassiti sulla pianta” (Wither on the vine). In questo modo gli Stati Uniti avrebbero contenuto il nemico e nello stesso tempo , passo dopo passo, isola dopo isola, offensiva dopo offensiva, avrebbero portato il Giappone a tiro dei propri bombardieri e creato le condizioni per attaccarlo in forze ( quarta fase della strategia King).
L’island hopping era stato condotto da due personalità non comuni: l’ammiraglio Chester W. Nimitz , comandante in capo della flotta del Pacifico e il generale Douglas MacArthur, comandante del Settore del Pacifico del sudovest. Il primo, “saltando” di isola in isola,  era avanzato nelle Gilbert, nelle Caroline, nelle Marshall e nelle Marianne; il secondo , adottando la stessa tattica, aveva portato la bandiera a stelle e strisce a garrire in Nuova Guinea e nell’arcipelago delle Bismarck.
La domanda, a questo punto, era: quale sarebbe stata la mossa successiva? In altri termini: su quale isola sarebbe dovuta saltare la rana? Per Nimitz la mossa più sensata sarebbe stata quella di occupare l’isola di Formosa, vicina tanto al Giappone, quanto alla Cina; MacArthur, invece, avrebbe voluto occupare le Filippine. Il primo vedeva la questione da un punto di vista tattico e strategico scevro da ogni condizionamento di tipo personale; il secondo , invece, era più coinvolto emotivamente. Tre anni prima era stato costretto a lasciare le Filippine e, andandosene, aveva solennemente promesso  di ritornare. E quell’ I’ll return ( tornerò) stava alla base, insieme ovviamente alle considerazioni di tipo tattico e strategico, della sua scelta.  MacArthur non cessava di ripetere: se non tornassimo nelle Filippine, verremmo meno a una promessa solenne e perderemmo prestigio e credibilità.
La questione fu sottoposta al presidente Roosevelt e Roosevelt scelse le Filippine. Nimitz rinunciò alla propria idea di attaccare Formosa e si apprestò a collaborare.
Come prologo all’invasione  furono lanciate numerose missioni aeree e navali verso Formosa e verso le Filippine. Esse causarono gravi perdite ai giapponesi sia in termini di uomini, sia in termini di navi e di aeroplani. Quando tutto fu pronto, la forza da sbarco americana  si diresse vero le Filippine. Destinazione: l’isola di Leyte.

Vittoria.

20 ottobre 1944: il generale Douglas MacArthur – al centro, in primo piano- raggiunge la spiaggia di Leyte. Le prime parole del suo proclama al popolo delle Filippine saranno: ” I have returned”, sono tornato.

Il 20 ottobre i marines americani della Sesta Armata del generale Walter Krueger, protetti dalla Settima Flotta[1], sbarcano a Leyte. Con loro sbarca anche il generale MacArthur.
La contromossa giapponese è immediata. Il piano per contrastarli prevede una manovra diversiva e una principale. La flotta  del vice ammiraglio Ozawa deve fungere da esca [2]e attirare lontano da Leyte le portaerei dell’ammiraglio William Halsey. Contemporaneamente il vice ammiraglio Takeo Kurita con la forza principale[3] deve  sbucare a nord dell’isola di Samar attraverso lo stretto di San Bernardino, mentre le unità dei vice ammiragli Nishimura e Shima [4]devono forzare  a sud lo stretto di Surigao, convergere verso nord e unirsi alla flotta di Kurita per neutralizzare la forza da sbarco americana.  E’ la cosiddetta operazione Sho-1 ( Vittoria- 1)[5] .
Un’operazione vitale per il comandante della flotta combinata giapponese, l’ammiraglio Soemu Toyoda. Perdere le Filippine, infatti, per i nipponici equivarrebbe a un disastro: niente più afflusso del petrolio delle Indie Olandesi verso la madrepatria, niente più afflusso di armi e di munizioni dalla madrepatria verso la flotta. Impossessandosi delle Filippine, gli americani interromperebbero le vie di comunicazione giapponesi da nord a sud e viceversa. Toyoda ne è perfettamente consapevole. Dice: “Se perdiamo le Filippine, anche la flotta diventa inutile.” E così decide  di giocarsi il tutto per tutto gettando nella battaglia ogni unità di superficie disponibile, usando come esca le portaerei, quelle portaerei un tempo orgoglio della Marina Imperiale e ormai quasi inutili per mancanza di aerei e di piloti sperimentati.
E’ una partita persa in partenza. Gli americani hanno più navi, più uomini, più aeroplani. Ma il caso, un capriccio della sorte, un errore, una disattenzione, l’esecuzione perfetta delle varie fasi dell’operazione Sho-1 potrebbero renderli più vulnerabili e vanificare il loro vantaggio iniziale. Forse Toyoda spera in questo, forse confida nello spirito guerriero dei propri uomini, nei mostruosi cannoni da 460 mm delle corazzate Yamato e Musashi o nel “vento divino” in procinto di soffiare. Ma ha pur sempre meno aerei imbarcati di quanti cacciatorpediniere abbiano gli americani . E questo, di per sé, sarebbe sufficiente a spegnere ogni speranza.

L’esca invisibile.

Tanto più che per i giapponesi le cose si mettono subito male. Due sommergibili americani, il Dace e il Darter, il Cavedano e la Perca Dorata[6], avvistano, tra il 23 e il 24 ottobre, al largo di Capo Palawan non la  flotta-civetta di Ozawa, ma la flotta principale di Kurita. La seguono a tutta forza navigando in superficie, ne segnalano la presenza, si immergono , lanciano i siluri,  mandano a fondo un paio di incrociatori e ne danneggiano un terzo. Kurita ci mette del suo: intercetta il messaggio del Darter, ma non schiera la propria formazione in funzione antisommergibile. Pagandone le conseguenze.
Allertato il 23 dal Darter, Halsey mette in movimento la sua Terza Flotta[7]. Che, al momento, non è al massimo della propria potenza. Un paio di “Task Group” sono infatti in viaggio verso la base di Ulithi  nelle Caroline per riarmarsi e per rifornirsi. Dopo la comunicazione del Darter, Halsey ne richiama uno in tutta fretta, ma consente all’altro di continuare la rotta su Ulithi. Non si tratta di un Gruppo qualsiasi. Quel Gruppo( vice ammiraglio Mc Cain) conta tre portaerei di squadra e quasi il 40% della forza aerea imbarcata. Privarsene in un momento cruciale significa fare un favore al nemico. Halsey se ne rende conto e il 24 richiama anche il secondo Gruppo. Ma intanto Kurita è stato individuato, quasi per caso, da un ricognitore della portaerei Intrepid: senza aspettare Mc Cain, Halsey si appresta ad affrontarlo. Ma i problemi non mancano: il Gruppo più vicino a Kurita, quello del contrammiraglio Bogan, è anche il Gruppo più debole; la mancanza degli aerei di Mc Cain riduce – e di molto- la potenza distruttiva della Terza Flotta.

Nel frattempo Ozawa è sui carboni ardenti. Fa di tutto per farsi scoprire, ma nessuno si accorge di lui. E sì che dovrebbe essere ben visibile con le sue quattro portaerei, le sue due corazzate e relativo seguito di incrociatori(tre) e di cacciatorpediniere (otto). Niente da fare: per quanto si metta in mostra, nessuno lo vede. Questa proprio non ci voleva, impreca l’ammiraglio. Se nessuno mi vede, come diavolo può funzionare l’operazione Sho-1? Se Halsey non abbocca all’amo, che ne sarà di Kurita e compagnia?
E in effetti Kurita si trova – è proprio il caso di dirlo-  in un mare di guai. I caccia basati a Luzon non si sono fatti vedere e la promessa copertura aerea è andata a farsi benedire;  la Terza Flotta americana lo sta aspettando; Ozawa non è stato avvistato. Certo, le sue navi possono sempre sviluppare un fuoco di sbarramento micidiale, ma i suoi inesperti artiglieri sapranno garantirglielo? Il “furore divino”? Sicuramente servirà, ma servirebbero di più nervi saldi e mira sicura.
Eppure, in mezzo a tanti guai potenziali, sulle prime gli va bene. Bombardieri provenienti da Luzon attaccano il Gruppo di Sherman e nonostante subiscano perdite spaventose, riescono a colpire a morte la portaerei Princeton. Esplodendo, la nave si porta con sé anche trecento uomini dell’incrociatore Birmingham avvicinatosi per portarle soccorso.

Kurita, diretto verso lo Stretto di San Bernardino, viene intercettato da Halsey nel Mare di Sibuyan, 24 ottobre.

Kurita, diretto verso lo Stretto di San Bernardino, viene intercettato da Halsey nel Mare di Sibuyan, 24 ottobre.

I

bombardieri e gli aerosiluranti di Halsey, poi, quando arrivano si gettano come lupi affamati sulla Musashi tempestandola di siluri e bombe fino a quando non riescono a mandarla a fondo. E’ una vittoria a metà. Concentrandosi sulla supercorazzata, gli aerei americani, infatti, lasciano il tempo alle altre unità di Kurita di portarsi fuori dal loro raggio d’azione. Se fossero stati disponibili i velivoli di Mc Cain, quasi certamente sarebbe stata tutta un’altra storia e magari la partita si sarebbe potuta chiudere lì, nel Mare di Sibuyan. Invece, a parte la Musashi mandata a fondo e l’incrociatore pesante Myoko danneggiato e fuori gioco, il resto della flotta di Kurita riesce, dopo cinque ore di combattimento, a sganciarsi e, “confidando nell’aiuto divino”,  a continuare la missione.

Il Gatto Nero.

Nei pressi di Capo Engaño, frattanto, Ozawa, sempre più nervoso e impaziente, non sa più a che santo votarsi per farsi scoprire. Ha fatto viaggiare nell’etere  messaggi lunghissimi con la speranza di essere intercettato. Niente. Ha fatto alzare alcuni suoi aerei perché fossero avvistati: ancora niente.  Quando attorno alle nove del mattino del 24 ottobre, un ricognitore gli segnala la presenza del Terzo Gruppo di Sherman, manda un’ottantina di Val e di Kate ad attaccarlo. Lo scopo di Ozawa non è tanto quello di infliggere danni al nemico, quanto quello di farsi, finalmente, scoprire.(A tanto si è ridotta la Kido Butai, la forza aeronavale giapponese un tempo invincibile!)
E, invece, per qualche ora tutto resta come prima. Nessuno dei suoi ritorna e nessuno, dall’altra parte, si preoccupa di andarlo a cercare. Gli inesperti piloti giapponesi o precipitano sotto i colpi della contraerea di Sherman o preferiscono le più sicure piste di Luzon al ponte della Zuikaku; Ozawa deve aspettare le quattro del pomeriggio prima che un ricognitore americano , finalmente, lo avvisti.

La terza Flotta di Halsey si dirige a nord per intercettare Ozawa. Lo stretto di San Bernardino resta praticamente indifeso.

La Terza Flotta di Halsey si dirige a nord per intercettare Ozawa. Lo stretto di San Bernardino resta praticamente indifeso.

E a questo punto, la partita si riapre. Le portaerei giapponesi sono male in arnese, hanno sì e  no una ventina di aerei operativi, ma questo Halsey lo ignora. Credendo di dovere affrontare la forza principale, muove la sua flotta verso nord “ con tre Gruppi”, come comunica a Nimitz a Pearl Harbor. Malauguratamente, l’espressione “ con tre Gruppi” origina un colossale malinteso. Halsey, infatti, aveva in precedenza comunicato di voler formare un quarto Gruppo, la Task Force 34, agli ordini del contrammiraglio Willis “Ching” Lee per guardare lo Stretto di San Bernardino. Dunque – è il ragionamento di Nimitz –  se partono tre Gruppi, il quarto resta. E se resta, lo stretto di San Bernardino è presidiato. E lo stesso pensa l’ammiraglio Kinkaid, comandante della Settima Flotta. A lui, inspiegabilmente, il messaggio non è stato inviato: tuttavia ne è venuto a conoscenza ugualmente perché i suoi marconisti l’hanno intercettato.[8]
Ma Halsey quel Quarto Gruppo non l’ha ancora costituito, ha solo pensato di farlo. In altre parole, il Gruppo di Lee è operativo solo sulla carta. Risultato: tutte le unità della Terza Flotta, comprese quelle di Lee, se ne vanno verso nord alla caccia di Ozawa. Kurita, in rotta lungo lo Stretto , si trova , così, un’autostrada spalancata e  Sho- 1 ritorna di colpo in gioco.
Come mai Halsey lascia sguarnito quel settore così importante? E senza avvisare direttamente Kinkaid, per giunta?  Non è da lui commettere simili errori. E allora, perché lo fa? Sopravvaluta la forza di Ozawa? Sottovaluta quella di Kurita? Teme un tiro mancino da parte delle portaerei giapponesi? Considera Kurita ormai fuori gioco dopo la battaglia del Mare di Subuyan a tal punto da non ritenere necessario allertare la Settima Flotta? Per la verità Halsey specifica meglio ruolo e funzione del Gruppo di Lee in un successivo messaggio, inviato via radio alle 17, 10. Ma Kinkaid non lo riceve né lo intercetta.
Quando un Catalina in ricognizione notturna- un “Gatto Nero” come era chiamato in gergo- avvista la flotta di Kurita già dentro lo Stretto, più di un ammiraglio sente puzza di bruciato. Il primo ad allarmarsi è il contrammiraglio Bogan: gira l’informazione a Halsey per sentirsi rispondere da un ufficiale di servizio, quasi con sufficienza : “Sì, sì,  abbiamo quell’informazione.” Come dire: “ Smettetela di scocciarci con queste sciocchezze.” Il contrammiraglio Lee insiste: “ E’ una trappola”, ma nessuno gli dà retta. Lo stesso comandante tattico della Task Force 38, il vice ammiraglio Marc Mitscher, tirato giù dalla branda e informato dai suoi collaboratori, non avverte Halsey. “ Conosco il tipo: se vorrà il mio parere, me lo chiederà”, dice. E ritorna a dormire.
E intanto davanti allo Stretto di San Bernardino non c’è neppure un cacciatorpediniere americano.

“Crossing the T”.

Nel frattempo, nella zona meridionale dello scacchiere, Nishimura e Shima diretti verso lo Stretto di Surigao vengono avvistati e Kinkaid si appresta a contrastarli. Deve fare presto e non può sbagliare.  Considerando rotta e velocità del nemico, Kinkaid dovrà combattere di notte una battaglia convenzionale, nave contro nave: col buio, infatti, gli aerei sono inutilizzabili. Ma se anche fossero utilizzabili, non potrebbe impiegarli: la flotta di Halsey con i suoi velivoli imbarcati è ormai lontana. Così Kinkaid fa catapultare in volo i pochi aeroplani di cui dispone, li invia al sicuro a Leyte e si prepara allo scontro. Con qualche apprensione: i giapponesi hanno infatti dimostrato più di una volta di essere quasi imbattibili nei combattimenti navali notturni.
Il contrammiraglio Jesse Oldendorf, comandante del Gruppo di bombardamento della flotta di Kinkaid, però, disegna un piano pressoché  perfetto. Le acque dello Stretto non sono molto profonde, lo spazio è ridotto, le navi giapponesi dovranno per forza di cose viaggiare in colonna. E’ un’ottima occasione per “ incrociare la T”( crossing the T), per realizzare, cioè, quella manovra in cui  tutte le proprie navi possono esprimere la massima potenza di fuoco , mentre le navi nemiche possono colpire solo con i cannoni di prua delle navi di testa. Oldendorf  dispone, così, le corazzate all’uscita dello Stretto, in riga, prua contro poppa e le protegge con uno schermo di cacciatorpediniere in funzione antisommergibile steso verso il mare aperto. Davanti alle corazzate verso l’interno dello Stretto, in una posizione più avanzata, sistema gli incrociatori e i caccia di scorta.

Le danze vengono aperte dalle motosiluranti, quelle PT (Patrol Torpedo) sulle quali, durante il conflitto, prestò servizio, con il grado di tenente, anche il futuro presidente degli Stati Uniti d’America, John F. Kennedy. Nella notte  senza luna e nera come la bocca del lupo, tre di esse intercettano le navi di Nishimura circa  a metà dello Stretto, ma sia i loro sia i successivi tentativi di altre PT  di colpirle con i siluri vanno a vuoto. Tuttavia, i messaggi radio inviati in continuazione dalle motosiluranti  permettono a Oldendorf di monitorare miglio dopo miglio gli spostamenti di Nishimura. Al momento opportuno, l’ammiraglio americano fa allora muovere due gruppi di cacciatorpediniere, il primo dal lato occidentale dello Stretto, il secondo da quello orientale. Gli ordini sono di attaccare soltanto con i siluri. Il fuoco di batteria viene espressamente vietato: il nemico non deve avere alcun punto di riferimento.
Col cuore in gola, tesi, gli equipaggi dei cacciatorpediniere muovono verso la flotta di Nishimura e verso i terribili siluri Long Lances in agguato nel buio. Più o meno nello stesso momento, Kurita entra nello Stretto di San Bernardino.

Attaccati dalle navi americane, Nishimura e Shima si ritirano.

Attaccati dalle navi americane, Nishimura e Shima si ritirano. Clicca sulla cartina per ingrandirla.

Quando ne esce, la battaglia di Surigao è già finita. Colpite dai siluri dei cacciatorpediniere della prima e, soprattutto, della seconda ondata, fatte segno dal fuoco concentrico delle corazzate e degli incrociatori americani, diverse navi, fra cui un paio di corazzate( la Fuso e la Yamashiro), erano andate a fondo, inducendo Nishimura ad abbandonare la contesa. Navigando una ventina di miglia dietro di lui, Shima era arrivato sul luogo dello scontro quando ormai Nishimura era in ritirata e non aveva trovato di meglio che seguirlo. Neutralizzando la forza meridionale destinata a congiungersi con la forza principale per attaccare Leyte, Oldendorf aveva tolto a Sho-1  l’ultima possibilità di funzionare. E anche Kurita quando intorno alle cinque e trenta del mattino riceve la comunicazione del disastro di Surigao sente le proprie certezze vacillare. Ma l’ordine è quello di andare avanti, costi quello che costi. E l’ammiraglio giapponese, ligio agli ordini e sempre confidando nell’ “ aiuto divino”, va avanti.

Tre pacchetti di caramelle.

Quando esce dal San Bernardino, Kurita quasi non crede ai propri occhi: non c’è una nave nemica a pagarla, il mare è completamente sgombro. Che sia tutto un maledetto imbroglio? Anche il pilota del ricognitore in volo sullo Stretto alle sei e quarantacinque del 25 ottobre non crede ai propri occhi: sotto di lui, al largo dell’isola di Samar, quattro corazzate, sei incrociatori e undici cacciatorpediniere giapponesi si stanno dirigendo a tutta velocità verso Leyte. Chi riceve la comunicazione si preoccupa meno dell’agitatissimo pilota e predica calma e sangue freddo: sicuro di non esserti sbagliato? di non aver scambiato le navi di Kurita con ciò che resta della flotta di Nishimura? E poi anche ammesso che si tratti della forza principale,  spetta alla Task Force 34, quella dell’ammiraglio Lee, occuparsene.
Se ci fosse, naturalmente.

Ad aspettare Kurita  ci sono, invece, soltanto tre gruppi di escort carriers, di portaerei di scorta, denominati “Caramella uno (Taffy one), due (Taffy two) e tre (Taffy three)”. I tre Gruppi imbarcano circa quattrocento aerei equipaggiati in gran parte con bombe di profondità. Il compito delle CVE( così erano codificate le escort carriers) era infatti, come abbiamo visto, quello di dare la caccia ai sommergibili. Lente, quasi prive di corazza, armate di un unico cannone da cinque pollici erano sarcasticamente indicate dagli equipaggi, giocando sul loro acronimo, come unità infiammabili ( Combustible),  vulnerabili ( Vulnerable) e sacrificabili ( Expendable). Ebbene, ora quelle unità senza pedigree e la loro misera scorta di cacciatorpediniere stanno per essere investite dalla forza di un gigante. Davide contro Golia, se vogliamo usare un’immagine di cui si abusa spesso in casi come questi e di cui si abusò a lungo anche dopo la conclusione della battaglia. Un ufficiale di un cacciatorpediniere della scorta, andrà oltre: “ Ci sentivamo come Davide senza la fionda”, affermerà.

Il Davide di Leyte è, senza alcun dubbio, Taffy three, il Gruppo più vicino alla rotta di Kurita. Lo comanda il contrammiraglio Clifton  A.F. “Ziggy” Sprague. Ha prestato servizio sulle corazzate, sugli incrociatori, sulle portaerei come comandante di squadra aerea prima e come comandante effettivo, poi. Ha sposato la sorella del celebre scrittore Francis Scott Fidgerald, quello del Grande Gatsby, per intenderci. Quando avvista Kurita, Sprague informa Kinkaid e subito dopo arma, come può, la propria fionda. Dal canto suo l’ammiraglio giapponese crede di trovarsi di fronte la Terza Flotta di Halsey, non una manciata di morbide“ caramelle”. Un equivoco, questo, destinato a pesare sull’esito della battaglia. Ma non è l’unico. Anche dall’altra parte, in quanto a malintesi, non si scherza. Non si scherza proprio.

The world wonders.

Comparso all’orizzonte Kurita, Kinkaid  invia per radio a Halsey una richiesta d’aiuto, illustrando la situazione: siamo attaccati da forze preponderanti, di Lee nessuna traccia e via discorrendo. Nimitz capta il messaggio e, a sua volta, manda una comunicazione in codice a Halsey chiedendo dove si trovi la Task Force  34. Nei messaggi in codice si era soliti piazzare una frase senza un apparente senso all’inizio, un’altra alla fine. Così, tanto per trarre in inganno i giapponesi in ascolto. Il messaggio inviato da Nimitz a Halsey contiene entrambe le frasi.  Si apre con l’immagine di un tacchino trotterellante verso l’acqua ( Turkey trots to water), continua chiedendo dove si trovi la Task Force di Lee e si chiude con la presa in prestito di un mezzo verso di Tennyson, il cantore della Brigata Leggera di Balaclava the world wonders ( nell’ originale di Tennyson: the world wonder’d). [9]
Ora il verbo to wonder, in inglese, ha un doppio significato. Può voler dire, a seconda dei contesti, tanto “chiedersi”, quanto “ meravigliarsi”, “stupirsi”. Nella ballata di Tennyson, ad esempio, il mondo resta “stupito”, “ meravigliato” di fonte al coraggio e al valore dei Seicento . Di regola, le frasi- civetta venivano cancellate da chi riceveva il messaggio: la comunicazione doveva risultare chiara e mai equivoca. Nel nostro caso, invece, chissà perché, viene eliminata la prima parte ( il tacchino assetato o aspirante nuotatore), ma non la seconda.
Halsey si trova così fra le mani il seguente messaggio: Where is, repeat, where is the Task Force 34? The world wonders, interpreta quel the world wonders come “il mondo se lo chiede” e ci resta quasi secco: che Nimitz gli stia facendo un cazziatone? Che stia mettendo in discussione le sue competenze, le sue capacità di comandante, le sue scelte tattiche? Scosso, demoralizzato, le mani tremanti, “Bull” Halsey non trova neppure la forza di parlare. Quando rientra in sé, trova una scusa qualsiasi, dice di dover rifornire le navi, allenta la presa su uno stremato e  malconcio Ozawa e solo tre ore dopo aver ricevuto il messaggio di Kinkaid ordina di distaccare alcune unità in aiuto a Taff three. Arriveranno a cose fatte.
Naturalmente Nimitz non aveva alcuna intenzione di criticare Halsey né era stata sua la scelta di quell’infelice frase finale. A lui premeva sapere dove fosse la Task Force di Lee, non che cosa si chiedesse o per che cosa si meravigliasse il mondo intero. Ma chi doveva aggiungere le frasi-trabocchetto al testo del messaggio aveva piazzato a mo’ di conclusione “ la prima cosa che [gli] era venuta in mente” o magari, facendo sfoggio di cultura, aveva voluto ricordare l’anniversario della battaglia di Balaclava, combattuta proprio il 25 ottobre( del 1854).  E chi avrebbe dovuto depurare il messaggio da ogni sovrastruttura prima di consegnarlo a Halsey non l’aveva fatto fino in fondo, forse convinto dell’essenzialità di quel “the world wonders”. Perché un’altra regola di base era stata violata: quella di non inserire mai frasi fasulle collegabili anche lontanamente, in quanto a significato, con il testo del messaggio. E scrivere il mondo se lo chiede sarebbe potuto risultare al destinatario del messaggio non estraneo, ma congruente con quanto affermato nel testo. Insomma, una serie di equivoci clamorosi.

Fuoco a volontà!

I giapponesi non sono da meno. Quando le vedette di Kurita avvistano Taffy three – un lillipuziano- lo scambiano per un gigante. Là dove ci sono solo minuscole baby-flattop [10]vedono enormi portaerei di squadra, là dove navigano fragili cacciatorpediniere vedono muoversi agguerrite corazzate. Kurita va in tilt. Anziché disporre le proprie unità secondo un piano logico, individuando obiettivi, priorità e coordinando i tempi dell’azione, ordina di mettere in canna proiettili perforanti, suona la carica e scatena l’“attacco generale”. Detto in altri termini, autorizza i propri comandanti ad agire di testa propria. Disperdendo la sua potente armada e togliendole potenza.
Da parte sua, Sprague ha poche carte in mano, ma le gioca bene. Manda in volo gli aerei imbarcati ad attaccare con le bombe di profondità- e, se del caso, anche con le sole mitragliatrici- le unità nemiche, ordina ai cacciatorpediniere di scorta di alzare una cortina fumogena e dirige le proprie portaerei verso la protezione delle nuvole di un’improvvisa tempesta scatenatasi nelle vicinanze. E mentre i proiettili perforanti giapponesi cadono intorno e sulle CVE talvolta trapassandone lo scafo da parte a parte e andando a perdersi in mare, un cacciatorpediniere americano inverte la rotta e  attacca.
E’ il Johnston del comandante Ernest E. Evans. E’ lui il sasso della fionda. Di origini Cherokee, Evans – per usare le parole di un suo subordinato-  non conosce il significato del verbo “ ritirarsi”. Di propria iniziativa, avanza zigzagando verso il nemico, dirigendosi laddove è caduto l’ultimo colpo a vuoto, certo che gli artiglieri giapponesi correggeranno il tiro e  non lo ripeteranno.  Quando arriva a distanza utile, fa armare i suoi dieci siluri.
Mentre il Johnston sta uscendo dal fumo, a nord non c’è quasi partita. E ci sarebbe mancato altro. Ozawa è tartassato e ritartassato da forze superiori. Ha già perso la gloriosa Zuikaku e un paio di altre portaerei, sta patendo le pene dell’inferno. Poi quella richiesta e quell’affermazione : the world wonders
Ozawa, per un po’, respira.

“Maledizione, ci stanno scappando!”

Battaglia di Samar

Kurita rinuncia ad attaccare la forza da sbarco americana, inverte la rotta e se ne va.

Il Johnston lancia i suoi siluri e subito fila a nascondersi dietro una cortina di fumo. Quando ne riemerge, ha davanti un incrociatore pesante, il Kumano, imballato e alla deriva. I marinai non hanno tempo di rallegrarsi. Un altro incrociatore nemico, il Kongo, apre il fuoco e spazza il ponte del Johnston. All’indiano Cherokee Evans una scheggia trancia due dita di una mano.
Il Johnston, adesso, non è più solo. Anche gli altri cacciatorpediniere si avvicinano alla flotta di Kurita. Sono vicini, tanto vicini da impedire alle potenti navi giapponesi di adattare l’alzo dei propri cannoni ai nuovi bersagli. Altri siluri vanno a segno. E altri aerei arrivano, a ondate, da Taffy 1 e da Taffy 2. Atterrano a Leyte, si riarmano e ritornano  a colpire. Il Chokai e il Chikuma vanno a fondo. La stessa Yamato viene centrata e per dieci decisivi minuti viene tolta, per precauzione, dalla battaglia. Altrove, l’Hoel  attira su di sé un numero di navi sproporzionato rispetto al reale pericolo, permettendo alle escort carriers di mettere altra distanza fra sé e il nemico. Il Johnston con il motore in avaria e il ponte semidistrutto è ancora in partita e i suoi cannoni da 130 centrano a più riprese le navi giapponesi.

Poi, improvviso, il colpo di scena. Intorno alle 9,30 del mattino, Kurita decide di averne abbastanza e se ne va. Perché lo fa? Perché, convinto di avere davanti Halsey con la Terza Flotta, non vuole perdere altre navi? Perché ha abbandonato ogni speranza di portare a tiro di propri cannoni il vero obiettivo dell’intera operazione, la forza da sbarco americana come gli ha fatto credere Kinkaid con un falso messaggio? Perché vuole raggruppare le proprie navi sparse qua e là in seguito all’ “attacco generale”? Vedendolo andarsene, gli esterrefatti e increduli marinai di Taffy three restano senza parole. E ci resterebbero a lungo se uno di loro, dotato di senso dell’umorismo, non prorompesse in un’esclamazione a metà fra il paradossale e il liberatorio: “ Maledizione, ci stanno scappando!”( Damn it, boys, they’re getting away!).
Ma se le navi si sono date per vinte, gli aerei non  l’hanno fatto. Su un paio di escort carriers si abbatte per la prima volta il vento divino, il kamikaze: una portaerei viene danneggiata, l’altra, la Saint Lo,  va a fondo[11].

Epilogo.

Il Johnston è ormai ridotto a un relitto quando Evans ne ordina l’abbandono. Si è battuto fino all’ultimo, sparando con i suoi 130. Ma nulla ha potuto contro i cannoni delle navi nemiche. Gli uomini dell’equipaggio scendono sulle scialuppe, altri si tuffano in mare.  Evans è con loro. I marinai giapponesi si inchinano a tanto valore a agitano i berretti in segno di omaggio. Una volta  in salvo, i superstiti per prima cosa cercano il loro comandante. Invano.
Per il protagonista di quella partita sulla quale nessuno avrebbe mai scommesso un centesimo, era già pronta una Medal of Honor.
Gli sarà conferita alla memoria.

L’ammiraglio Halsey, autore secondo molti studiosi di errori in serie, fu invece celebrato come un novello Nelson.

Da leggere:

Giorgio Borsa, Dieci anni che cambiarono il mondo 1941-1951:storia politica e diplomatica della guerra nel Pacifico, Milano ,Corbaccio, 1995.
Dobrillo Dupuis, Arcipelaghi in fiamme : il secondo conflitto mondiale nello scacchiere del Pacifico, Milano, Mursia, 1999
Flavio Fiorani , La guerra del Pacifico, Firenze, Giunti, 2000.
Kenneth I. Friedman, The afternoon of the Rising Sun, Presidio 2001
François Garçon , La guerra del Pacifico, Firenze , Giunti, 1999
Martin Gilbert, La grande storia della Seconda Guerra Mondiale, 1989
Marcel Giuglaris, Storia della guerra del Pacifico : da Pearl Harbour a Hiroshima, Milano, Sugar, 1966
Bernard Ireland, La più grande battaglia aeronavale della storia : la fine della flotta giapponese : Leyte, ottobre 1944;  con illustrazioni di Howard Gerrard. – Milano : RBA, 2009.
Kakehashi Kumiko , Così triste cadere in battaglia : rapporto di guerra. Basato sulle lettere da Iwo Jima del generale Kuribayashi Tadamichi ; traduzione di Piero Arlorio ; prefazione di Mario Rigoni Stern, Torino, Einaudi, 2007.
Donald Macintyre , La battaglia del golfo di Leyte,  Parma, Albertelli, 1971
Edward P. Stafford, La Big E : la portaerei Enterprise nella guerra del Pacifico, Milano, Baldini & Castoldi, 1967
Pier Francesco Vaccari , Leyte : la battaglia navale più grande della storia, 24-26 ottobre 1944, Novale-Valdagno, Gino Rossato, 2004.
Sergio Valzania,  La guerra del Pacifico, Mondadori le Scie, 2020
Comer Vann Woodward, La battaglia del golfo di Leyte, Milano,  A. Mondadori, 1967

bandiera inglese

English automatic translation: The sling and the stone

Su questo sito:

Cinque minuti. Midway 1942: la vittoria ” impossibile”.
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Due gru e una Signora La ” gru Che Vola”, la “Gru Che Porta Felicità” e “Lady Lex” accomunate dallo stesso destino  nel Mar dei Coralli(1942).
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Inferno verde Guadalcanal 1942-43: sei mesi all’inferno.
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Sangue e cenere A Iwo Jima, “l’isola dello zolfo”,  in trentasei giorni cadono settemila marines. Quasi duecento al giorno.
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I fiori di fuoco
Okinawa 1945: una strage infinita, errori tattici, “vento divino” e una decisione che sconvolse il mondo.
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Leyte, 24-26 ottobre 1944: i movimenti delle flotte e le fasi della battaglia.

Leyte, 24-26 ottobre 1944: i movimenti delle flotte e le fasi della battaglia.


[1] La Settima Flotta( Vice ammiraglio Thomas C. Kinkaid) comprendeva le forze da sbarco e le relative scorte. In particolare: sei corazzate, diciotto portaerei con funzioni di scorta ( escort carriers, CVE), quattro incrociatori pesanti, cinque leggeri,  ottantatré cacciatorpediniere, venticinque cacciatorpediniere di scorta ( escort destroyers) , undici fregate e quarantaquattro motosiluranti(PT). Essa era organizzata in due gruppi: gruppo di bombardamento e supporto ( contrammiraglio Jesse B. Oldendorf) e gruppo delle portaerei adibite a scorta( contrammiraglio Thomas L. Sprague). Quest’ultimo gruppo era articolato in tre sottogruppi: “Taffy One”, contrammiraglio Thomas L. Sprague; “Taffy Two”, contrammiraglio Felix B. Stump; “Taffy Three”, contrammiraglio Clifton A.F. Sprague, omonimo, ma non parente del comandante del gruppo delle CVE. Il gruppo delle escort carriers  eserciterà, come anticipato nel prologo, un ruolo inaspettato e decisivo nella battaglia.
[2] La forza settentrionale ( l’esca della trappola) agli ordini del vice ammiraglio Jisaburo Ozawa comprendeva una portaerei di squadra ( la “Gru Che Porta Felicità”, la Zuikaku), tre portaerei leggere, due corazzate, tre incrociatori leggeri e otto cacciatorpediniere.
[3] La forza centrale del vice ammiraglio Takeo Kurita era composta da cinque corazzate (tra le quali  le due supercorazzate Yamato e Musashi), dieci incrociatori pesanti, due leggeri e quindici cacciatorpediniere.
[4] La forza “C” dell’ammiraglio Shosij Nishimura comprendeva due corazzate, un incrociatore pesante e quattro cacciatorpediniere; la seconda forza d’attacco dell’ammiraglio Kiyohide Shima  di supporto a Nishimura era formata da due incrociatori pesanti, uno leggero e sette cacciatorpediniere.
[5] E’ la prima di quattro operazioni, tutte denominate Sho ( Vittoria), allestite per proteggere il territorio giapponese. Il Comando Imperiale tuttavia, benché avesse preparato la difesa delle Isole Giapponesi, riteneva come più probabile- cosa confermata dai fatti successivi-  un attacco americano alle Filippine.
[6]La Perca Dorata è un piccolo pesce della famiglia dei Percidi , presente nelle acque di numerosi fiumi americani. Assomiglia un po’ al nostro “Persico sole”.
[7] La Terza Flotta ( ammiraglio William “Bull” Halsey), incentrata sulla Task Force 38( vice ammiraglio Marc Mitscher) costituita da otto portaerei di squadra, otto portaerei leggere, sei corazzate, sei incrociatori pesanti, nove incrociatori leggeri e cinquantotto cacciatorpediniere era divisa in quattro Gruppi , comandati , rispettivamente, dal vice ammiraglio John S. Mac Cain e dai contrammiragli Gerald F. Bogan,  Frederick C. Sherman, Ralph E. Davison.
[8] La struttura del comando americano era poco funzionale. L’ammiraglio Halsey rispondeva a Nimitz( comandante della flotta del Pacifico), mentre Kinkaid dipendeva dal generale Douglas Mac Arthur( comandante del Settore del Pacifico di sudovest). In sostanza, a Leyte mancava un comandante unico, in grado di coordinare le operazioni e di assumere al momento, le decisioni necessarie e più opportune. Forse fu per questa ragione che Halsey informò il suo superiore diretto( Nimitz), ma non Kinkaid. O forse si trattò di una dimenticanza o di un equivoco.
[9] Questo il testo completo depurato dalle varie sigle relative al mittente e al destinatario : “Turkey trots to water.XX Where is, RPT ( sta per Repeat), where is the Task Force 34? XX The world wonders.” La doppia x sta a indicare il punto di interruzione  fra una frase e l’altra.
[10] Altro termine usato, soprattutto dalla stampa statunitense,  per indicare le CVE. Le flat-top o flattop erano imbarcazioni “tutto ponte”, ricavate di solito da navi mercantili  e destinate a imbarcare un numero limitato di aerei. Il vocabolario Treccani così definisce una “ tutto ponte”: “ In marina, termine riferito a navi militari per significare che hanno il ponte più elevato, scoperto, che corre, senza soluzione di continuità e libero da ingombri (tranne una sovrastruttura laterale detta isola), dall’estrema poppa a prua estrema, così da permettere l’impiego di aeromobili, a similitudine del ponte di volo di una portaerei”.
[11] Complessivamente, nel corso della battaglia, i giapponesi persero ventiquattro navi da guerra, gli americani sette. Le perdite giapponesi in vite umane furono molto elevate( diecimilacinquecento uomini; tremila circa gli americani caduti. Fonte : Wikipedia).

Una mappa animata della battaglia   era consultabile alla voce Pacific War del sito historyanimated.com. Sembra, tuttavia, che il sito in questione non sia più attivo.

Sotto il titolo: i cacciatorpediniere di Taffy three cercano di proteggere le CVE emettendo fumo.

PS. Nel mare delle Filippine, nell’ottobre del 1944, si svolsero, come abbiamo visto, cinque battaglie distinte: la battaglia di Capo Palawan nel corso della quale il Dace e il Darter attaccarono la flotta di Kurita, quella del Mare di Sibuyan quando Halsey mosse la Terza Flotta contro la flotta principale giapponese, quella dello Stretto di Surigao fatale a Nishimura e a Shima, quella di Samar – Davide contro Golia- e quella di Capo Engaño nel corso della quale furono affondate le portaerei di Ozawa. A ben vedere, nessuna di esse fu  combattuta all’interno del Golfo di Leyte. Per questa ragione, c’è chi preferisce parlare della battaglia per (for)Leyte più che della battaglia di (of)Leyte.
Secondo molti storici, quello di Leyte fu il più grande scontro navale della storia, sia per il numero di unità impegnate, sia per l’elevata posta in palio. Avrebbero potuto vincere i giapponesi? E a questo punto, proviamo a essere storicamente eretici usando il famigerato se. Se Ozawa fosse stato avvistato subito, se Kurita non avesse avuto paura di andare fino in fondo, se Nishimura e Shima si fossero presentati uniti e non distanziati di quaranta miglia nello Stretto di Surigao, se il Johnston fosse filato via a tutto vapore anziché combattere, se Kurita non avesse scambiato una specie di Armata Brancaleone per un terribile tercio spagnolo e via discorrendo, come sarebbe andata a finire?
Con i se non si fa la storia? Certamente, ma quale stimolante esercizio sarebbe raccontare – e non solo a proposito di Leyte- un’altra storia. Come ha fatto – prefigurando scenari da brividi, in verità- Robert Harris con il suo Fatherland.
Qualcuno se la sente di provarci con Leyte?